9: Fuoco e Ghiaccio
La verità è che la risata suona sempre più perfetta del pianto. La risata scorre con un ritmo violento ed è melodia spontanea.
Anne Rice (🖤)
Dopo Solo di Alfred, l'uomo seduto accanto a lui lesse Il Corvo - sembrava che gli abitanti di Nessdoom avessero una particolare predilezione per Poe. Evidentemente Nessdoom non li deprimeva abbastanza, avevano bisogno di una dose ulteriore di tristezza e malinconia. E di terrore.
Vennero lette poesie di Carver, Rexroth, e una donna si cimentò in una poesia di Prévert dimostrando una discreta domestichezza con il francese - ne fui invidioso. Se avessi saputo parlarlo anch'io forse Blythe mi avrebbe guardato sotto una luce diversa, migliore.
Mentre ad uno ad uno salivano sul palco per leggere o recitare le poesie, io mi godevo la vicinanza di Blythe - stare semplicemente vicini, respirare lo stesso ossigeno ed ascoltare gli stessi versi di un poeta morto per amore; inebriarmi del suo profumo, caldo come il sole di una notte di mezz'estate e fresco come l'inverno estivo di San Francisco.
Inesorabilmente arrivò il momento in cui gli unici che si erano sottratti alla gogna pubblica eravamo io, Blythe e Capelli Viola.
«Vogliamo sconfiggere la timidezza e salire sul palco?» chiese Emma, rivolgendosi a noi tre.
Io non avevo fretta di sconfiggerla.
Dietro di noi Capelli Viola sbadigliò. «Io passo: l'unica filastrocca che conosco è quella per ricordarsi quanti giorni ha ciascun mese. Proprio come ha ipotizzato, io sono qui perché non ho nessuno con cui ubriacarmi il venerdì sera».
Il suo tono era ancora annoiato e apatico, e non potevo fare a meno di chiedermi cosa ci facesse in un club di poesia se non le piaceva la poesia. Era antipatica - indubbiamente - e cattiva - forse - , quindi doveva avere sicuramente degli amici: alla Hamilton e nelle altre scuole superiori antipatia, cattiveria e popolarità andavano a pari passo.
«Abbiamo una giovane Bukowski tra di noi!» esclamò Emma, e stavolta avrei riso di gusto alla sua battuta, se non fossi stato teso come la corda di un violoncello. Temevo quel palco e quel piccolo pubblico più di qualsiasi altra cosa...
Rimanevamo soltanto io e Blythe.
E adesso che faccio?
Ancora prima che mi decidessi sul da farsi - come potevo fare una scelta se avevo il cervello in pappa? - lei si alzò, sfidando uno ad uno gli sguardi sospettosi dei presenti. Sapeva cosa pensavano di lei e della sua famiglia, ma ciò non la fermò dal salire sul palco.
«Fuoco e Ghiaccio di Robert Frost», disse, la voce più cristallina che mai, pioggia primaverile che si riversava su animi ardenti.
«Dicono alcuni che finirà nel fuoco il mondo
altri nel ghiaccio.
Del desiderio ho gustato quel poco
che mi fa scegliere il fuoco.
Ma se dovesse due volte finire
so pure che cosa è odiare
per ammettere che per la distruzione
il ghiaccio è altrettanto forte e sufficiente».
La sua voce da soprano mi aveva ipnotizzato e mentre recitava la poesia mi ero totalmente distaccato dalla realtà, come se stessi sognando. Solo quando il silenziò piombò sulla stanza mi destai da quell'incantesimo e venni scaraventato violentemente nel mondo reale.
«Dimmi, Blythe, quale significato attribuisci a questa poesia?» chiese Emma seduta su una delle sedie del pubblico, in tono di sfida, la sua voce sempre più odiosa - l'antitesi di quella di Blythe.
Notai che sapeva il nome di Blythe, nonostante non si fosse presentata - e Blythe non aveva mai sentito parlare di Emma prima che leggesse il volantino affisso sull'albo all'atrio della biblioteca. Era proprio vero che godeva di una brutta reputazione a Nessdoom...
Al posto di Blythe sarei già fuggito via: il mio posto era nell'ombra, anonima e confortevole - dovevo ancora decretare se avessi abbandonato definitivamente L.A. o se mi fossi solamente concesso una vacanza dalla durata indefinita in quella che era la cittadina più nebbiosa degli Stati Uniti.
Ultimamente, però, sembrava che fuggire fosse diventata la mia specialità.
«Per me questa poesia rappresenta una metafora dell'esistenza di ogni essere senziente», spiegò Blythe, «qualsiasi strada o scelta si prenda, inevitabilmente dettata dall'eros o dal pathos conduce inesorabilmente alla propria fine - è solo questione di tempo.
Il fuoco simboleggia l'amore, il desiderio, l'arte che ardono nel cuore di ogni persona fino a ridurlo in un cumulo di cenere. Allo stesso modo il ghiaccio - che simboleggia l'odio, la distruzione e il nichilismo - congela e consuma il cuore. Forse impiegherà più tempo, ma il risultato finale sarà sempre lo stesso: cenere alla cenere, polvere alla polvere...».
Sul pubblico calò un'atmosfera cupa. Nessuno avrebbe immaginato che da quella voce cristallina potesse prendere forma una visione così cinica della vita. Era stato come ascoltare un angelo cherubino che cantava una canzone dei Nirvana davanti ai cancelli del paradiso.
Blythe scese aggraziatamente dal rialzo del palco - che temevo sarebbe stato la causa della mia disfatta pubblica - e tornò a sedersi accanto a me. Era così vicina, eppure in quel momento la sentii a un mondo di distanza...
«Eros e pathos... Conosci anche il greco?», bisbigliai, curioso.
«So parlare fluentemente molte lingue, caro Aiden», replicò Blythe sottovoce.
Caro Aiden. Improvvisamente la temperatura della stanza si alzò di un paio di gradi centigradi.
«Muoio dalla voglia di sapere quale poesia hai portato», aggiunse.
«Io invece credo che morirò per la vergogna di leggerla davanti a così tante persone», ribattei. E soprattutto davanti a te.
«Fammi capire: sono le persone ad essere il problema?»
Annuii. «Le persone e il palco. Credo che gli psicologi la chiamino agorafobia».
«Allora facciamoli sparire».
I polpastrelli delle sue mani si posarono su entrambe le asticelle dei miei occhiali, sfiorandomi le tempie. Delicatamente mi tolse gli occhiali e li posò sulle gambe accavallate.
Blythe divenne una sagoma mal delineata, un miscuglio sfocato di rosso, bianco e nero; le sue occhiaie erano sparite, come qualsiasi altro dettaglio del suo corpo.
«Ma adesso non vedo niente», protestai.
«È proprio questo l'obiettivo. Non puoi avere paura di qualcosa che non vedi, no?»
«Non credo che funzioni esattamente così. Ho paura anche dei germi e di altre cose invisibili all'occhio umano».
Ero al limite della cecità, eppure potevo giurare che Blythe avesse alzato gli occhi al cielo.
«Il prossimo, grazie», disse Emma, facendomi sobbalzare.
Era il mio turno.
Mi alzai, e le mie gambe avevano improvvisamente assunto la stessa consistenza della gelatina. Camminai - costrinsi il mio corpo a muoversi, lento e pesante, verso il piccolo palco. Quando vi salii sopra - non inciampare, non inciampare! - mi assalii la consapevolezza che senza occhiali non sarei stato in grado a leggere il mio piano B, l'haiku che avevo scritto la sera precedente. Be', d'altronde lo avevo scritto io, riletto più volte e lasciato fluire nei suoi tre versi i miei sentimenti più reconditi - sentimenti che stavo per condividere con una manciata di sconosciuti e la mia fonte di ispirazione -, quindi era impresso a fuoco nella mia memoria.
Il cuore batteva all'impazzata contro il petto, veloce quanto il battito di ali di un colibrì. Con un po' di fortuna un infarto mi avrebbe salvato da quella gogna pubblica in cui ero volontariamente cacciato.
Aprii la bocca per parlare, ma le parole mi morirono in gola - uccise dal peso degli sguardi che non vedevo, ma che percepivo sulla mia pelle come una miriade di aghi.
Non puoi avere paura di qualcosa che non vedi, no?
Mi concentrai su quel pensiero, e lo ripetei nella mia testa come un mantra, finché il pubblico divenne una distesa sfocata di colori. Nessuna persona, nessun giudizio, soltanto colori.
«Sono Aiden, e stasera ho deciso di portare un haiku di Murakami». L'avevo sparata grossa. Murakami. Sì, certo. «Oh, già, per chi non lo sapesse, un haiku è una tipica poesia giapponese, solitamente composta da tre versi», spiegai frettolosamente.
Feci un respiro profondo e mi sforzai di parlare con un tono di voce ragionevolmente alto, cosicché tutti potessero sentirmi - avrei fatto volentieri a meno di ripetermi.
«Versi scarlatti
e scintille viola
divampano in me».
Tutto sommato, era stato rapido e indolore. Soprattutto rapido, il calvario era durato due secondi. Sembrava troppo bello essermela cavata così, e l'attesa del pubblico era palpabile. Volevano di più.
«Credo l'autore di questa poesia volesse esprimere i sentimenti che provava per una persona speciale», iniziai ad improvvisare. «Lo scarlatto e il viola simboleggiano rispettivamente la passione e la magia, elementi infusi nelle parole, i versi, della persona desiderata dall'autore. Parole che non comprendeva appieno, un eterno mistero su cui fantasticava ripetutamente alimentando la sua stessa passione, come fiamme che ardono...».
Mi fermai, non sapendo più dove andare a parare. Perlomeno nessuno nel pubblico sembrava intenzionato a processarmi al Tribunale dei Poeti per aver accreditato una poesia scritta dal mio pugno ad un autore realmente esistente. Se l'erano bevuta. Forse non ero così male come bugiardo...
«Be', credo che sia tutto». Scesi dal palco, e ringraziai mentalmente Blythe per avermi preso in ostaggio gli occhiali. In quel momento, non sarei riuscito guardare in faccia il pubblico dopo aver mentito così spudoratamente.
Le mie gambe dalla consistenza della gelatina erano passate a quella dello yogurt - di questo passo, sarei uscito dalla biblioteca su una sedia a rotella -, quindi fu un sollievo tornare a sedermi fuori dal mirino del pubblico.
Blythe mi passò gli occhiali, stando attenta a non toccare le lenti. «Allora?»
«Avevi ragione: ha funzionato. Cioè, togliere gli occhiali, non vedere nulla... Per un momento è stato come essere da solo», dissi inforcando gli occhiali.
«Ne ero certa. Però...»
«Però?»
Blythe sembrava incerta se continuare o meno, ma dopo qualche secondo continuò a parlare, scostandosi una ciocca di capelli dal viso e sistemandola dietro un orecchio. «Però l'ultima volta che ho dato un'occhiata alla biografia su Wikipedia di Murakami, la dicitura 'poeta' era assente».
Sbiancai. «Davvero?» dissi in tono casuale, come se stessimo parlando del tempo o di scuola.
Proprio in quel momento Emma salì sul palco. «Bene, sembra che anche questa settimana ce la siamo cavata, chi più», passò in rassegna ogni viso delle persone nel pubblicò, e quando guardò il mio abbassai istintivamente la testa, «e chi meno. Prima di congedarci, tuttavia, vorrei lasciarvi una mia poesia, sperando che possa essere uno spunto di riflessione per alcuni di voi.
Al di sotto delle macerie
giacciono gli amanti addormentati,
sepolti tra ossa e pietre
pregano di non essere dimenticati.
Uno di essi chiede:
"Finirà l'oblio?"
L'altro risponde:
"Quando lo vorrà Dio"»
Emma congiunse le proprie mani all'altezza del grembo e tornò a parlare con la sua voce stridula, che aveva lasciato da parte mentre recitava la poesia - un breve lasso di tempo al quale le mie orecchie erano grate. «Fate attenzione tornando nelle vostre case, dai vostri cari».
«Molto suggestiva», commentai, mentre le altre persone si alzavano e iniziarono a lasciare la sala.
«Senz'altro», concordò Blythe, fredda. «Vogliamo andare? Sto iniziando a sentirmi di troppo».
Uscimmo da quella saletta, dove avevo provato le pene dell'inferno, e sperai di non tornarci mai più. Tuttavia, se Blythe me l'avesse chiesto, sarei andato al club di poesia ogni giorno.
Camminavamo lentamente lungo il corridoio dove erano affissi riproduzioni di quadri e fotografie di scrittori, come se non avessimo fretta di uscire dalla biblioteca e separarci - o perlomeno mi piaceva pensarla così.
«Posso chiederti chi è il tuo autore preferito, o mi rifilerai un'altra mezza verità?»
«Provo un certo affetto per Fitzgerald: combatté per tutta la vita per non venire trascinato dalla povertà ed essere schiavo delle tentazioni, e fece dell'amore per sua moglie Zelda la propria raison d'être», rispose, ignorando la mia frecciatina. «Belli e Dannati è stato il mio amore adolescenziale».
«Oh. Non l'ho mai letto», ammisi.
«Allora è il caso di rimediare, e per tua fortuna siamo in una biblioteca».
Eravamo ormai giunti nell'atrio, ma Blythe imboccò il corridoio che conduceva alla sala lettura. Non potevo fare a meno di seguirla, sforzandomi di stare al suo passo innaturalmente veloce.
«Ma il banco prestiti a quest'ora è chiuso», ribattei.
«Le procedure biblioteconomiche sono solo una mera convenzione dettata da una società burocratica. Eluderle non farà male a nessuno».
Misi in moto le rotelle del mio cervello per capire cosa intendesse. «Mi stai per rendere complice di un furto con scasso?» dissi, ma piuttosto che una domanda mi uscì a mo' di affermazione. «Okay, si tratta di un libro, ma è pur sempre un reato».
La parte meno nobile di me, quella che era tentata di fare uso di psicofarmaci per evitare di essere sopraffatto dall'ansia prima di entrare in biblioteca, gridava di gioia all'idea di trascorrere un po' di tempo supplementare con Blythe - non importava che lo impiegassimo commettendo un crimine o parlando di libri, gioiva a prescindere.
«Moralmente parlando, non è considerato un furto se ti impegni a restituire il libro entro un ragionevole lasso di tempo; e, se la porta non è chiusa a chiave, non sarà necessario scassinarla».
Pregai che mia nonna, ovunque si trovasse in quel momento, non mi stesse guardando.
Prima che riuscissi ad oppormi, fummo davanti alla porta d'ingresso della sala lettura. Ma in che cosa mi stavo cacciando?
Mi guardai attorno, per accertarmi che non ci fossero testimoni. «Non preoccuparti, siamo soli», mi rassicurò Blythe, accorgendosi che ero in allerta. «Sono andati via tutti, ad eccezione del bibliotecario, che sta cercando di convincere Emma a venire a cena da lui. Le sue avances sono insistenti, quindi ne avranno ancora per molto».
«Oh... È il caso di... non so, chiamare qualcuno?» chiesi preoccupato per Emma, nonostante non fosse esattamente una delle mie persone preferite.
«Non è necessario. Alfred sa accettare un rifiuto, e la sua voluttà si è spenta tempo addietro. È praticamente innocuo».
Voluttà. Era una parola molto antiquata per descrivere la lussuria o la bramosia; l'avevo letta solo una o due volte in vita mia, ed quella era la prima volta che la sentii pronunciare da qualcuno.
«Okay, ma tu come sai queste cose?»
Per quanto potesse sembrare incredibile, le credevo ciecamente.
Fece spallucce, come era solita fare quando si apprestava ad eludere una mia domanda. «Intuizione, sesto senso, spirito d'osservazione. Decidi tu quale ti sembra più appropriato».
«Tutto chiaro», sbuffai.
Blythe ignorò il mio sarcasmo e aprì la porta, oltre la quale c'era la sala lettura totalmente immersa nel buio. «Visto? Era già aperta, non è stato necessario ricorrere alle maniere forti. Ci siamo risparmiati una denuncia per vandalismo a proprietà pubblica».
Varcò la soglia della sala lettura, e dopo pochi passi si mescolò all'oscurità circostante fino a sparire completamente dalla mia vista. «Vuoi entrare anche tu oppure aspetti il tappeto rosso?» chiese, la sua voce divertita proveniva da una parte indefinita di quell'oceano nero. Non la vedevo, ma riuscivo facilmente ad immaginarmi il suo sorrisetto divertito.
Entrai anch'io, e una volta che chiusi la porta - l'unico spiraglio di luce - l'odore di pagine datate e di polvere mi inondò le narici. Era buio pesto, allora presi a tastare la parete in cerca di un interruttore della luce.
«No», sibilò Blythe, e le sue dita si strinsero in una morsa d'acciaio attorno al mio polso, fredda e marmorea. Prima rabbrividii, poi mi sentii avvampare. Non mi ero preparato alla sua reazione, così improvvisa.
«Stiamo commettendo un'effrazione, no?», mi ricordò, sottovoce. «Temo che non possiamo concederci il lusso dell'illuminazione elettrica. Attirerebbe troppa attenzione».
Deglutii, la gola improvvisamente secca. «Ma non si vede nulla», sussurrai.
«Parla per te».
La pressione delle sue dita avvinghiate al mio polso allentò; le sue lunghe unghie percorsero il dorso della mia mano, fino alle nocche; infine si divisero in cinque ramificazione e seguirono la struttura delle mie dita, lasciando dietro di esse delle scie ghiacciate. Quando raggiunsero le estremità della mia dita esitai per un istante, ma alla fine girai la mano, offrendole il palmo. Lei lo accettò, e la sua mano si unì alla mia.
Rimasi stupito dalla morbidezza serica della sua pelle, che contrastava la stretta ferrea e glaciale con cui mi teneva la mano. Mi percorse un'altra scarica di brividi, più violenta di quella precedente, e mi venne la pelle d'oca.
«Sono gelida, vero?», chiese. Nella sua voce, un soffio caldo a pochi centimetri dal mio viso, c'era una sfumatura di senso di colpa.
«Non mi importa».
«Okay», sussurrò. «Vieni, lasciati guidare».
I suoi movimenti erano silenti, ma uno spostamento d'aria mi segnalò che si stava muovendo. Mi lasciai guidare dalla sua mano stretta alla mia.
Le tapparelle delle ampie finestre erano alzate, ma fitta nebbia grigio sporco evitava che anche la più minuscola forma di luce esterna riuscisse a fornire un minimo di visibilità. Eravamo avvolti nell'ombra, eppure Blythe camminava disinvolta, aggirando qualsiasi ostacolo le si potesse parare davanti: una libreria, un libro mal riposto che sporgeva da uno scaffale, un tavolo...
«Dove siamo?», chiesi. Per quanto mi riguardava, potevamo essere ovunque. Mi sentivo come se mi fossi perso in un labirinto, nel quale potevo trovarmi sia a pochi metri dall'entrata che dall'uscita.
«Abbiamo appena superato Lo Strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Stevenson», rispose prontamente Blythe.
«Quel libro è stato il dramma delle mie scuole superiori», sbottai.
«Vuoi rendermi partecipe del motivo?»
«È stato il soggetto della mia tesi all'ultimo anno. È un libro intrigante, senz'ombra di dubbio. Il punto è che... sai, a un certo momento per me non era più soltanto un libro, ma diventò qualcosa di più. Era diventato l'unico modo per... per diplomarmi e fuggire da quella maledetta scuola», dissi, e sussurrarlo al buio fu più facile che dirlo ad alta voce alla luce del sole. Mi sentivo stranamente leggero.
«Mi dispiace. Le superiori sono davvero così terribili come dicono?», chiese, curiosa.
«Dipende da chi e come sei. Possono essere piacevoli, oppure... un vero e proprio inferno», deglutii, mentre cercavo sopprimere vecchi ricordi che stavano tornando a galla. «Tu... Tu non sei mai andata alle superiori?»
«No, le mie madri sono un po' all'antica. Preferiscono che persegua la mia istruzione a casa».
«Oh». Per qualche ragione mi era impossibile riuscire ad immaginare Blythe che camminava per i corridoi di una scuola e che trascorreva ore e ore seduta ad un banco, in attesa che la campanella suonasse tra una lezione e l'altra. «Non ti perdi nulla».
«Lo spero vivamente. Non vorrei che la mia intera vita si rivelasse una bugia».
I miei occhi si erano gradualmente abituati all'oscurità. Riuscivo a scorgere le forme nere degli scaffali e dei libri, il lungo tavolo da lettura oltre gli scaffali, la pelle candida di Blythe e i suoi capelli scarlatti.
«Sai, avete una cosa in comune», disse, divertita.
«Chi, io e Stevenson?»
«Tu e il Dottor Jeckyll».
«E perché, scusa?»
Essere associato ad uno scienziato la cui ossessione per la psiche umana l'aveva portato alla morte non era esattamente ciò a cui ambivo nella vita.
Le sue dita disegnarono dei piccoli cerchi attorno alle mie nocche. «Siete entrambi in conflitto con voi stessi e avete un lato nascosto, oscuro».
Alzai gli occhi al cielo. «Non so di che cosa tu stia parlando».
«Gradirei che non alzassi gli occhi al cielo mentre parlo. Non è buona educazione».
Sbiancai. «Non ho-», iniziai a direi, la voce tremante.
«Non mentirmi, per favore. Non quando è buio e vedo tutto», sibilò, la sua voce gelida quanto la sua mano, ma con un accenno di dolore. La sua mano strinse ancora di più la mia, imprigionandola nella stessa morsa d'acciaio con cui mi aveva precedentemente afferrato il polso.
«È un... un ordine?»
«No!» esclamò, e la sua voce echeggiò nella biblioteca, rimbalzando contro i muri, disperdendosi in tutta la sala. «Non è un ordine», ribadì, in tono mite, ragionevole, «ma una semplice condizione che ti chiedo di rispettare per il bene di entrambi».
La mia mano iniziava a perdere sensibilità. «Tu farai altrettanto?» chiesi, a denti stretti.
«Non ti ho mai mentito e mai lo farò».
Inarcai un sopracciglio. «Sicura?»
«Omettere la verità e mentire sono due cose differenti, e, come si è soliti dire, beata ignoranza». La stretta della sua mano si rilassò, e ricominciai a recuperare la sensibilità del palmo della mia; ma la mia pelle nel frattempo aveva assorbito parte della sua temperatura corporea, diventando anch'essa fredda.
Quella continua aura di mistero iniziava a stufarmi. «Perché non lasci decidere a me cosa ritengo che debba sapere?»
«Ti fidi di me?»
Sì, pensai immediatamente. Ma non potevo dargliela vinta, non stavolta. «Se mi fidassi inizieresti a rispondere alle mie domande?», tastai il terreno.
«Se ti fidassi veramente, accetteresti che vivere nell'inconsapevolezza di alcuni... alcuni scabrosi dettagli è una benedizione», disse in un tono che non accettava repliche.
Ancor prima che riuscissi a ribattere, si fermò di scatto, rigida e radicata al suolo come una statua. Persi l'equilibrio e stetti per cadere in avanti; ma la sua mano si spostò fulminea dalle mie dita al mio avambraccio, fece leva verso la direzione opposta e ristabilì il mio equilibrio.
«Oh», esclamai, salvo dalla caduta. La mia dignità era ancora intatta.
«Catastrofe evitata».
Blythe infilò mano in una fila di libri riposti sugli scaffali - uno indistinguibile dall'altro - dalla quale ne estrasse uno voluminoso. Soffiò sulla copertina e senti qualche granello di ciò che presumevo fosse polvere posarmi sulle guance.
Blythe aprì il libro e girò qualche pagina, come per saggiarne la qualità. «Belli e Dannati, polveroso, friabile, maltrattato, ma ancora leggibile».
Il romanzo sfiorò il palmo della mia mano, lo afferrai e lo sistemai sottobraccio. «Grazie».
«Prego», sussurrò, e il suo fiato fece fluttuare via i granelli di polveri che erano posati sul mio volto, indicandomi che era vicina più di quanto avessi immaginato.
Sentii i suoi polpastrelli sfiorarmi il collo, scorrere lungo la spina dorsale. Erano tiepidi, come avesse sottratto calore dal mio corpo per trasferirlo al suo, bilanciando la differenza della nostra temperatura corporea.
Se c'era il rischio che il battito cardiaco di una persona potesse accelerare al punto da far schizzare il cuore fuori dal petto, lo stavo correndo in quel momento.
Un dito dell'altra sua mano traccio una linea lungo il profilo della mia mascella, e, nonostante fosse gelido, stavolta lasciò dietro di sé una scia bollente, talmente intensa da essere quasi dolorosa. Eppure ne volevo ancora e ne avrei voluto sempre di più.
Del desiderio ho gustato quel poco che mi fa scegliere il fuoco, risuonò nella mia testa.
Riuscivo a percepire il calore delle sue labbra, un paio di petali ardenti, a solamente un respiro di distanza...
Poi ci fu il rumore della maniglia della porta che girava.
A/N: scrivere questo capitolo, due poesie e tradurre Fuoco e Ghiaccio di Frost ha ucciso tutti i miei neuroni. Buonaserata.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro