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23 ~Bye-Bye Roma!~ ✔


Quando tornai a casa non riuscivo ancora a credere a tutte le emozioni che avevo provato, mi sembrava di camminare a un metro da terra.

«Cosa c'è per cena?», chiesi a mia madre non appena varcammo la soglia di casa con la stomaco che brontolava.

«Guarda nel frigorifero, dovrebbe esserci del pesce avanzato da ieri», rispose sbrigativa togliendosi il solito scialle che l'avvolgeva le spalle e che, ormai, era diventato un must nel suo stile, non lo abbandonava mai.

«Mangi con me?», le chiesi con un filo di voce, avrei voluto condividere questo momento con qualcuno, papà mi avrebbe fatto compagnia tutta la sera, speravo che lei si mettesse una mano sul cuore e mi capisse.

«No, sono stanca», rispose con un tono che non ammetteva repliche, «appena puoi inizia a pensare alle cose che ti serviranno in Brasile».

Se ne andò lasciandomi in cucina.

Deglutii.

Le persone dovrebbero riflettere prima di fare una scelta. Un figlio ti cambia la vita, quella di mia madre invece era continuata come se non fosse successo niente, come se io fossi solamente uno dei tanti problemi che le si presentavano ogni giorno e che cercava di sistemare con lo stretto necessario. Mi aveva dato una bella casa, una camera con bagno annesso, una palestra e la possibilità di studiare in una scuola privata, eppure, io non volevo vestiti costosi, borse di marca o la possibilità di andare in vacanza in posti lussuosi, volevo solo affetto. Ma, lei, sembrava essere disposta a darmi tutto tranne quello.

Dopo aver mangiato quel filetto di merluzzo scondito e insapore andai nella mia stanza e accesi il computer. Nel mio hard disk esterno trovai i filmini che riguardavano le Olimpiadi di Los Angeles del 1984, quelle in cui, mia madre, si infortunò gravemente. Iniziai a guardare la gara, mia madre era irriconoscibile, capelli scuri tagliati in un caschetto piuttosto maschile, indossava il suo body bordeaux che sulle braccia sfumava in tonalità arancioni e che la facevano sembrare una fiamma luminosa. Ed era proprio l'elemento che la rappresentava in quel momento, si vedeva dai suoi occhi concentrati, dai suoi movimenti rigorosi e dall'assenza di imperfezioni. Secondo i giornalisti quello era il suo anno, la favorita indiscussa, Nadia Comaneci, si era appena ritirata e, mia madre, aveva l'opportunità di diventare la prima ginnasta italiana a vincere l'all around. In quel filmino colsi un sorriso splendente che non le avevo mai visto, gli occhi le brillavano come gemme preziose, se non fossi stata a conoscenza della sua identità non avrei mai accostato quella donna solare alla Valeria di oggi, apatica e imperturbabile.

Mandai avanti la registrazione fino ad arrivare all'esercizio alle parallele, anche lei, come me, non amava particolarmente quell'attrezzo ma era in ogni caso in grado di sfiorare la perfezione. Seguii rapita ogni suo passaggio, l'armonia che coglievo mi faceva essere quasi invidiosa di lei.

Poi arrivò l'uscita.

Il suo salto fu alto e di buona fattura ma l'arrivo fu scomposto, vidi la sua gamba sinistra spezzarsi letteralmente, l'osso che scalpitava per poterle forare la pelle e l'urlo straziante che le fuoriuscì dalla bocca. Il preparatore atletico le corse immediatamente incontro e la cinse in un abbraccio protettivo chiamando qualcun altro per aiutarlo. A quel punto mi accorsi di un dettaglio che non avevo mai notato poiché, l'inquadratura, continuava a mostrare la gamba ferita di mia madre: sullo sfondo c'era una donna dalle labbra fini e il naso adunco, la raggiunse stringendole la mano per tutto il tempo finché non fu portata via.

Riconobbi in quella ginnasta una giovane Samantha; curioso, pensai.

L'infortunio di mia madre mi aveva sempre traumatizzata, mi aveva scosso il dolore che vedevo nascosto sulle pieghe assunte dal suo viso e la delusione nei suoi occhi scuri. La gamba rotta fu l'ultimo dei suoi problemi, si era lesionata il tendine di Achille e le si erano sfilacciati tutti i legamenti, neanche l'operazione fu in grado di sistemarla. Si ritirò l'anno dopo e, da quel giorno, venne ricordata come la stella mancata.

Mia madre non sapeva che mi era capitato, ogni tanto, di sbirciare nella sua camera poco prima che si coricasse, con papà ancora in poltrona a leggere un libro. Mi mettevo nascosta dietro lo stipite e, attraverso la porta socchiusa, la vedevo prendere quel body bordeaux da un cassetto, la vedevo stringerlo e sentirne il profumo.

Come si fa con qualcosa che si è tanto amato. Forse, senza quell'infortuno, mia madre sarebbe stata una persona diversa, forse sarebbe riuscita a dimostrarmi un po' di amore materno.

Quella notte andai a letto con la costante tentazione di scrivere un messaggio a Lia, il fatto che mi avesse chiesto di non cercarla, però, mi bloccò. Papà diceva sempre che il rispetto è il primo atto di amore quindi, spensi il cellulareme mi lasciai andare al sonno.

Svegliarsi la mattina con la consapevolezza di aver fatto un passo in avanti verso il proprio sogno fu inebriante, la prima cosa che feci fu andare davanti allo specchio, posizionato accanto alle mensole che trasudavano ginnastica in ogni loro elemento. Il riflesso che osservai mi mostrò la Giusy di un tempo, guance rosee e non più scavate, zigomi pronunciati ma che erano tornati in armonia con il mio viso ovale e occhi scuri. Il mio sguardo si spostò poco più in là, sulla foto autografata di Nastia Liukin che stringeva con un braccio il mio corpo di bambina. In quel momento avevo già deciso che, un giorno, sarei diventata esattamente come lei, non restava che conquistare il Brasile.

Fare la valigia fu più complicato del previsto, non conoscevo nulla del Brasile, era come fare un salto nel vuoto. Avevo cercato delle informazioni su Google ma mi avevano confusa ancora di più e inoltre, mia madre, ad ogni mia domanda su cosa portare, mi rispondeva sempre "non lo so" oppure "perché no? Potrebbe essere utile". Il risultato fu una valigia da trentacinque chili che mi arrivava a metà della vita e che con difficoltà riuscivo a far scivolare sulle rotelle.

Come avevamo stabilito una settimana fa con i genitori di Lia, io e mia madre saremmo passate a prenderla per portarla all'aeroporto di Fiumicino.

Mentre eravamo in taxi ero agitata, cercavo di preparami un discorso valido per scusarmi e fare pace, speravo tanto che capisse che Sveva mi aveva provocata e che, mai per nessuna ragione al mondo, avrei voluto dire quelle cose.

«Fai uno squillo a Lia e dille che siamo arrivate», mi disse mia madre non appena il tassista accostò la macchina in doppia fila.

«Posso salire un attimo da lei? Dobbiamo parlare», le chiesi fissando il palazzo di Lia dal finestrino.

«Sì ma sbrigati», borbottò seccata.

Dopo aver citofonato, la madre di Lia mi fece salire senza troppe spiegazioni, quando mi aprì mi accolse con il suo solito sorriso dolce. «Giusy! Che piacere, è da un po' che non ci vediamo», mi diede un bacio delicato sulla guancia e mi fece entrare. Erica era la copia spiccicata di Lia, occhi grandi e grigi, capelli biondi lisci come spaghetti e un'eleganza innata in ogni gesto, dal tono della voce ai suoi movimenti quotidiani.

«Ciao! Lia è pronta?», domandai con un entusiasmo forzato.

«Sì, sta finendo di prendere le ultime cose nella sua stanza», poi guardò il suo orologio, «io scappo altrimenti faccio tardi in ufficio! Ci vediamo in Brasile».

«Venite anche tu e Massimiliano?», le domandai educatamente.

«Ovviamente, avevamo già preso i biglietti nel caso...», si bloccò un attimo come se si fosse resa conto che stava per dire qualcosa di inopportuno, «sarà una bella esperienza», concluse mettendosi la giacca.

Poi uscì lasciando una scia di profumo fruttato.

La casa ora era piombata nel silenzio, attraversai il corridoio per dirigermi verso la stanza di Lia e poi bussai delicatamente.

«Entra» .

Aprii la porta con cautela, i discorsi che mi ero preparata in macchina erano finiti nel dimenticatoio, ormai. Lia era di spalle davanti lo specchio intenta a legare i suoi capelli in una treccia lunghissima.

«Sono quasi pronta», esclamò rompendo il silenzio visto che io avevo la bocca impastata e non riuscivo a parlare.

«Sono qui per chiederti scusa, Lia», ammisi poco dopo osservando i suoi occhi riflessi nello specchio.

«Ah sì, e di cosa?». Il suo tono era stranamente calmo e piatto.

«Quello che ho detto, insomma, Sveva mi stava provocando e...», sentivo un grosso nodo in gola, «non penso quelle cose».

«È la verità, perì. Io sono sempre stata un passo dietro di te», specificò con un sospiro, «ieri, un mese fa e l'anno scorso. Da sempre».

«Non dire così», mormorai avvicinandomi a lei che continuava a darmi le spalle.

«Ho creduto in qualcosa che non era mio», continuò, «Jesolo aveva già stabilito le cose. Questa notte ci ho pensato e ho capito che se ti avessi battuta mi sarei sentita in colpa».

«Non avresti dovuto, sei bravissima e la ginnastica è imprevedibile, noi lo sappiamo bene», risposi sorridendo debolmente e appoggiandole una mano sulla spalla.

Lia, inaspettatamente, sovrappose la sua alla mia: «vincerai anche per me?».

Riflettei bene alla risposta: «aver chiarito con te è l'unica cosa a cui riesco a pensare adesso, sei parte della mia famiglia, sei la sorella che avrei voluto avere».

«Ma noi siamo sorelle!», obiettò girandosi per abbracciarmi.

Sentii come se un peso mi si fosse tolto dallo stomaco e dal cuore.

«Andrea ci aspetta in aeroporto?», le chiesi mentre chiudeva la sua valigia grande esattamente quanto la mia.

«Ci siamo lasciati», rispose sbrigativa.

«Ma quando? Perché?».

«Ieri», sospirò, «quando gli ho detto che sarei partita per fare la riserva mi ha cercato di convincere a restare. Ha detto queste testuali parole: "se vai vieni solo umiliata, lascia che se la cavino senza una riserva, saresti solo un peso"».

La guardai sconcertata: «stai scherzando? Ma come si è permesso!».

«Lui è sempre stato convinto che la ginnastica è un passatempo, non mi ha mai preso sul serio».

«O forse è solo geloso dei ragazzi brasiliani», provai a dire per sdrammatizzare.

«Non lo so e, sinceramente, non mi interessa. Vuol dire che ho buttato sette mesi con un ragazzo che non mi ha mai capito fino in fondo», sbuffò, «e sai una cosa? Meglio perderlo che trovarlo un tipo così!». Mi rivolse un sorriso smagliante per poi prendere una busta che era poggiata sulla scrivania : «alla fine non ho più avuto tempo di darti il mio regalo».

Dalla busta tirai fuori un costume fatto a maglia giallo e verde: «molto brasiliano, non trovi?», mi domandò maliziosa.

«È bellissimo! E che cosa vuoi dirmi con quello sguardo...».

«Ci divertiremo in Brasile», mi fece l'occhiolino, «sono sicura che a Samuele piacerà».

«Lia!», esclamai arrossendo.

«Credo che tu mi debba raccontare ancora molte cose».

Ridacchiai con le orecchie che divennero dei carboni ardenti.

«La nostra promessa Giusy, non puoi scappare questa volta», mormorò incrociando le braccia al petto e tamburellando con il piede il parquet della stanza.

«Diciamo...», cercavo di trovare le parole adatte ma era un argomento troppo imbarazzante, «che ci siamo avvicinati».

«L'avete fatto?», sbottò Lia che arrivava sempre al nocciolo della questione.

«No, è stato diverso».

«Cioè? Non è stato capace?».

«Oh no, lui è molto capace...», abbassai lo sguardo vergognandomi al ricordo delle sue mani che sfioravano e baciavano ogni centimetro del mio corpo nudo.

«E allora?».

«Ho tanta paura Lia, non mi sento all'altezza. Ho paura che scopra che...».

«Che sei vergine?», domandò sbalordita, «penso che lo sappia», concluse poco dopo.

«Che scopra che non so nulla del sesso», continuai ignorando il suo commento, «lui avrà tante ragazze per fare paragoni e poi, dai, hai visto il mio corpo? Non ho forme, sono un insieme di muscoli duri», ammisi sconfortata passando le mani sulla mia pancia e sugli addominali in rilievo.

«Giusy! Ma lui è un atleta, sa esattamente come è il tuo corpo, e sono sicura che gli piacerà».

«Sono così insicura».

«Solo perché tu non vedi come ti guarda».

Sorrise.

«Come?».

Lia alzò la testa verso l'alto come se stesse cercando le parole adatte: «è come se foste due magneti, vi attraete poi vi respingete e poi vi attraete di nuovo. Il suo sguardo ti cerca sempre, anche quando sei dalla parte opposta della palestra, lo fa senza rendersene conto, come se fosse attirato dalla tua luce, come se avessi, veramente, una forza magnetica», rispose tornando poi a fissarmi negli occhi, «non ho mai visto un'attrazione così potente».

Ero colpita dal quadro che Lia aveva descritto, il sentimento che provavo per Samuele stava assumendo nuovi significati e sfumature.

«Ora credo che sia ora di andare», disse poi afferrando la sua valigia.

Scendemmo le scale verso il taxi, mano nella mano, come le due bambine che eravamo state tanto tempo fa. L'amicizia vera è capace di superare gli ostacoli più grandi, non si spezza ma si trasforma, diventa più forte e indistruttibile di un diamante, diventa l'ancora di salvezza quando il tuo universo viene sconvolto da una tempesta.

Lia era una delle poche certezze della mia vita, una di quelle tre persone di cui parlavo a mio padre, una di quelle che non ti deludono mai.

Salimmo in auto, poi ci guardammo e all'unisono gridammo: «direzione Fiumicino! Bye bye Roma!».


SPAZIO AUTRICE:

SIETE PRONTE PER IL BRASILE???????????? GIUSY E LIA NON VEDONO L'ORA

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