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15 ~Rosso come l'amore o come il sangue~ ✔

Le parole di Enrico mi ronzavano nella testa senza che potessi fare nulla. Tuttavia mi trovavo al centro della palestra con il body celeste dentro cui, con poco sforzo, sarebbe potuta entrare un'altra me.

Chiusi gli occhi, respirai l'aria densa e familiare: ero esattamente dove volevo essere. Dove dovevo essere.

Una delle cose che amo più di me stessa, è la testardaggine; quando voglio una cosa, dal profondo del mio cuore, gioco tutte le mie carte fino a che, l'evidenza, non mi costringe ad arrendermi. Posso recuperare il mio sogno, fino a quando scorgerò una piccola speranza, lotterò con le unghie e con i denti. Per Giusy, per mio padre, per chi ha creduto in me e per chi lo farà in futuro.

Stavo pensando a questo quando all'improvviso due braccia forti mi strinsero la vita da dietro, delle labbra si posarono delicatamente sulla parte destra del mio collo e, un profumo delicato ma pungente, invase le mie narici.

Mirto.
Samuele.
«Quanto ho desiderato questo momento», sussurrò mentre con un gesto lieve mi faceva ruotare verso di lui. La vista di quegli occhi marini mi fece sussultare.

«Sono qui», risposi schiudendo appena le labbra, con un filo di voce talmente flebile che mi lasciò col dubbio di non essere riuscita a farmi sentire.

Samuele portò la mano sul mio viso, con i polpastrelli mi sfiorò la pelle disegnando un percorso immaginario, prima la fronte, poi le sopracciglia scure, due linee curve che non avevo più curato e che, adesso, sottolineavano i miei occhi scuri, infine arrivò alle labbra.

Si fermò lì e mi sorrise.

In quegli istanti mi aveva detto tante cose senza parlare, il mio cervello però aveva elaborato tutto: "ce la puoi fare", "sono con te", "lotta per quello che vuoi e per ciò in cui credi" e, soprattutto, "sarò sempre qui al tuo fianco".

Non mi restò che abbracciarlo, incastrai il mio corpo al suo, ogni parte di me aderiva perfettamente a ogni sua forma, come due ingranaggi di un'unica macchina.

Ero stata travolta da tante sensazioni da essermi dimenticata il resto.

Varcammo la porta che portava agli attrezzi. Erano tutti lì vicino a me, in cerchio, che aspettavano il proprio turno per un abbraccio, una parola e un sorriso. I miei compagni di allenamento e di vita, quelli che ti tendevano la mano dopo una caduta, che capivano cosa volesse dire passione, sacrificio e dedizione.

Lia fu la più scaltra di tutti, non appena si rese conto che, io e Samuele, stavamo per sciogliere il nostro abbraccio, mi piombò addosso e mi strinse tra le sue braccia magre ma con una tale forza da fare invidia a un atleta di lotta greco romana.
Piangeva a dirotto, non provò ad aprire bocca perché avrebbe solo singhiozzato. Non le dissi nulla, le accarezzai solamente i lunghi capelli biondi, in una maniera quasi materna. Poi iniziò una processione, avevano tutti qualcosa da dirmi, un aneddoto da raccontarmi, perfino Irma che era la persona più timida e introversa che avessi mai conosciuto, si sbilanciò e mi disse che le ero mancata.

La forza di chi crede in te e di chi ti ama ha un effetto talmente potente che ti rende invincibile. Mi restava solo da incanalare l'energia che mi avevano regalato nella giusta direzione, esattamente lì dove splende sempre il sole, in una città lontana 9.198,40 chilometri da me.

Rio de Janeiro.

Dopo solamente un'ora di ginnastica ero talmente stanca da non riuscire a respirare bene, Enrico mi concesse, in via straordinaria, qualche minuto per andare nello spogliatoio e riprendermi; nessuno obiettò tranne Sveva che, udite quelle parole, corrugò la fronte e sbuffò. Avrei voluto non darle soddisfazione e continuare con l'allenamento, ma purtroppo ero consapevole che avevo bisogno di una pausa. Mi trascinai fuori dalla sala, i quadricipiti erano duri come il marmo tanto da non permettermi di avere un'andatura stabile, mi lasciai scivolare sulla panca in legno dello spogliatoio, vicino alla mia borsa. Non appena il mio respiro tornò regolare e il battito del mio cuore smise con la sua corsa sfrenata, presi il cellulare.

Di nuovo quel numero sconosciuto, di nuovo dieci chiamate senza risposta.

D'istinto premetti il tasto per richiamare e attesi poi, una voce squillante ma aspra, esclamò: «Giusy, finalmente! Grazie per avermi risposto, cos'è ti stavi annoiando e hai richiamato?».

«Chi parla?», chiesi con indifferenza, anche se avevo capito benissimo chi ci fosse dall'altra parte.

«Giorgio. Mi hai già cancellato dalla tua lista?».

Fece una risata amara. La sua irruenza mi sorprese e disgustò allo stesso tempo tanto da togliermi le parole di bocca.

Ma lui continuò inviperito: «non merito neanche una risposta? Penso che chiunque abbia un minimo di buon senso avrebbe avuto il coraggio di dire tre semplici parole, non-mi-interessi», scandì lentamente lasciando uno spazio prolungato tra ogni vocabolo, «credo di essere stato gentile con te, ti ho portato al centro di Roma e al lago, non credevo fossi così subdola, pensavo fossi una ragazza...».

«Hai finito?», gli domandai seccata.

«Vorrei una spiegazione».

«E io vorrei essere la moglie di Ryan Reynolds, avere la voce di Adele e il fisico di Priyanka Chopra. Come la mettiamo?».

«Credi di essere spiritosa?».

«E tu? Dopo questa telefonata, pensi di meritarti una risposta?», continuai con l'irritazione che ribolliva nelle vene.

«Decisamente», disse in modo solenne e non aggiunse altro, o meglio, non fece in tempo perché io fui più veloce.

«Mio padre è morto, brutto idiota, e scusa se non sei stata la prima persona a cui ho pensato mentre non desideravo altro che scomparire dalla faccia della Terra!».

Chiusi la telefonata, misi il cellulare nella borsa che iniziò a vibrare di nuovo. Sapevo che Giorgio non poteva sapere e che nessuno si sarebbe aspettato un avvenimento del genere, ma la sua arroganza mi aveva scioccata; passava dall'essere un galantuomo a un perfetto cafone in poco tempo, e io ero ormai stufa degli sbalzi di umore degli altri, bastavano i miei a tenermi compagnia.

Quello fu il pomeriggio più lungo della mia vita, non riuscivo a fare i miei esercizi, il mio corpo sembrava non rispondere ai comandi, era molle quando mi serviva l'esplosività nel corpo libero e rigido, invece, quando necessitavo della flessibilità sulla trave.

La cosa che più non sopportavo erano gli sguardi delle altre atlete, intrisi di pietà e commiserazione, come se fossi una bambina a cui bisogna nascondere la verità.

E la verità, in quel momento, diceva che Giusy Alicante non era pronta, esattamente come sosteneva Enrico.

Arrivate le sette di sera la palestra iniziò a svuotarsi, io mi misi a cavalcioni sulla trave con lo sguardo fisso negli specchi davanti a me. Vedevo gli sforzi di una vita buttati via, ricacciavo indietro le lacrime per evitare di cadere di nuovo nel tunnel senza via d'uscita del dolore.

Ero talmente concentrata nel mio riflesso che, quando parlò, sussultai rischiando di cadere. «Mi dispiace», disse avanzando verso di me.

«Ah ehm... grazie», farfugliai per l'incredulità.

Sveva dispiaciuta per me? Questa sì che era una novità.

Era ferma lì, indossava ancora il body rosa senza maniche e delle forcine colorate gli tenevano ferma la frangetta, in quel momento non dimostrava per nulla la sua età, sembrava una bambina, dolce e insicura, che giocherellava con i capelli legati in due codini bassi.

«Penso che abbia ragione, comunque», disse incrociando le braccia al petto.

«Chi?», le domandai, non capendo dove volesse arrivare.

«Enrico. La squadra ha bisogno delle migliori ginnaste e tu non riesci neanche più a fare una ribaltata sulla trave, figuriamoci il salto costale».

Scesi dalla trave per raggiungerla, «chi sei per dire una cosa del genere?».

«Una che vuole vincere, Giusy. Una che sa guardare obiettivamente i tuoi esercizi e quelli di Lia, una che non permetterà che una ginnasta partecipi alle Olimpiadi solo per pietà. Apri gli occhi».

«Non ti permettere!», gridai, «merito quel posto! A Jesolo ti ho battuta, nulla mi impedisce di farlo di nuovo».

«Una ginnasta non deve mai guardare al passato, lo sai bene. Abbiamo solo il presente dalla nostra parte», un leggero sorriso le increspò le labbra.

«Io avrò il futuro», portai il mio viso a dieci centimetri dal suo, dai suoi occhi verde smeraldo e da quel profumo fastidioso di lavanda.

Poi mi voltò le spalle. «Lo spero, non chiedo altro che batterti a Rio».

Non riuscii a vedere altro che i suoi capelli, di un rosso vivo e acceso, allontanarsi da me.

Rosso come l'amore.
Rosso come il sangue.

Continuai con i miei esercizi incaponendomi al minimo errore, senza accorgermene mi soffermai insistentemente sul salto costale.

Sveva si sbagliava: sarei stata io a batterla a Rio.

Mia madre arrivò, come suo solito, per sistemare le ultime cose e chiudere la palestra, poi si accorse di me: «cosa ci fai ancora qui?».

«Devo recuperare, mamma, posso trattenermi un altro po'?», le chiesi quasi supplicandola.

Mi osservò per qualche secondo, con la testa piegata di lato mentre si sistemava lo scialle sulle spalle.

«Va bene», rispose senza aggiungere altro, poi lasciò le chiavi vicino lo stereo e se ne andò. Era la prima volta che la guardavo sul serio dopo che papà se ne era andato, anche lei, come me, era cambiata.

La morte ti trasforma e ti segna creando una spaccatura, c'è il prima e il dopo.

La Valeria di adesso aveva cambiato le sue abitudini, non era mai a casa, la mattina mi svegliavo e lei era già uscita per andare chissà dove, il suo chignon non era più impeccabile tanto che, spesso, le fuoriuscivano dei ricci rendendo la pettinatura disordinata, aveva smesso di truccarsi, di guardarsi allo specchio e di fare shopping ogni domenica mattina.

Non parlava più di papà, aveva tolto tutte le sue foto dalla camera da letto, come se non fosse mai esistito. Nonostante il lutto ci avesse unite, io continuavo a non capirla e, lei, continuava a non capire me.

Con Samuele mi intendevo senza proferire parola, con mia madre, invece, non era sufficiente neanche il fatto di parlare la stessa lingua.

Siamo fatte così, divergenti su tutto, tranne che sulle Olimpiadi. Era stato il suo sogno, adesso era il mio, almeno una cosa era riuscita a tramandarmela.

Quella sera, alla fine, non mi allenai, non perché non volessi, ma perché il mio fisico aveva smesso di funzionare correttamente. Decisi di accendere lo stereo e inserire il CD di mio padre, lo ascoltai quattro volte di fila, sdraiata sulla trave che premeva contro la mia schiena ossuta. Il nostro sempre, adesso, aveva una colonna sonora, un altro dei tanti fili che ci univa.

Quando tornai a casa trovai mia madre seduta in cucina, la schiena ben eretta e la postura rigida, fissava il microonde spento. Sembrò non accorgersi del mio ritorno finché non le passai davanti per aprire il frigorifero, «è andata bene?», mi chiese.

«Sì», cercai di tagliare corto, le canzoni di papà mi avevano emozionato a tal punto che volevo andare a letto felice e non parlare apertamente con lei.

«Oggi, dopo essere passata al supermercato, ho trovato fuori dalla porta delle cose, penso che siano per te», mi informò con un tono piatto e neutro senza un briciolo di emozione.

«Per me?», domandai incredula.
«Vai a vedere sulla tua scrivania».

Non me lo feci ripetere due volte, corsi in camera e, poggiati accanto al mio computer, c'era una rosa rossa con un biglietto. Annusai il profumo del fiore chiedendomi chi me lo mandasse, Samuele non era certo un tipo romantico.

Aprii il biglietto emozionata e lessi il breve messaggio stampato sulla carta da lettere: "domani, via Tiburtina 354, ore 8.00".

Un appuntamento. Dovevo andarci?
Senza ombra di dubbio.

SPAZIO AUTRICE

Chi avrà dato appuntamento a Giusy?

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