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3: Riposa in Pace

Il confine che divide la vita dalla morte è, al meglio, ombreggiato e vago.
Chi potrebbe sapere dove uno finisce e l'altro inizia?
Edgar Allan Poe


Data la comune attrazione per il macabro di me e Ophelia, mi sarei potuto aspettare che la nostra destinazione fosse il cimitero di Nessdoom. Si trovava dalla parte opposta della biblioteca e dal principale centro della città.

Il cimitero era delineato da un cancello arrugginito e da alti muri di pietra, sassi posati uno sopra l'altro, che avrebbero fatto orripilare il senso edile di Joseph: sembravano così fragili e antichi - a Nessdoom, tutto era antico, dai libri agli edifici.

«Se hai troppa paura, possiamo tornare indietro quando vuoi», disse Ophelia, beffarda.

«Mi hai praticamente portato in un luna park».

«Meglio così, questo non è un posto per i deboli di cuore».

Ophelia aprì il cancello, e un cigolio metallico si librò nell'aria. Se ci fossimo trovati in un film di Hitchcock, il gracchio di uno stormo di corvi avrebbe accompagnato la nostra entrata nel cimitero.

Il terreno era trasandato, alcuni steli d'erba erano cresciuti fino a raggiungere l'altezza delle ginocchia; le lapidi erano disposte in maniera irregolare, senza un ordine preciso, e i loro epitaffi illeggibili, sbiadati col succedersi delle epoche; gli alberi erano già spogli, ridotti a scheletri vegetali.

«È molto... suggestivo», dissi.

«È il nostro cimitero, questo. Voi comuni mortali verrete seppelliti nel cimitero comunale».

«Intendi dire che è il cimitero della tua famiglia?»

«Sì, e delle altre famiglie fondatrici. Diciamo che gli abitanti originari di Nessdoom meritano un trattamento a favore. È una specie di zona vip», disse con fin troppo entusiasmo, come se stesse parlando di una folle serata trascorsa a trascinarsi da un negozio di liquori all'altro.

«Fico», dissi cercando di imitare il suo tono entusiasta, «comunque non credo mi tratterrò a Nessdoom così a lungo da esservi seppellito... o cremato».

«Vedremo».

Non credo.

Camminammo per un po'. I nostri piedi scomparivano in grovigli d'erba lasciati crescere senza ritegno e il vento soffiava una melodia sinistra.

«Quale frase sceglierai?» chiese Ophelia.

«Eh?»

«Sai, quella che si incide sulla propria lapide».

«Ah, l'epitaffio».

«L'epi... cosa?! Be', sì, quello».

«Mmh», rimuginai, «non ci avevo mai pensato prima d'ora. Mah, forse un verso di poesia di Edgar Allan Poe o uno di una canzone dei Nirvana».

«Mi sembra appropriato».

Le rivolsi la stessa domanda che mi aveva fatto.

«La speranza zampilla eterna»., recitò solennemente.

«John Milton? Hermann Hesse? Sofocle?»

«Ritenta e sarai più fortunato», sghignazzò.

«Bram Stoker?»

Scosse la testa.

«Horace Walpole?»

«Alto mare».

«Tolkien?

«Oceano Pacifico», rise.

«Okay, mi arrendo. Di chi si tratta?»

«Barbas, di Streghe».

«Ah».

Ophelia strabuzzò gli occhi e si finse inorridita. «Come sarebbe a dire, soltanto 'ah'? Non hai mai visto Streghe!?»

«No, non guardo spesso la televisione. Ho l'impressione che trasmetta unicamente spazzatura e notizie allarmistiche su un'ipotetica Terza Guerra Mondiale e virus capaci di decimare la popolazione mondiale, ma alla fine non succede mai nulla».

Il modo più efficace che prediligevo per scappare dalla realtà era leggere, parole e orrore sotto forma di inchiostro.

«Uffa», bofonchiò Ophelia. «Sepoltura o cremazione?»

«Cremazione», risposi deciso, «l'idea di lasciare marcire il mio corpo in una bara, in pasto ai vermi, mi spaventa ancora di più della morte».

«Che schifo, non ci avevo mai pensato!»

Man mano che la conversazione procedeva, la sinistra melodia che ululava il vento andava a scemare.

Ad un tratto Ophelia si fermò davanti ad una lapide. Era levigata in maniera più precisa rispetto alle altre, ed era ancora dritta, non pendeva da nessuna parte. Era recente, così recente che si potevano ancora leggere le incisioni: Oleander Blake, 12 aprile 1969 - 23 giugno 2020.

Prima che entrassimo in auto, Ophelia mi aveva suggerito di chiederle il cognome. Poi era arrivata Blythe, e la conversazione aveva preso una piega differente. Joseph però mi aveva confidato che suo padre si era tolto la vita lo scorso inverno, quindi bastava fare due più due per arrivare a un determinato risultato: ai nostri piedi giacevano le spoglie del padre di Ophelia Blake.

L'ululato del vento riprese a farsi sentire...

«Ciao, papà», sussurrò Ophelia.

Una lacrima le rigò una guancia, che raccolse prontamente con la punta di un dito. La ferita era ancora aperta, e probabilmente era una di quelle che non si richiudono mai. Si possono nascondere, celare, sotterrare, ma quando si sfiorano fanno sempre un male infernale.

Ero imbranato, impacciato nei rapporti sociali e l'introversione in persona, quindi non fu affatto facile cingerle un fianco e attirarla verso di me per stringerla in un abbraccio, che ricambiò. La conoscevo da sole ventiquattro ore, eppure in quel momento mi sembrava che fossimo legati da un filo indissolubile, trasparente come l'acqua e solido come il marmo.

Il suo capo mi arrivava all'altezza dell'incavo alla base del collo, ed era scosso da spasmi. Nel bel mezzo della mia goffaggine, le passai timidamente le dita tra i capelli, senza alcun scopo preciso, e le diedi un paio di deboli pacche sulla spalla. Non fecero nemmeno tap tap.

Jay Gatsby mi avrebbe denunciato per inettitudine nei confronti del genere femminile.

L'abbraccio si sciolse e il legame di cui avevo accennato sparì con la stessa velocità con cui si era formato; forse non era indissolubile come avevo creduto. Era solo una fantasia.

«Non l'avrebbe mai fatto così», disse Ophelia, «senza lasciare una lettera a me e a Diantha, senza darci una spiegazione. Non so, è successo tutto all'improvviso...»

Annuii e il mio cervello non era in grado di elaborare una frase che servisse a sollevarle il morale - nel caso fosse possibile. Optai per la più semplice delle opzioni: «Mi dispiace», dissi con un filo di voce.

Ophelia annuì di rimando e il sibilo del vento divenne la colonna sonora della nostra visita al cimitero di Nessdoom. Mi pentii di aver paragonato quest'ultimo ad un luna park ed iniziai ad avere paura. Ma non era la paura che si provava guardando un film dell'orrore al buio o camminando in un bosco di notte. Non era la paura delle tenebre e di chi e cosa si annida nei suoi meandri più profondi, bensì era quella di perdere qualcuno che si ama e di sopravvivergli, di non riuscire a dimenticare e allo stesso tempo di non essere capace di voltare pagina. La vita era più spaventosa della morte.

«Andiamo?» chiese Ophelia.

Subito. «Okay».

Camminammo a passo spedito e in silenzio. Entrambi volevamo andarcene via il più presto possibile e lasciarci alle spalle quel doloroso momento trascorso assieme.

Mi venne lo strano e caldo impulso di stringerla nuovamente a me per rincuorarla, dirle che non era sola e sussurrarle frasi smielate lette nei romanzi di John Green.

Una volta chiuso il cancello del cimitero - i corvi di Hitchcock spiegarono le ali e sparirono nell'oscurità - quell'impulso sfumò. Ero indeciso se esserne lieto.

È meglio bruciare che appassire, risuonò nella mia testa. Avevo scelto il mio epitaffio, e Kurt Cobain ne sarebbe stato orgoglioso.

Accompagnai Ophelia fino a casa sua. Grazie alle sue precise indicazioni non ci perdemmo e raggiungemmo casa sua in pochi minuti. Be', forse il fatto che abitasse a un paio di chilometri di distanza dal cimitero fu d'aiuto.

«Volevo portarti al cimitero per farti vedere la cripta degli antenati delle famiglie fondatrici», spiegò Ophelia durante il tragitto, «è davvero terrificante. Però non immaginavo che andando al cimitero... cioè, non ci vado da quando...»

«Lo capisco. Non è stato facile nemmeno per me, quando ho perso mia nonna», cercai di rincuorarla. «Mi mostrerai quella cripta quando sarai pronta».

I miei genitori erano morti quando io e Joseph eravamo molto piccoli, quindi dire che non ricordavamo un granché di loro era un eufemismo. Nonna Helene ci aveva presi in affidamento e ci aveva cresciuti lei, quindi era l'unica figura genitoriale che io e Joseph avessimo conosciuto. Averla persa era uno dei tanti motivi per cui mi rifugiavo nella lettura.

«L'hai detto», disse Ophelia. Sorrideva.

«Fermati, abito qui», esclamò.

Posteggiai accanto al marciapiede, dietro l'auto della polizia. Diantha stava aspettando sua sorella.

Casa Blake era una villetta a due piani in stile vittoriano, dipinta di giallo ocra e dalle persiane verde mela; una spaziosa veranda si ergeva sopra un prato dall'aria curata.

Ophelia aprì la portiera. «Grazie del passaggio e della discutibile compagnia», disse, sorridendo ancora. «Ci vediamo sabato?»

«Sabato?»

«Joseph non ti ha detto del falò?»

Ah, quel falò. Sacchi a pelo, insetti, nebbia e tutto il resto. «È possibile che me l'abbia accennato».

«Verrai anche tu?»

Rifiutare o eludere l'invito di Joseph era un conto, quello di Ophelia un altro. «Certo», mi sforzai di sorridere.

Mi ero appena rovinato il fine settimana con le mie stesse mani, chapeux.


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