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7: Incubo Lucido

"La vita è una tragedia per coloro che sentono, e una commedia per coloro che pensano."
Horace Walpole

Un'altra notte insonne fu teatro delle mie disavventure a Nessdoom. Appena provavo a chiudere gli occhi nella mia mente si palesavano immagini di donne che bruciavano al rogo, le fiamme che dilaniavano la pelle fino ad annerirla, cumuli di ossa carbonizzate, e talvolta avevo l'impressione di udire in lontananza urla strazianti, l'eco di un dolore senza fine.

I miei occhi erano arrossati e chiedevano riposo, e sotto di essi si erano formate vistose occhiaie, ma ogni qualvolta che stava per vincere la stanchezza mi sforzavo di pensare al club di poesia al quale avrei partecipato entro poche ore - l'alba era già sorta e Joseph era uscito per andare a lavorare - l'ansia che mi suscitava il pensiero di rivedere Blythe e leggere una poesia di fronte a un pubblico mi teneva sveglio attanagliandomi i nervi.

Il problema dell'ansia, però, era che, a lungo andare, ti uccideva piano piano. Dovevo sia tranquillizzarmi che restare sveglio.

Collegai le cuffie al telefono e le infilai nelle orecchie. Abbassai la luminosità del display al minimo - gli occhi avevano iniziato a lacrimare - e cercai una canzone che mi facesse evadere dalla realtà.

Non avevo esattamente l'imbarazzo della scelta: la playlist del mio telefono era composta prevalentemente da canzoni rock e metal, sottocategorie comprese, e qualche repertorio di musica classica. Partì un vecchio successo dei Linkin Park al massimo volume e lasciai che la mia mente venisse trascinata dalla sua melodia, dalle loro parole cariche di rabbia e disperazione.

Mi concentrai sul testo, canticchiandolo a labbra socchiuse e cercando di isolare il suono di ogni singolo strumento per cercare di distinguerlo dagli altri.

Funzionò. La musica sparata ad un volume assordante mi impediva di formulare qualsiasi pensiero, di soccombere all'ansia e alla paura.

Funzionò fin troppo bene: mi addormentai . Aiden 0 - sonno 1.

Mi trovavo nel cortile delle scuole superiori di Los Angeles che avevo frequentato - la Hamilton aveva rubato quattro anni della mia vita, tra bullismo e ore e ore passate a studiare per un diploma di cui non sapevo cosa farmene - e non potevo immaginare un luogo peggiore dove ambientare un imminente incubo.

Il cortile lo ricordavo come un vasto spiazzo di cemento baciato dal sole californiano e con gruppetti di ragazzi riuniti per discutere tra di loro su chi fosse il più sfigato della scuola - solitamente la scelta ricadeva sul sottoscritto - e la ragazza dai più facili costumi, ma nel mio sogno la luminosità del sole e il cielo terso erano stati sostituiti dalla nebbia - il clima di Nessdoom si era già impossessato dei miei sogni - che offuscava l'ambiente circostante, benché non ci fosse molto che valesse la pena di essere visto, alla Hamilton.

In quel mare di nebbia notai l'ombra di una colonna che si stagliava sull'orizzonte, la cui cima si innalzava fino a fondersi con il cielo plumbeo. Camminai verso la colonna; dalle ginocchia in giù non si scorgeva nulla, ogni cosa era immersa nel bianco più assoluto.

Quell'atmosfera calma e silenziosa fu spezzata da delle urla provenienti dalla colonna. Urla agghiaccianti.

Ero ancora troppo lontano per riuscire a capire cosa stesse succedendo, allora iniziai a correre più veloce che potevo - purtroppo l'unica attività fisica che eseguivo regolarmente era voltare le pagine dei libri, quindi chiunque stava urlando avrebbe dovuto pazientare. Man mano che mi avvicinavo alla colonna riuscivo a distinguerla per ciò che era veramente: un palo della luce metallizzato, il cui lampione lampeggiava a scatti, morente, e il flebile chiarore che emanava veniva offuscato dalla nebbia.

Quel lampione era identico a quelli che costeggiavano il marciapiede circostante alla Hamilton, eccetto per un unico particolare: al palo era legata Ophelia, il cui busto e le caviglie erano stritolate da una fune come la morsa fatale di un cobra. Neppure tra i peggiori atti di bullismo che avevo assistito e subito alla Hamilton avevo visto qualcuno legare uno studente a un palo della luce - d'altronde nella maggior parte dei casi il bullismo passava inosservato; e se si aveva la sfortuna di esservi testimone, l'istinto di autoconservazione suggeriva di voltare la testa altrove.

Adesso, però, dovevo accantonare l'istinto di autoconservazione: questione di altruismo, presumevo.

«Aiden! Aiden! Aiutami, ti prego!» gridò Ophelia. «Stanno arrivando».

Mi avventai contro le corde e feci il possibile per scioglierle, ma la mia scarsa manualità non mi era affatto d'aiuto, non mi dava tregua neppure nei miei sogni... o nei miei incubi.

Una parte del mio cervello era impegnata a lottare per sciogliere le corde - ero in una situazione di vita o di morte, no? - e un'altra a non toccare (o sfiorare) per sbaglio parti del corpo di Ophelia che potessero essere ritenute... inappropriate. Il mio senso del pudore non mi lasciava tregua neppure durante la fase REM.

«Ugh...», borbottai, in difficoltà.

«Cazzo, sbrigati!» mi incitò Ophelia: sarebbe stato carino se si fosse risparmiata l'abitudine di imprecare, almeno nei miei sogni.

«Temo che sia più probabile che George R.R. Martin finisca la prima stesura del suo prossimo romanzo piuttosto che io riesca a sciogliere queste corde!» sbottai.

«Eccoli...» disse Ophelia, la voce infusa di paura.

Se non fossi riuscito a liberare Ophelia, avrei potuto affrontare coloro che la terrorizzavano. Non avevo mai fatto a botte in vita mia e non avevo mai visto uno scontro di pugilato in televisione - l'unico stile di lotta con cui avevo affinità era quello pacifista, di Ghandi - quindi ero pronto a giurare che le avrei prese. Neanche Joseph avrebbe scommesso su di me.

D'altro canto, se il genere young adult era il più popolare sulla piazza, allora c'era anche la remota eventualità che non sarei uscito da un ipotetico scontro con un paio di occhi neri: tutto era possibile.

Mi girai.

Una cortina di nebbia evaporò lentamente dal suolo e prese a vorticare su sé stessa, sempre più velocemente, fino a divenire un piccolo tornado; poi si dissolse gradualmente, finché della nebbia non rimase che un ricordo, dal quale emersero due sagome avvolte in un mantello nero che scendeva fino ai piedi.

Una delle due sagome era imponente e grossa come un armadio, l'altra minuta ma ugualmente minacciosa.

Quella minuta era la persona che negli ultimi tempi era una presenza fissa nei miei pensieri e l'antitesi delle mie domande. Blythe, i cui capelli fuoriuscivano a ciocche da un cappuccio nero; le sue misteriose iridi avevano assunto una tonalità identica a quella dei capelli scarlatti - rosso sangue che sgorgava a fiotti. Eppure, nonostante gli occhi degni di una creatura nata dalla penna di H.P. Lovecraft, il suo tratto più minaccioso era l'espressione carica d'odio con cui fissava - anzi, fulminava con lo sguardo - Ophelia. Non sapevo il motivo di tutto quell'odio, ma sapevo che voleva farle del male - era inequivocabile.

Al suo fianco, invece, c'era una persona che preferivo rimanesse il più lontano possibile dai miei pensieri - e dalla mia vita. Mark Terril, noto come quarterback o running back della squadra di football della Hamilton (per le mie limitate conoscenze dell'ambito sportivo un ruolo valeva l'altro), bullo patentato, flagellatore di noi quattrocchi che lo incrociavamo nei corridoi e, come direbbe Ophelia, testa di cazzo DOC.

Il mantello che indossava mi risparmiava la vista dei suoi pettorali e addominali scolpiti che lo rendevano uno dei ragazzi più popolari della Hamilton e il candidato perfetto come protagonista per un libro young adult di pessimo gusto, ma non quella di un piccolo e doloroso dettaglio: le grosse dita virulenti di Mark erano intrecciate a quelle fini e pallide di Blythe - il mio incubo peggiore e il mio sogno ad occhi aperti si tenevano per mano. Qualcuno mi svegli, per piacere.

«Aiden, spostati, per cortesia», disse Blythe, candidamente. «Potresti farti male».

Obbedii; non avevo la forza di volontà per oppormi a quella voce ipnotica. Feci un passo in laterale per spostarmi dalla linea di tiro e il mio piede sguazzò in un liquido trasparente.

Mark accese un accendino a gas con la mano libera, e tese il braccio verso di me. «Levati dai piedi, quattrocchi. Gli scarafaggi come te fanno una puzza del cazzo quando bruciano», ringhiò, con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.

A quel punto dedussi che il liquido trasparente in cui avevo affondato il piede con molta probabilità era benzina.

Se Blythe cercava di convincermi di spostarmi con fredda cortesia, Mark invece preferiva fare leva sulle minacce - e avevo imparato a mie spese che non bluffava mai, non esitava a metterle in atto: l'umiliazione e il disgusto di avere la testa immersa in un gabinetto pieno di feci (che sia dannato l'incosciente che si era dimenticato di tirare lo sciacquone) e una cicca masticata appiccicata ai capelli erano ancora vividi sulla mia pelle.

Mi feci da parte, sia per compiacere Blythe che per evitare qualsiasi cosa Mark avesse in serbo per me. Me ne aveva fatte passare troppe e non ero più disposto a lasciare che sperimentasse la sua vena sadica su di me - per nessuna ragione al mondo.

«Bravo, quattrocchi», disse Mark.

Appena misi i piedi all'asciutto, lontano dalla benzina, Mark fece cadere l'accendino per terra, il liquido trasparente si colorò di arancione e una vampata si alzò verso il cielo, accompagnata da un sibilo.

Il fuoco prese a serpeggiare seguendo la striscia invisibile di benzina, avanzando inesorabilmente verso Ophelia, legata ed impotente - non ero riuscito a liberarla, e adesso era troppo tardi.

La scia arancione era sempre più vicina ad Ophelia; Mark si gustava la scena esibendo ancora il suo sorriso smagliante, come se stesse posando per una pubblicità di dentifrici: Stronzadent, il dentifricio perfetto per uno stronzo di prim'ordine.
La scurrilità di Ophelia aveva una pessima influenza sul mio linguaggio.

Blythe seguiva con lo sguardo il serpente di fuoco; l'odio che trapelava dal suo viso venne sostituito da un'espressione soddisfatta, la stessa di un gatto che aveva appena divorato un topolino, e ascoltava le urla di terrore di Ophelia come se fosse una vecchia canzone famigliare.

Quando le urla di Ophelia si tramutarono in dolore - il fuoco l'aveva presa con sé e avvolta tra i suoi petali di giglio - sul viso di Blythe si dipinse il sollievo.

Le dita di Blythe e Mark erano ancora saldamente avvinghiate.

Abbassai gli occhi, non volevo guardare.

Poi li aprii, e fuori dalla mia finestra della mia stanza il cielo era nero - nero come i mantelli di Blythe e Mark.

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