19 ~Tsukahara~ ✔
Giorgio aveva smesso di suonare e i nostri sguardi si erano intrecciati poi, trasportata dalla sua dolcezza e dalla voglia di esplorare un universo nuovo, le mie labbra avevano incontrato le sue. I nostri movimenti erano stati lenti, nessuno dei due voleva guidare l'altro e, soprattutto, nessuno aveva avuto il coraggio di mettere la lingua.
Un bacio delicato, manifesto della sua indole da gentiluomo, addolcito dalle sue mani sottili che mi avevano lambito le tempie e accarezzato i capelli.
Quando ci separammo, dovetti fare una constatazione: quel bacio non era paragonabile a quello scambiato con Samuele.
Aveva sentito anche lui l'assenza di alchimia? Oppure pensava che fosse solo l'impaccio di due persone che non si conoscono bene?
Forse mi ero troppo concentrata sulla prestazione da non lasciarmi andare del tutto perché, Giorgio, in fondo mi piaceva.
Osservavo il suo viso, il mento affilato, gli occhi di onice e la bocca carnosa, era la personificazione della limpidezza e della sincerità, così distante dall'inclinazione ermetica di Samuele.
Ognuno dei due aveva qualcosa che mi attirava.
Era possibile provare contemporanea ammirazione per due essenze così diverse?
Mentre la mia testa veniva bombardata da mille pensieri discrepanti, la mia voce formulò impulsivamente il succo della questione: «non ho tempo per questo... Le Olimpiadi sono la mia priorità, non ho un piano B».
Gli angoli della sua bocca fecero un impercettibile movimento verso il basso, Giorgio perse un po' del suo entusiasmo anche se continuò a fissarmi.
La gola mi si era annodata, odiavo lo sguardo scoraggiato che ti riserva qualcuno che viene deluso e non sopportavo di essere io il fulcro di quella frustrazione. Per fortuna non andai nel panico, sapevo di fare la cosa giusta, stavo perdendo di vista il mio obiettivo ultimo, la coronazione di un sogno che, anche se non si fosse realizzato nel modo che desideravo, mi avrebbe reso una ginnasta migliore.
«Scusami, avrei dovuto pensarci prima», ammisi per interrompere il silenzio e rinsavirlo dal mutismo in cui si era chiuso.
«Io lo so», sussurrò lui. Sulle sue labbra si era formata un'insolita smorfia amareggiata.
«Giorgio davvero io...», iniziai a dire.
«Credimi, lo so. E lo sapevo dal momento in cui ti ho conosciuta che non eri come le altre che, conquistarti, non sarebbe stato facile, per i tuoi impegni, per la passione che metti in quello che fai. Io voglio che tu riesca a raggiungere il tuo obiettivo, te lo meriti e mi renderesti orgoglioso».
Le sue parole mi fecero vacillare, ero al limite della commozione, poi lo abbracciai e lui mi strinse appoggiando il mento sulla mia fronte.
«Se c'è qualcosa che ci lega il tempo non ha importanza, può essere ora, durante o dopo le Olimpiadi», sussurrò mentre io, forse, espiravo per l'ultima volta il suo profumo.
***
Dover fare del mio meglio con il fine ultimo di superare la mia migliore amica impedendole di partecipare ai giochi olimpici, si dimostrò un fardello straziante da portarsi dietro. Entrambe sapevamo che eravamo obbligate a farlo e che, in nome della ginnastica, ci saremmo battute in modo onesto. Io l'avevo superata a Jesolo mentre lei, ora, era più in forma di me; questo sport è fatto di attimi, di condizione fisica e preparazione mentale. Lo Tsukahara con doppio avvitamento poteva essere il salto spartiacque tra il successo e la sconfitta; attualmente solo Anna era in grado di realizzarlo a un livello degno da poter essere presentato davanti al mondo.
Il fermento che agitava l'atmosfera della palestra, a causa della vicinanza per la partenza per il Brasile, infondeva in me una grinta unica. Io e le altre ragazze eravamo in fila ad uno degli angoli della pedana azzurra, pronte per eseguire i salti, Anna fu la prima, il suo Tsukahara fu perfetto e, io, studiai attentamente ogni suo movimento, la posizione delle mani nella rondata, l'inclinazione delle braccia nella rotazione e l'arrivo senza sbilanciamento che, nel suo caso, era ordinaria prassi.
Subito dopo toccò a me, ero agitata per l'immediato confronto con la regina dello Tsukahara. Mi strinsi le fasciature ai polsi, simulai la rotazione che avrei dovuto eseguire e osservai l'angolo opposto della pedana dove, Enrico, sostava per portarmi assistenza nel salto ancora in fase di rodaggio. Poco prima di partire un sussurro fastidioso, proveniente dalla ginnasta alle mie spalle, mi disse: «inutile che ti impegni, non è alla tua portata».
La mia reazione immediata fu quella di iniziare la rincorsa, gli occhi fissi nel punto in cui dovevo cominciare con le rotazioni. Presalto, rondata flic e poi Tsukahara, o meglio, la mia versione sbilenca indirizzata al di fuori della pedana ma che, il sostegno pronto di Enrico, fermò prima che potessi farmi male. Il ghigno che vidi sul volto di Sveva mi fece pulsare le tempie e salire la rabbia repressa dal giorno in cui l'avevo vista con Samuele.
Dopo numerosi salti ne uscii sconfortata, l'evidenza mi spingeva a ridurre il coefficiente di difficoltà del mio esercizio. La cosa peggiore era rendermi conto che, la strega dai capelli rossi, aveva ragione.
Enrico ci aveva dato una pausa per dissetarci e scaldare le spinte tenendoci pronte per l'imminente sessione di volteggio. Lia era sgattaiolata negli spogliatoi per rispondere al telefono, la squadra maschile era in riunione nella sala delle conferenze mentre, Sveva, era alla spalliera che faceva stretching. Ogni suo movimento era caratterizzato da una femminilità inadatta, sembrava che volesse apparire sensuale anche quando si legava i capelli. Mi irritava ogni suo gesto e, quando si accorse che la stavo osservando, si piegò sulle ginocchia mostrando il suo lato B sodo e muscoloso di cui andava fiera.
«Avevo ragione quindi», esclamò Sveva avvicinatasi per raccogliere la sua bottiglietta d'acqua.
Le riservai lo sguardo più truce di cui ero capace senza risponderle. Ma a lei sembrò non importare, anzi si crogiolava nel vedermi arrabbiata: «fossi in te mi farei una vacanza, il posto è già di Lia! Enrico sta mandando avanti questa farsa solo perché sei la figlia di Valeria».
A quel punto mi spostai a mezzo centimetro dal suo viso ricoperto da un sottilissimo velo di lentiggini: «cosa stai insinuando?», le domandai con l'ira che inaspriva il mio tono.
«Che per te è tutto più facile», rispose facendo spallucce.
«Io mi sono sudata il posto in cui mi trovo».
«Tu sei nata in questo mondo, probabilmente se tua madre non fosse stata una ginnasta di fama internazionale non ti saresti neanche avvicinata a questo sport!», fece una piccola pausa continuando a sostenere il mio sguardo, «io, invece, ho sudato ogni sacrificio fatto».
«Tu non mi conosci, non ti azzardare mai più a insinuare che io sia una raccomandata», gridai.
«Tecnicamente è ciò che sei, per di più ti alleni nella palestra di tua madre, io avrei avuto almeno la decenza di cambiare».
«Sei solo invidiosa!», sentenziai con la voglia di metterle le mani addosso.
«Invidiosa dei tuoi patetici tentativi di fare uno Tsukahara?», ghignò in maniera superba alzando il mento verso l'alto.
«Io almeno esco dalla mia comfort zone e non mi limito, come te, a fare i soliti salti banali», risposi a tono.
«Meglio un esercizio ben fatto che uno che punta all'impossibile, meglio rendersi conto dei propri limiti, Giusy!».
«L'audacia è la virtù dei forti», risposi con tranquillità.
Fu la mia battuta ad effetto, la chiusura di una guerra fredda che, forse, meritava di essere combattuta fisicamente.
Mia madre ormai non mi chiedeva più se mi volevo trattenere più del dovuto in palestra, terminava i suoi obblighi da direttrice di centro sportivo e, subito dopo, mi lasciava la chiave vicino allo stereo.
L'ultimo ad abbandonare la palestra, quel giorno, fu Samuele, prima di imboccare le scale verso l'uscita, si affacciò dalla porta d'ingresso della sala. «Ehi piccola, ancora qui?», mi domandò mentre si sistemava la tracolla sulla spalla destra.
L'espressione "piccola", detta da lui, nonostante fosse una dimostrazione d'affetto, mi infastidiva sottolineando quanto, gli anni che ci separavano, diventavano giorno dopo giorno un problema più evidente.
«Non vado via finché non realizzo uno Tsukahara perfetto».
«Più ti sforzi, più ti stanchi e meno ci riuscirai».
«Grazie del sostegno», sbottai acida.
«Siamo nervosi? Ti lascio al tuo esercizio allora». Samuele si allontanò e scomparve dal mio campo visivo.
Ci mancava lui a mettere il dito nella piaga, oggi era una di quelle giornate storte in cui diventavo un'arpia senza volerlo.
La serata stava passando senza che uno Tsukahara decente venisse fuori. Dopo più di un'ora di tentativi falliti, sentii qualcuno bussare sulla porta, scorsi i ricci biondi di Samuele. Si incamminò verso di me sorridendo mentre stringeva un pacchetto. «Ero sicuro di trovarti ancora qui», mi disse, «hai mangiato almeno?».
«No», risposi mentre ero inerte, seduta sulla pedana blu, aspettando che le forze rimaste mi infondessero la voglia di continuare.
«A questo ci ho pensato io». Dalla busta di carta tirò fuori due panini stracolmi di porchetta, «direttamente dai Castelli romani», aggiunse.
Lo guardai alzando solamente un sopracciglio, impossibile fosse andato fin lì.
«Ok, direttamente dal chiosco sotto casa mia!», ritrattò grattandosi la testa.
Scoppiai a ridere, forse lui adesso, avrebbe potuto raddrizzare questa giornata.
Mangiammo seduti sulla trave, io impacciata con la paura che pezzi di porchetta potessero cadermi per terra e, lui, con l'eleganza che lo contraddistingueva. Sembrava che dovesse partecipare alle Olimpiadi del galateo, avrebbe sicuramente vinto nella disciplina "mangiare senza sembrare un maiale".
Quando finimmo Samuele raccolse tutti i resti della cena e li buttò nel cestino, poi si voltò verso di me: «ti va di farmi vedere il tuo esercizio completo?».
Conosceva la mia risposta quindi si diresse verso lo stereo, mentre io prendevo posto al centro della pedana, un braccio alzato e l'altro appoggiato su un fianco.
Partì Mambo N°5.
Io presi vita, mi sentivo un'altra, mi succedeva così quando mi immergevo nella ginnastica. La prima diagonale fu perfetta, un doppio salto teso, poi passai ai salti artistici, tre giri perno completati senza il minimo sforzo, l'enjambè ad anello e una ribaltata senza l'appoggio delle mani.
Quando arrivò l'ultima diagonale fui tentata nel realizzare lo Tsukahara con doppio avvitamento ma, alla fine, eseguii il mio classico salto carpiato.
Quando la musica terminò, Samuele mi raggiunse mettendosi una mano sotto il mento. Mi girò attorno come se mi stesse esaminando. «Sei sicura di questo esercizio?», mi domandò serio.
«Non proprio, da quando è morto papà sento di essere cambiata e non riesco più a esprimermi come prima», ammisi triste mentre mi sistemavo il body che si era spostato mostrando parti del mio corpo che avrebbero dovuto essere coperte.
«Si vede. Se vuoi sei ancora in tempo per cambiarlo», annunciò aprendo in me miliardi di nuove possibilità.
«Mancano appena dieci giorni».
«Penso che in due potremmo farcela», mi assicurò prendendomi la mano, «che ne dici?».
«Dico di sì», esultai intrecciando le mie dita alle sue.
Sapevo già quale canzone avrei usato, era nascosta in una delle tante tracce del CD che mi aveva regalato papà.
Lui avrebbe voluto esserci alle Olimpiadi.
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