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3. Un illuso in un mondo di pazzi

Ero ancora profondamente sotto shock per tutto quello che mi era accaduto nelle ultime ventiquattr'ore: ero finito in un palazzo da incubo, lurido e fatiscente, sotto il comando di due perfidi domestici e con un marito che non si vedeva da nessuna parte. No, non l'avevo visto, ma l'avevo percepito. L'avevo sentito.

Ricordavo ancora i suoi feromoni, la forte imposizione di quell'odore, violento come quei profumi che ti fanno venire il mal di testa. Di solito i miei profumi preferiti, di quelli che mi spruzzavo su ogni centimetro di pelle e su ogni scampolo di tessuto, così che al mio ingresso nelle sale da ballo tutti sapessero che ero arrivato. Ma quella del Re non era una fragranza alcolica e chimicamente prodotta, era un odore che produceva in automatico, probabilmente un odore che sentivo soltanto io.

Mi aveva afferrato lo stomaco, mi aveva stordito i sensi, indebolito all'istante. E quella voce... Non me l'ero mica immaginata! L'arpia secca secca coi denti da castoro poteva pure inventarsi la ridicola storiella che fossi caduto e avessi sbattuto la testa, ma nossignore, non me l'ero immaginata.

"Dormi". 

Non sapevo come, ma quel bastardo truffatore di un Alpha, che ancora non si era degnato di farsi vedere, era riuscito a comandarmi a bacchetta. 

Al danno si aggiungeva la beffa: era scoppiato il temporale e tutti i miei averi erano rimasti in giardino ad inzupparsi. Nessuno sarebbe andato a recuperarli, nemmeno Ayana, finché non avesse smesso di piovere. Dopo un bagno bollente in una tinozza insopportabilmente piccola, con pochissimo sapone - e che non era assolutamente il mio sapone pregiato alla rosa canina - mi ero rimesso a letto, sconsolato.

Mi ci voleva una lunghissima dormita per riprendermi dal lungo viaggio e da un'accoglienza così terrificante. Almeno, avevo una stanza - seppur fredda e impolverata - e non ero finito in un ripostiglio. Quel postaccio non era niente in confronto al lussuoso complesso di appartamenti che avevo nel palazzo di Samarcanda. Dovevo costringermi a non ricordare tutte le comodità a cui ero stato costretto a rinunciare. 

I domestici non si erano neanche sprecati di dare una sistemazione alla mia governante, Ayana, che aveva deciso di dormire su un giaciglio di fortuna ai piedi del mio letto. Il castello le faceva troppa paura, di notte, per avventurarsi alla ricerca di un altro posto. Non mi ero nemmeno voluto affacciare nel corridoio per controllare: le credevo sulla parola. 

Nella profonda crisi di nervi che stavo attraversando, ero quasi tentato di affrontare il temporale, sfruttando la cappa di nebbia che vedevo dalle ampie vetrate, per fuggire. Ma non avevo nessun piano. Anche fuggendo, dove diamine sarei andato? A Samarcanda non ero il benvenuto, almeno non a Palazzo. Forse avrei potuto chiedere asilo in casa di uno dei miei tanti amanti facoltosi, ma Tusajigwe Jelani aveva spie ovunque, l'avrebbe scoperto e mi avrebbe rispedito in questo regno-fantasma. 

Dovevo elaborare un piano. Non c'era nessuno meglio di me a ficcanasare, spettegolare e raccogliere informazioni. Dentro di me, covavo la speranza che presto me ne sarei andato. Ma, per adesso, dovevo solo riposare. La dormita di bellezza richiedeva almeno otto ore, altrimenti avrei rischiato di farmi venire rughe, borse ed occhiaie, e sarebbe stata una disgrazia pari al rimanere nel regno di Vonya.

Non avevo tutte le mie creme da applicare sul viso prima di appisolarmi, né il mio paraocchi di seta. Mi limitai a sciogliere la treccia, spazzolarmi i capelli con le dita e sistemarmi nel letto pregando tutti gli spiriti che, l'indomani, mi sarei risvegliato per magia al posto giusto. Cioè a Samarcanda, nella mia stanza, con un appuntamento col mio muscolosissimo massaggiatore ben oliato ad attendermi poco dopo e una ricca colazione.

More selvatiche e lamponi appena colti. Aghi di pino punteggiati di neve, legna lasciata ad assopire nel camino, ancora rovente, appena bruciata. Castagne messe sul fuoco, l'umidità dell'erba fresca di rugiada e del muschio zuppo di pioggia. Quell'odore. Lo sentivo ancora, nel buio. Era tutto intorno a me, e mi avvolgeva con un manto. 

Poi mi resi conto che veniva dalla figura scura di fronte a me. Era immersa nell'oscurità, voltata di spalle, ne distinguevo soltanto i contorni, ma sapevo che era immensa. Larghe spalle, lunghe braccia e mani che sembravano terminare con degli artigli. 

«Tu ormai mi appartieni.» Era la voce più profonda e roca che avessi mai sentito. Assomigliava più ad un ringhio, che a qualcosa di umano. «Non puoi scappare. Non hai nessun altro posto dove andare.» disse. Io non riuscivo a spiccicare parola. Non riuscivo a muovermi. Ero semplicemente paralizzato, lì a guardare quell'ombra che si fondeva al buio. 

Ebbi l'impressione che stesse per voltarsi, ma proprio quando fui sul punto di vederlo finalmente, sentii solo: «E non ti rimane nient'altro che me.» 

Poi, un peso sul petto, la sensazione qualcosa che pungeva. 

Spalancai gli occhi e mi ritrovai faccia a faccia con un paio di piccoli dentini sporgenti e di occhietti neri. Scattai in piedi sopra al letto con una velocità fuori dal normale e lanciai un grido sovrumano.

«UN TOOOOOPOOOOOOOOOOOOO!» urlai a squarciagola, svegliando di soprassalto anche Ayana, che saltò sul letto accanto a me, terrorizzata sì, ma nemmeno la metà di quanto lo ero io. Quel sogno fumoso ed impercettibile era già svanito, la sensazione morbida e malinconica, sensuale ma inquieta, era stata sostituita frettolosamente dall'orrore. 

Mentre dormivo, mi era salito un ratto addosso! «CACCIALO, CACCIALO CACCIALO, FALLO SPARIRE AYANA! OH SPIRITI OH SPIRITI, FALLO SPARIREEEEEE!» mi misi a saltare come un ossesso sul materasso, mentre la mia governante aveva iniziato a lanciare tutto quello che trovava a tiro, ovviamente a portata di letto. Non osava scendere sul pavimento, dove il grasso sorcio zampettava tranquillamente, riuscendo a schivare con nonchalance tutto quello che gli veniva lanciato. 

«NON POSSO CREDERCI, NON POSSO CREDERCI, IN QUESTO POSTACCIO CI SONO ANCHE I TOPI!! I TOPI, I TOPI!!» mi sgolai, mentre tonfi e lanci si intervallavano nella stanza e Ayana gridava: «Se ti centro, brutta bestiaccia...!»

A quel punto, la porta si spalancò. Miss Simpatia coi denti da castoro, con la sua palandrana nera da vecchia strega, entrò nella stanza, seguita dal compare con le orecchie da lepre. Il ratto sgusciò prontamente fuori dalla camera, passando proprio in mezzo ai piedi della perfida domestica. Avevo i nervi a fior di pelle, perciò mi misi a ridacchiare come un pazzo isterico davanti alla scena. La stregaccia, che avrebbe avuto bisogno di un approfondito trattamento anti-rughe, non si era neanche accorta cos'era accaduto.

«Ah! Non ci aspettavamo che fossi già in piedi, Omega.» Sembrava quasi seccata di non essere stata lei a svegliarmi. Chissà che cos'aveva in serbo. Me l'aspettavo con un secchio d'acqua gelata in mano, invece... «Be', meglio così.» Storse il naso. «Scendi dal letto e sbrigati, hai un sacco di faccende da svolgere.» Fece finta che Ayana non esistesse.

Quelle parole mi confusero, al punto che feci come mi era stato detto: scesi giù dal materasso, piedi scalzi per terra, cosa di cui mi pentii subito vista la polvere. Speravo solo nell'assenza di escrementi di topo. «Faccende? Ma di che state parlando?» esclamai, voltandomi quindi verso le finestre, data l'assenza di luce solare. «E poi, è ancora notte! E come vi permettete di entrare senza neanche bussare!!»

C'erano talmente tante cose che non andavano in quello che stava succedendo che ero rosso di rabbia e avevo la lingua intrecciata dai mille pensieri indignati che si accavallavano l'uno sull'altro. 

«Ecco... le faccende domestiche iniziano prima dell'alba.» rispose Mister vecchio nanetto sottomesso. Sì, Ayana mi aveva detto i loro nomi il giorno prima, ma li avevo già dimenticati. In vita mia conoscevo così tante persone che non mi sforzavo di imparare tutti i nomi, ammesso che non fosse importante... E poi, li detestavo talmente tanto che non avrei mai dato loro questo onore.

«Le faccende domestiche?! Voi siete pazzi!» sbraitai, ma la Maligna Megera mi afferrò per il polso e iniziò a trascinarmi fuori dalla stanza, sghignazzando con un'aria cupamente soddisfatta. «E voi che cosa state a fare qui? Prendete la polvere come tutto il resto del castello?? Oppure non aspettavate altro che un povero allocco che facesse ciò per cui voi siete pagati?»

Mi ignorarono, mentre mi divincolavo rabbiosamente. Sembravo un criminale che stava per essere gettato in gattabuia. «Lasciatelo immediatamente! Quando la Regina Jelani lo verrà a sapere sarete tutti in un mare di guai!» Ignorarono anche lei.

«Fermatevi! Non mi sono cambiato i vestiti! Non mi sono fatto la skin care! Non mi sono nemmeno lavato la faccia! Mi verranno i punti neri!» Ma quella non era l'unica disgrazia. In effetti, non avevo un ricambio. I miei vestiti erano rimasti per tutta la notte sotto la pioggia, in delle valigie che ora puzzavano sicuramente di muffa. Non avevo dormito abbastanza e ovviamente mi sarebbero venute le occhiaie. 

Era terribile, era tutto terribile.

Ma stava per peggiorare. Scendemmo una marea di scale e mi ritrovai in una specie di antro sotterraneo con una grossa vasca calda, piena zeppa di stracci e acqua lurida. «Sei un tritone, giusto? Lavare i panni è proprio una mansione per te!» spiegò Miss Malignità, strattonandomi fino a farmi cadere in ginocchio, sul ciglio di pietra del vascone quadrato e sozzo. 

Una lavanderia. Era una vecchia lavanderia piena di panni sporchi, che non venivano lavati da chissà quanti anni! Ero talmente allibito che non riuscii a spiccicare parola, ma Ayana mi prese per le spalle e mi aiutò a rimettermi dignitosamente in piedi, restando alle mie spalle. E per fortuna, altrimenti sarei svenuto. Per la puzza, per l'idea di lavorare là dentro, per i calli che sarebbero venuti alle mie povere mani e per mille altri motivi. 

«Vedo che inizi finalmente a capire, Omega.» Miss Crocchia-stretta-stretta prese il mio ammutolire come una specie di fase d'accettazione. Non sapeva quanto si sbagliava. «Adesso, veniamo finalmente alle regole e ai programmi della casa. Avanti, Mister Tweeny.»

La vecchia lepre scattò sull'attenti quando chiamato all'appello. Era evidente che fosse Miss Mazza di Scopa a dettare legge. L'ometto, che si stava premendo un fazzoletto sul naso, lo abbassò per fingere una certa compostezza e si schiarì la voce. «Alle cinque vi sveglierete e verrete nei sotterranei per lavare il bucato. Alle sette dovete recarvi nelle stalle per pulire l'ambiente e strigliare i cavalli. Alle nove avete accesso alle cucine e vi sarà concesso di prepararvi la colazione. E... e...» Aggrottò la fronte, come se si fosse dimenticato una parte recitata a memoria.

Miss Arcigna storse la bocca, piccata. «E alle dieci dovrete riprendere le faccende. Ci sono gli androni e i bagni da ripulire da cima a fondo. Tutte le erbacce da estirpare nel giardino. I massi della torre ovest da sgomberare. Il vostro compito come Consorte del Re è quello di ripulire questo palazzo, nient'altro. Dalle tredici alle quattordici avete accesso alla cucina, così come dalle diciannove alle venti. Per il resto del tempo, pulirete.»

L'ennesimo risolino isterico mi salì alle labbra. «Ho anche dei diritti?» sospirai, ironico.

«Ed ecco le regole più importanti: non potete andarvene a zonzo nel castello e ficcare il naso dove vi pare e piace.» illustrò, lisciandosi con una manata rigida i capelli sulla testa, per assicurarsi che nessuna ciocca fosse fuori posto dallo chignon tiratissimo sulla testa. «E' assolutamente proibito andare nella torre est, quella dove ti sei impudentemente avventurato ieri. Il Padrone non vuole essere disturbato.» mi disse, stringendo gli occhietti con malignità. 

Mi resi conto che fino ad ora lei e il vecchio mi avevano dato del voi perché parlavano anche con Ayana, era compresa nel pacchetto schiavitù. «E infine, non ti è in alcun modo concesso, Taro di Smeraldo, mettere piede fuori da questa proprietà.»

Quelle parole risuonarono dure come uno schiaffo. «C-che cosa?? State dicendo che non posso andare in paese? Che non posso andare a farmi una nuotata?» esalai, strabuzzando gli occhi. 

«Io sono la sua governante e ho il compito di accompagnarlo ovunque, se il Vostro Padrone teme che il principe se ne vada o lo tradisca. Ma non avete alcun diritto di confinarlo qui fino a questo punto!» intervenne Ayana, furiosa. La mia ottimista governante non ne poteva più e cacciava fuori gli aculei dalla faccia con un'aria feroce.

I due domestici si scambiarono un'occhiata. Miss Meschinità incrociò le braccia sul petto, alzando il mento. «Dimenticate le vostre sciocche leggi mondane. Qui a Vonya le cose funzionano molto diversamente e gli editti del Sovrano sono inespugnabili. Nessun Omega può  lasciare le mura domestiche. Nessun Omega può parlare con uno sconosciuto se non è il suo padrone a concederlo. E lui e soltanto lui può concedergli di andare in città, in sua compagnia, ma l'Omega deve avere il Velo: l'abbigliamento consono fuori casa. Uscire senza permesso significa andare incontro alla fustigazione. Gli Omega non hanno diritti, no... Gli Omega hanno doveri.»

Indietreggiai, gelato. C'era qualcosa di profondamente disgustoso, di profondamente sbagliato nel luogo dove ero appena finito. Mia madre lo sapeva? La Regina ne era a conoscenza prima di mandarmi in un posto che mi avrebbe privato della mia libertà fino a questo punto? Era stata superficiale o semplicemente crudele ad impartirmi una punizione così dura?

«Voi siete folli... siete dei folli fuori di testa... E io non resterò in questa dittatura governata da squinternati un minuto di più!» ringhiai, raggelato, rabbioso ma anche profondamente spaventato. Girai i tacchi e mi misi a correre, con la stessa ferocia e la stessa fretta del giorno prima. Ma se ieri ero andato alla ricerca di "mio marito", adesso mi apprestavo ad abbandonare il castello.

Salii i gradini a due a due per uscire dalla lavanderia sotterranea. Mi feci strada fra i polverosi corridoi, fra i fili di ragnatele e le vetuste armature che stazionavano agli angoli del castello. Raggiunsi l'androne principale, quello dove ieri pensavo mi aspettasse un tappeto rosso e uno stuolo di servitori in festa. Illuso. Ero stato un illuso. Un illuso in un mondo di pazzi. 

Con l'angoscia che mi martellava nel petto, spalancai il portone e sentii un po' della mia paura alleviarsi, perché almeno non era chiuso. Scesi le gradinate, superai le macerie della torre crollata e della fontana prosciugata, mi riempii le scarpine di seta di fango. Corsi e corsi, senza essere inseguito. Sospetto, ma nel panico non me ne resi conto.

Finché non arrivai davanti ai cancelli, lì dove si trovavano ancora i miei bagagli zuppi d'acqua. Erano alti alti, di ferro e pietra, con spunzoni massicci sulla cima. E chiusi da un pesante catenaccio, con un grosso lucchetto. Dall'altro versante del Palazzo, lì dove non c'erano cinta murarie, solo uno strapiombo altissimo sul mare.

Crollai sulle ginocchia, immobile dinnanzi all'invalicabile cancello. 

Ero in trappola. E ci sarei rimasto, finché non avrei trovato un modo per fuggire.


*N D A*

Hola a tutti!

Vi ho lasciati a dicembre e sono ritornata a dicembre. Rieccomi qui. Come ho scritto anche sul mio profilo, un po' di impegni, vita personale, calo dell'ispirazione e tanto altro ci si è messo in mezzo, ma sentivo una terribile mancanza nella scrittura. Prova del fatto che oggi mi sono rimessa a scrivere e il capitolo, infatti, si è tipo scritto da solo! Spero che ritornerete a seguire questa storia, perché ho tutta l'intenzione di finirla e portarla a compimento. Quanto agli aggiornamenti: non vi posso ancora dare una cadenza puntuale/settimanale, vediamo un po' come prosegue, piuttosto, ma cercherò di non farvi aspettare fra un capitolo e l'altro!Alla prossima <3

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