24 ~Dall'aereo non si può scappare~ ✔
Quello che più mi colpì di Fiumicino fu il suo dinamismo, le persone sembravano palline da ping pong impazzite che si spostavano di fretta da una parte all'altra senza un ordine preciso. Uno spettacolo di colori, forme e suoni che, nella loro confusione, avevano un indiscutibile motivo di esistere. L'eccitazione che c'è nel viaggio viene assorbita come una spugna dall'aeroporto e, quel giorno, io ero parte integrante di quella melodia composta dagli annunci delle partenze e degli arrivi, dallo stridio delle rotelle dei trolley sul pavimento consumato e dal rombo del motore degli aerei che spiccavano il volo verso destinazioni sconosciute e lontane.
L'appuntamento con gli altri atleti della delegazione olimpica, quel giorno, era fissato davanti la statua dell'Uomo Vitruviano di Leonardo Da vinci. Nonostante avessimo perso del tempo a casa di Lia, eravamo comunque in anticipo, due ragazze con altrettante valigie rigonfie e pesanti e una donna slanciata che, con classe, trascinava il suo bagaglio di Louis Vuitton indossando un paio di occhiali di Prada, che le nascondevano gran parte del viso asciutto.
Non appena ci avvicinammo alla statua scorsi una figura seduta su una delle poltroncine davanti ai terminal delle partenze, a primo impatto non capii chi fosse ma, quando sollevò la testa nella nostra direzione, non ebbi più dubbi.
Lia mi strinse il braccio: «scusa, mi ha tempestato di telefonate, non potevo non dirglielo».
«Da quando hai il suo numero?», le chiesi seccata.
«Me lo ha chiesto in una di quelle occasioni in cui abbiamo parlato fuori dalla palestra. Più che chiesto mi ha pregata assicurandomi che lo avrebbe usato solo in caso di necessità».
Sicuramente non si poteva affermare che a Giorgio mancasse la tenacia.
Mi diressi verso di lui lasciando che mia madre e Lia andassero a controllare se l'aereo fosse in orario a uno dei tanti monitor.
«Ciao», mi disse appena fui a una distanza accettabile affinché la sua voce sovrastasse il trambusto dell'aeroporto.
«Ciao! Che ci fai qui?», gli domandai con un'aria molto seria.
«Lo so che abbiamo parlato e mi hai già dato il tuo parere», iniziò a dire cercando di indovinare i miei pensieri, «volevo solo salutarti».
«E sei venuto fin qui solo per questo?», domandai incredula.
Fece un piccolo movimento con le spalle stringendosi nella sua camicia a quadri bianca e nera che gli metteva in risalto, ancor di più, gli occhi di onice. Conoscevo bene quelle movenze, nascondevano una sensazione molto comune e che, io, avevo già provato sulla mia pelle per tanto tempo: il rifiuto.
«Adesso mi sento uno stupido in effetti», rispose cercando di sorridere senza riuscirci.
«Assolutamente no. Sono io che mi sento in colpa per non averti più cercato».
Ed era vero, ma nella vita bisogna fare delle scelte dettate dal cuore.
«Comunque ti ho portato una cosa», esclamò riacquistando un minimo di vitalità.
Dalla tasca posteriore dei suoi jeans estrasse un piccolo libricino dall'aria consumata, «so che è stato il tuo compleanno qualche giorno fa».
Io d'istinto cercai con lo sguardo Lia che, probabilmente, stava intrattenendo mia madre per evitare che ci disturbasse: «sì, è stata lei a dirmelo», esclamò Giorgio avendo tradotto le mie occhiate.
Sorrisi non sapendo bene cosa dire e afferrai il libro: «grazie».
«È una raccolta di poesie, non è proprio un regalo visto che è usato», iniziò a dire balbettando, «ma mi faceva piacere che avessi qualcosa di mio».
«È un pensiero davvero carino». Aprii il libro, alcune pagine avevano le orecchie, altre erano sottolineate e, altre ancora, erano riempite da una scrittura tonda e ordinata che decorava gli spazi bianchi.
«Sono degli appunti, riflessioni che mi sono venute in mente mentre leggevo».
La semplicità e la dolcezza dei suoi gesti mi spiazzava ogni volta. Lo abbracciai con il libro ancora in mano, le sue dita affusolate, poggiate sulla mia schiena, mi avvolsero con intensità, come se volessero far durare in eterno quel momento.
Quando ci staccammo i nostri sguardi si sfioravano in imbarazzo.
A quel punto sentii una risata fastidiosa penetrarmi i timpani, mi voltai e, il rosso dei capelli di Sveva, spiccò in lontananza come una pecora nera in mezzo ai classici batuffoli bianchi. Era riuscita a rendere sexy anche la tuta di rappresentanza della nazionale, la zip, infatti, era abbassata ad arte per mostrare una scollatura resa generosa da un push up che le evidenziava il seno. Era accerchiata dalla squadra maschile e monopolizzava la conversazione passandosi, di tanto in tanto, una mano tra i capelli. Anche Samuele era in quel gruppetto poi, accortosi che lo stavo osservando, avanzò verso di me. Si avvicinò e si abbassò per sussurrarmi un ciao all'orecchio e darmi un piccolo bacio sul collo.
Giorgio inspirò profondamente e spostò lo sguardo in un'altra direzione.
Io mi irrigidii, era la prima volta che Samuele mi salutava in quel modo.
«Cos'è ho interrotto qualcosa?», domandò lui a nessuno dei due in particolare.
«Direi di sì», rispose Giorgio seccato.
«E cosa, sentiamo?».
Giorgio aprì la bocca come per dire qualcosa ma poi si fermò.
«Cos'è hai perso la voce?», ironizzò Samuele, «non ti è bastata la nostra ultima chiacchierata?».
«Senti, Juri Chechi dei poveri, finiscila!».
Samuele avanzò verso di lui, Giorgio lo superava di dieci centimetri in altezza ma, i suoi muscoli, seppur ben definiti, erano piccoli e probabilmente non in grado di resistere a una lotta.
«Ripetilo, se hai coraggio».
«Ju...», iniziò a sibilare Giorgio sostenendo la sguardo di Samuele senza nessuna intenzione di voler interrompere il contatto visivo.
A quel punto mi misi tra di loro per separarli: «basta, siete entrambi maggiorenni, non mi fate dubitare anche di questo».
«È lui che ha iniziato», esclamò Giorgio con la voce che sembrava essergli tornata normale, «ero solo venuto per salutarti».
A quel punto mi prese per le spalle girandomi verso di lui, si accostò al mio viso e mi diede un bacio all'angolo della bocca, sentii le sue labbra carnose poggiarsi dolcemente per un lasso di tempo prolungato rispetto al normale: «torna con una medaglia», sussurrò inondandomi con il suo alito fresco di menta.
Annuii sorridendo.
«Ciao centauro», disse Samuele con un tono di voce eccessivamente alto, «staremo bene in Brasile, non preoccuparti per noi».
Giorgio fece un altro respiro profondo, lanciò un'occhiata aggressiva alle mie spalle ma poi si girò per dileguarsi tra la folla.
«Non c'era bisogno di essere così cattivi».
Samuele sorrise e mi cinse con un braccio stringendomi al petto: «non vedo l'ora di fare questo viaggio con te, avremo tanto tempo per stare insieme», disse accarezzandomi i capelli, «mi manca il tuo corpo».
Il mio cuore fece uno scatto degno di un centometrista. Quest'Olimpiade mi avrebbe cambiata, come ginnasta e come ragazza, ne ero sicura.
Una volta che furono arrivati tutti i ginnasti, Enrico e fisioterapisti compresi, potemmo muovere i nostri primi passi verso un viaggio lungo dodici ore, un tempo infinito per me che non ero mai uscita dall'Europa.
Volare mi aveva sempre rilassata, mi sistemavo comoda sui sedili morbidi con le cuffie nelle orecchie, osservavo il paesaggio diventare sempre più piccolo man mano che si acquistava quota e poi, quando rimanevano solo le nuvole, chiudevo gli occhi pronta a schiacciare un pisolino fino all'arrivo. Ma questa volta si trattava di dodici ore, temevo già di annoiarmi a morte.
Fortunatamente l'aereo risultò confortevole, tre file di sedili posizionati a una distanza tale da agevolare la comodità e piccoli schermi con memorizzati una grande quantità di film per tutti i gusti.
Samuele mi aveva tallonato per tutto il tragitto tra il check in e l'imbarco, era chiaro che volesse sedersi vicino a me e, io, non vedevo l'ora di passare del tempo con lui. Mia madre ci mostrò i posti a noi riservati, Samuele mi aiutò a sistemare la borsa nella cappelliera e io scelsi il sedile vicino l'oblò. Il terzo posto, quello posizionato al limitare del corridoio, stava per essere occupato da Yasmine quando, poco prima che si sedesse, una furia dai capelli rossi le diede una leggera spinta con l'anca: «ci sono altri posti dietro», esclamò Sveva in risposta allo sguardo sbalordito di Yasmine, «devo stare davanti perché... altrimenti mi viene da vomitare», specificò scivolando con irruenza accanto a Samuele.
«Non siamo in pullman», borbottai infastidita.
Poco dopo la partenza un fortissimo profumo alla lavanda iniziò a pizzicarmi il naso, speravo che Sveva si mettesse comoda e sprofondasse in un lungo e silenzioso letargo; invece sembrava super attiva ed eccitata, si tolse ben presto la felpa nera rimanendo in canottiera benché ci fosse l'aria condizionata, si legò i capelli in uno chignon approssimativo e iniziò a tempestare Samuele di richieste e scuse banali per distrarlo da me. Lui l'assecondava in tutto, le sistemò il sedile, le prese per ben due volte la borsa nella cappelliera, le prestò un fazzoletto e, infine, rispose a tutte le sue domande sui film che la compagnia aerea offriva nei monitor.
Io stavo iniziando a sentirmi soffocata, non per l'altezza ma perché era tutto un "Samu di qua e Samu di là". Se ci fossero stati dei posti liberi non avrei esitato a spostarmi ma, purtroppo, ero obbligata a rimanere inchiodata lì e a patirmi la voce stridula di Sveva per dodici, infinite e snervanti, ore.
Finalmente, dopo circa un'ora di idiozie, Sveva sembrò placarsi, io avevo iniziato a vedere una commedia per cercare di distrarmi ma, le battute demenziali di Boldi e Abatantuono, mi avevano solo strappato qualche mezzo sorriso tirato. A quel punto Samuele approfittò del silenzio per chiedermi se potevo prestargli una cuffia in modo da poter guardare il film insieme, gli sorrisi mentre lui si avvicinò appoggiandomi una mano sulla coscia. Ora, quella commedia, mi sembrò la più bella che avessi mai visto, Samuele iniziò a ridere, a prendere in giro gli attori imitandoli e a passarmi i polpastrelli delicatamente sull'avambraccio.
Ma la pace durò poco. D'improvviso Sveva iniziò a sventolarsi il viso con una mano: «Samu! Non mi sento bene».
«Cos'hai?», le chiese lui togliendosi la cuffia dall'orecchio.
«Non lo so, forse un attacco di panico», rispose iniziando a espirare e inspirare in modo affannoso con le mani che le tremavano.
«Ma tu non hai mai avuto attacchi di panico», esclamò lui sorpreso.
«Be' non lo so, magari è l'aereo».
Samuele le abbassò il sedile: «distendi le gambe, ti vado a prendere qualcosa».
I miei occhi divennero due fessure, era un'attrice nata e Samuele abboccava ad ogni sua assurdità. Quando lui si fu alzato in direzione dell'hostess, le mani di Sveva tornarono ferme e il respiro regolare poi, dopo aver controllato che Samuele non potesse vederla, si girò verso di me: «cara Giusy, sei proprio un'illusa se pensi che tra di voi possa funzionare».
Io fui colta alla sprovvista e rimasi di stucco mentre lei sembrò infervorata: «Samuele mi dice tutto», continuò sorridendo lascivamente, «vuole solo divertirsi con te, una volta che ti sarai concessa sparirà. È garantito».
«E perché mai dovrei crederti?», le domandai mascherando la mia angoscia, visto che ero a conoscenza del tempo che loro due passavano insieme.
«Fa così con tutte», rispose facendo spallucce, «perché mai dovrebbe cambiare per te? Se ne approfitta perché non hai mai avuto un ragazzo».
«E tu che diavolo ne sai?».
«Per prima cosa si vede da come ti vesti», spostò lo sguardo sulla lampo della mia tuta tirata su fino al collo, «secondo le voci in palestra corrono».
«Sei solo gelosa perché adesso dovrai dividerlo con me», cercai di dire con la voce più ferma che potei.
«Ascolta queste parole Giusy: per Samuele c'è stata solo una ragazza e il suo nome è Alice, tutte le altre sono state delle sue brutte copie che ha cercato di usare per dimenticarla. Da allora sono passati cinque anni quindi...».
Non riuscì a finire la frase perché io risposi d'impeto: «non sarà così per sempre».
«E comunque devo dargli atto che ha fatto una buona scelta questa volta, tu me la ricordi molto», disse spalancando gli occhi per osservarmi meglio.
«Chi?».
«Alice!».
A quel punto si accorse che Samuele stava tornando e cominciò di nuovo a tremare e ad emettere respiri profondi senza riuscire a nascondere un lieve sorriso.
«Ti ho preso del the alla pesca», disse lui porgendole una lattina, «l'hostess mi ha detto che ti servono un po' di zuccheri».
«Grazie Samu, sei un a-m-o-r-e», esclamò lei scandendo ogni lettera in modo sensuale.
Lui si rimise seduto ma, la seconda mossa di Sveva, non si fece attendere: «posso poggiare la testa sulla tua spalla? Mi gira e ho paura di svenire», disse con un tono di voce forzatamente alto per infastidirmi.
«Mhm...ok», rispose lui. Lei non perse tempo, si sciolse i voluminosi capelli rossi e gli si buttò addosso chiudendo gli occhi e, ci avrei scommesso, facendo finta di dormire.
Samuele si girò confuso verso di me, io lo fulminai con uno sguardo mentre lui tentò di rimettersi la cuffietta e continuare a vedere il film insieme a me.
«Non mi va più», sbottai tirando via l'auricolare e spegnendo il monitor.
A quel punto dalla mia borsa estrassi il libro che mi aveva regalato Giorgio, lui colse la frecciatina e si mise a sentire la musica dall'Ipod. Sveva era immobile con gli chiusi, ma ero sicura di aver colto un sorriso sulle sue labbra.
Sfogliai senza interesse il libro di poesie con la dannata voglia difuggire, peccato che il viaggio era ancora lunghissimo.
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