12 ~Anima e corpo~ ✔
Ero ancora di fronte al caos del monolocale di Samuele, incredula.
Non facevo che spostare il mio sguardo dai panni sporchi lasciati sul pavimento, chissà da quanto tempo, alle bottiglie di birra riverse sul tavolo, di cui una rotta, che aveva lasciato frammenti di vetro dappertutto.
«Allora, ti faccio pena?», mi chiese Samuele con la voce roca.
«Per niente», risposi senza esitare.
Scosse la testa impassibile mentre, con un calcio, colpiva bruscamente la sua sacca da palestra facendola rotolare verso la porta del bagno.
D'improvviso si fece più serio, si girò verso di me e mi prese il viso tra le mani.
«Era da tanto che non mi sentivo così», sussurrò con la sua familiare voce dolce di cui, in questi ultimi giorni, mi ero quasi dimenticata, «da quando Alice...», iniziò a dire per poi fermarsi di botto.
«Chi?», mormorai con un filo di voce.
«Non ha importanza Giusy, non ha più importanza!».
Samuele mi fissava scandagliando il mio viso e nonostante il suo fosse deformato dalla botta subita, restava magnetico e irresistibile. Per un attimo mi persi nel mare dei suoi occhi, mi tornò alla mente il giorno in cui decisi che sarebbe stato mio. Avevo circa otto anni, i capelli sempre raccolti in due codini svolazzanti e giravo curiosa per la palestra, cercando di imparare con gli occhi e sognando già di diventare un'atleta a tutti gli effetti. Samuele aveva superato da poco la fase critica dell'adolescenza, aveva i capelli rasati ai lati, la fronte ricoperta da un leggerissimo strato di brufoli e l'apparecchio che splendeva sopra i suoi incisivi storti eppure, per me, era già la creatura più bella che avessi mai visto. Il momento preciso, però, in cui capii che io e lui ci appartenevamo, fu quando un normalissimo pomeriggio di agosto mi prese in braccio e, con delicatezza, mi fece salire sulla trave che all'epoca mi superava di una spanna. Probabilmente si accorse di quanto fossi impaurita e allora decise di tenermi la mano per tutto il tempo che impiegai a passare da un'estremità all'altra. Quando dovetti scendere mi lanciai tra le sue braccia e mi aggrappai ai suoi muscoli già formati, subito dopo mi fece fare una piccola giravolta, mi scompigliò i capelli mossi e poi mi mise a terra regalandomi un sorriso.
Il primo.
Da quel giorno capii che Samuele e la trave avrebbero fatto entrambe parte della mia vita.
Ma in quel momento di fronte a me avevo un uomo.
Un uomo segnato dalle esperienze e dalle delusioni che voleva mostrarsi forte e indifferente ma che, nel profondo, era immensamente fragile.
Samuele mi teneva ancora per il mento poi, d'un tratto, si avvicinò e appoggiò le sue labbra alle mie, in modo leggero, per capire quale fosse la mia reazione. Sapevo di non poter essere abbastanza forte da rifiutare e sapevo di essere una schiappa cronica, visto che stavo per ricevere il mio primo bacio.
Cercai di non pensare a quello che aveva fatto e alle cose che mi aveva detto.
La mia bocca si schiuse leggermente lasciando che, le nostre labbra, si incastrassero l'una all'altra. Lui mi studiò un poco, prima di mettere la lingua e io ripetei quello che lui mi stava mostrando. Fu tutto naturale, come se avessi dato altre mille baci. Quando le nostre bocche capirono come andare a tempo, lui si invigorì e con impeto mi spinse sulla parete libera che era dietro di me. Mi passò prima la mano tra i capelli e poi la posizionò dietro la nuca per tenermi ferma. Io lo abbracciai mentre con le mani gli sfioravo la schiena percependo ogni suo muscolo in tensione. La luce era fioca e questo mi diede una spinta a muovere le mani con audacia, nonostante non fossi preparata a un epilogo del genere.
Samuele continuava a baciarmi con foga, come se non avesse desiderato altro da tantissimo tempo, le sue labbra erano morbide malgrado l'impeto con cui mi bramava. Sentivo il nostro profumo e i nostri sapori confondersi al punto da diventare una cosa sola. Le pulsazioni del mio cuore andavano al ritmo frenetico delle nostre labbra. Dopo un tempo che mi sembrò infinito, si staccò da me quasi per riprendere fiato e iniziò a darmi dei piccoli baci dietro l'orecchio e sul collo, scatenando dei brividi sulla mia pelle già surriscaldata. Io avevo gli occhi chiusi, impacciata e impaurita, per quello che sarebbe potuto succedere.
Lo sentii staccarsi da me e afferrarmi sotto le braccia mentre io mi aggrappai a lui e mi lasciai trasportare. Con un gesto veloce liberò il letto dai vestiti che vi erano ammassati e mi adagiò con cura. Si mise sopra di me appoggiandosi su un gomito poi con la mano libera iniziò a sfiorarmi il viso e le labbra provocandomi un leggero solletico. Io restavo rigida sotto di lui senza sapere cosa fare, era la prima volta che mi trovavo così in intimità con qualcuno e l'agitazione mi aveva completamente paralizzata.
Come facevano le altre ragazze a essere così disinvolte in queste occasioni? Io mi vergognavo.
Mi vergognavo del mio corpo muscoloso e senza forme, degli addominali mascolini che mi segnavano il ventre e soprattutto della biancheria a fiori, così inadatta in questa situazione. Samuele continuava a sfiorarmi con delicatezza come se avesse paura di farmi male, le sue labbra dischiuse e il suo respiro affannoso, mi facevano capire quanto mi desiderasse. Si sfilò la maglietta e finalmente potei vederlo in tutta la sua bellezza, poi mi aiutò a fare lo stesso con la mia.
«Hai paura?», mi sussurrò mentre con un gesto leggerissimo si spostò di lato.
Io annuii impercettibilmente ma lui sembrò capire lo stesso.
«Non sai quanta ne ho io, sei così piccola...», disse con un bisbiglio mentre, la sua mano ruvida per i calli, mi passava sulla pelle andando a scoprire zone che nessuno aveva mai raggiunto.
Rimasi stesa lì, ferma e immobile, come se fossi terrorizzata da lui. Io, che facevo salti mortali su una trave larga dieci centimetri, avevo paura del ragazzo che desideravo da sempre. Il suo tocco leggero mi bruciava sulla pelle e, quando la sua mano arrivò poco sotto l'ombelico, gliela fermai.
Sono una persona che riflette sempre prima di fare qualcosa, ho bisogno di prepararmi per tutto e, oggi, non ero venuta qui con questa intenzione. Il mio cervello non permetteva al mio corpo di lasciarsi andare, nonostante le innumerevoli volte in cui avevo sognato quel momento.
Lo desideravo da quindici anni, anche da quando non lo conoscevo.
Samuele tolse subito la mano, mi sorrise e iniziò a riempirmi di piccoli baci delicati, sul suo volto non coglievo delusione né frustrazione. Lui era esperto, non potevo aspettarmi che si sarebbe fermato.
Invece mi sorprese. «Ti aspetterò, come ho sempre fatto» bisbigliò al mio orecchio.
A quel punto mi prese di nuovo dalle braccia e mi spostò. Adesso lui era sotto e io sopra, mi fece sdraiare sul suo petto e iniziò a coccolarmi.
Ero distesa a pancia in giù con la testa poggiata sul suo torace, mentre mi muovevo trasportata dal movimento irregolare del suo corpo dovuto al respiro affannoso, e udivo la danza frenetica del suo cuore.
Rimanemmo così non so per quanto tempo, senza dire una parola.
Uno incollato all'altra.
Due parti di un unico insieme.
Due corpi che si sfiorano, due anime che si fondono.
Perché lui era questo.
Samuele era anima.
Era corpo.
Durante tutto il viaggio di ritorno in auto, non facemmo che sfiorarci con lo sguardo, sorridere timidi come due bambini che hanno appena scoperto cosa vuol dire scambiarsi effusioni. Magari per Samuele non era lo stesso, ma io mi sentivo di volare.
Appena varcai il portone del palazzo rimasi a guardarlo fino a che non ripartì, ero emozionata ed eccitata allo stesso tempo per la serata trascorsa, anche se il pensiero di non sapere cosa sarebbe successo quando ci saremmo rivisti, mi colmava d'ansia.
Mentre aspettavo l'ascensore il mio sguardo si spostò sulle buche della posta e, appiccicato sul vetro della mia, vi era di nuovo quel cartoncino rosa divenuto ormai familiare. Lo staccai con un gesto di stizza e lessi quello che la solita grafia regolare mi aveva scritto: «hai visto come lo hai ridotto? Sei la causa di tutti i suoi problemi, lascialo in pace».
Con rabbia accartocciai il biglietto nelle mani per poi riaprirlo e farlo in mille pezzetti. Aveva scoperto dove abitavo, questa storia stava iniziando a infastidirmi e irritarmi, mi sentivo come se ci fosse qualcuno che studiava quotidianamente tutto quello che facevo.
Quando rientrai in casa vidi mio padre adagiato sulla sua poltrona, con la testa liscia e priva di capelli, appoggiata al bracciolo. Il mio cuore per un attimo fece una capriola, scaraventai la borsa per terra e gli misi le mani sulle braccia che ciondolavano verso il parquet.
I suoi occhi si aprirono di botto e io mi sventolai il viso per cercare di calmarmi.
«Perché sei rimasto qui?», gli chiesi con un tale impeto che lui sembrò impaurirsi.
«Ti stavo aspettando», rispose con la voce roca per il sonno.
Sul tavolino in vetro di fronte a lui c'era una pila di CD e una moltitudine di custodie aperte sparse qua e là. Poi, con la mano tremante, papà afferrò un disco grigio su cui, scritto con un pennarello indelebile nero, c'era il mio nome.
«Ho fatto questo per te, sono tutte le canzone che rappresentano un pezzo della mia vita. Avrei voluto fartele ascoltare un giorno ma nel caso non avessi tempo...», disse scandendo ogni singola parola con difficoltà.
La mia bocca non riuscì a proferire parola, vederlo così sofferente ma sempre con il sorriso, mi provocava delle fitte agrodolci. Niente lo buttava giù, neanche l'idea di dover morire.
D'istinto presi il CD e mi buttai tra le sue braccia mentre gli baciavo la testa spoglia. Subito dopo mi misi sulle sue ginocchia con la testa a mezza strada tra la guancia e il collo, rimanemmo così tutta la notte in un abbraccio che valeva più di mille parole.
***
Molti mi chiedono perché ho scelto la ginnastica, perché ho scelto di privarmi di un'adolescenza normale e passare tutto il mio tempo libero ad allenarmi e ripetere gli stessi esercizi. Altri, invece, mi domandano perché ho scelto di correre il rischio di farmi male e, quando succede, cosa mi spinge a ricominciare tutto da capo. Io, sorridendo, rispondo che non sono stata io a scegliere la ginnastica ma è stata lei a scegliere me, e lo ha fatto in un modo così naturale e spontaneo da diventare l'essenza della mia esistenza.
Stare senza vorrebbe dire vivere una vita a metà.
Il sogno di vincere le Olimpiadi potrà anche non realizzarsi ma, la ginnastica, è la mia realtà e lo sarà fino a che il mio corpo potrà servirsene poi, dovrò dirle addio, e lo farò nel modo in cui si saluta l'amica più vecchia e cara che si ha.
Bisogna lottare per ottenere ciò che si vuole.
Bisogna lottare per vincere.
Io lotto ogni giorno e, tutto il sudore e la fatica, è ricompensata dalla passione per questo sport radicata dentro il mio corpo fino all'ultima cellula.
«Devo aumentare il coefficiente di difficoltà», dissi a Enrico mentre guardavamo insieme la registrazione della mia gara di Jesolo.
«Sei sicura? Manca solamente poco più di un mese», mi rispose lui perplesso.
Sapevo quanto questa mossa fosse azzardata ma, se pensavo alla potenza delle ragazze americane e all'agilità delle esili cinesi, ero sicura di dover cambiare i miei esercizi.
«Voglio inserire lo Tsukahara con doppio avvitamento a corpo libero», affermai decisa.
«Potresti compromettere tutte le Olimpiadi, lo sai questo?». Enrico mi scrutò negli occhi con aria dubbiosa e lo comprendevo, il mio fallimento avrebbe potuto pregiudicare anche tutta la squadra. Lo Tsukahara, un doppio salto indietro con un avvitamento, è una delle difficoltà maggiori per una ginnasta, solo poche al mondo riesco ad effettuarlo senza sbagliare.
«Sì».
Enrico sorrise, probabilmente notò il fuoco ardere nei miei occhi. «E Tsukahara sia», esclamò dandomi una leggera pacca sulle spalle.
Iniziai a provare il mio esercizio più volte di seguito, Enrico aveva posizionato un materassino nel punto in cui avrei dovuto effettuare il doppio salto, in modo da non rischiare che mi facessi male.
Quel pomeriggio mi sentivo forte, libera e sicura. Volavo come una farfalla.
I miei passi accarezzavano l'aria con delicatezza e il mio cuore seguiva il ritmo della musica. Mi dedicavo all'esercizio con tutta me stessa escludendo qualunque cosa e persona ci fosse intorno perché, la ginnastica, è anima e corpo.
La prima volta che realizzai uno Tsukahara perfetto fui percorsa da un brivido che urlava: ce la posso fare!
Quella sera tornai a casa con la testa tra le nuvole, ero pervasa da una felicità potente che mi faceva guardare il mondo con occhi diversi.
Inserii la chiave nella toppa del mio appartamento e girai. Aprii la porta e, per prima cosa, appoggiai come mio solito la borsa a tracolla vicino all'attaccapanni ricoperto di cappelli e sopra abiti, per poi andare in cucina per prendere un bicchiere d'acqua fresca in frigo. Non appena svoltai l'angolo, accasciata accanto alla porta della sua stanza, c'era mia madre. Era avvolta nel solito scialle bianco di seta, i capelli le ricadevano fin sopra le spalle in maniera scomposta e, con le braccia, si afferrava saldamente le ginocchia.
«Mamma!», la chiamai.
Lei non si mosse, lo sguardo puntato di fronte a sé, gli occhi vuoti senza espressione.
«Che succede?», gridai accasciandomi anch'io a terra vicino a lei e scuotendola per le spalle.
«Papà dov'è?».
SPAZIO AUTRICE:
Qui vediamo l'anima e corpo di cui parla Giusy xD
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