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27: Mostri

 A/N: Davvero pensavate che vi avrei lasciati senza un nuovo capitolo proprio ad Halloween?
(come al solito Wattpad non ha trasposto il corsivo da Word. Prevedo una spedizione punitiva in quel di Vancouver, a breve).


  «Poppy Whitespoon, io ti invoco dall’Oltretomba!», gridò Violet. «Torna nelle tue spoglie mortali per servire la tua Congrega!».  

    L’odore di morte e crisantemi si disperse, ma l’aria si sovraccaricò di tensione. Nulla di sovrannaturale, soltanto la pura e semplice trepidazione di cinque individui che aspettavano che succedesse qualcosa – qualsiasi cosa.  

    L’attesa venne scandita da un piede di Cynthia che batteva ritmicamente il piede grata e dai singhiozzi di Clover; Florian si guardava attorno, in qualsiasi direzione tranne che in quella dell’altare; Violet era immobile quasi quanto la salma su cui erano riposte le sue mani.

    «Allora?», chiese Cynthia, a braccia conserte, quando Violet si allontanò di un passo dal corpo di Poppy Whitespoon.

    «Ha funzionato?», chiese Florian.

    «No», disse Violet. 

    «Cosa?», esclamò Cynthia.

    «Non ha funzionato», confermò Violet, «Poppy è vuota, non c’è nulla dentro di lei. Azzarderei che è quasi più morta di prima».

    «Cosa?».

    Violet fece spallucce, tirò fuori un pacchetto di fazzoletti dalla borsa e tamponò la ferita sulla mano, molto meno sanguinante di quella di Cynthia. «Prenditela con Fergus, non è mica colpa mia se la sua vita non è stata abbastanza per riportare indietro Poppy».

    «Mi stai dicendo che è morto per niente?», chiese Clover, la sua voce tremolante come le sue spalle. 

    «Sarebbe morto lo stesso, prima o poi. Non farne una tragedia».

    Cynthia strabuzzò gli occhi e prese fiato, forse per urlare in faccia a Violet, ma qualsiasi cosa stesse per dire le morì in gola quando dei tonfi pesanti risuonarono dalla tromba delle scale. 

    «Dai, vieni a fare Colazione da Tiffany», ridacchiò una voce acuta. 

    «Mmmh, non me lo faccio ripetere due volte, Tif», mugolò di rimando un’altra voce… Una che mi era famigliare.

    Gli sguardi del gruppetto puntarono prima verso le scale e poi verso Violet.

    «Sei tu la leader della Congrega, no?», sussurrò Cynthia. «Cosa facciamo, adesso?». 

    «Io… Io… Non lo so». 

    Era un peccato che la mente malvagia di Violet non avesse escogitato un piano anche per quest’evenienza, dato che sarebbe stato molto, molto complicato spiegare ai nostri inaspettati visitatori perché c’era una salma riesumata e del sangue più o meno dappertutto.

    Quei passi sgraziati si arrestarono e sulla soglia delle scale si palesarono una donna minuta dai capelli biondi legati dietro la nuca – presumibilmente Tiffany – che calzava un paio di tacchi vertiginosi, vestiva una gonna che scendeva fino a metà coscia e maglia rossa di cotone, e un uomo che aveva la stessa età e lo stesso gusto di Joseph in fatto di camice – e, come testimoniava la bottiglia quasi vuota che teneva in mano, anche la stessa insaziabile sete per bevande la cui gradazione non indicava la temperatura del liquido.

    «Che cosa…», biascicò Timothy, ma si interruppe quando notò il macabro scenario che si parava davanti ai suoi occhi. Lui e Tiffany rimasero impietriti con la bocca spalancata, quasi non capivano se si trattasse di uno scherzo o se avessero a che fare con quattro psicopatici… oppure cinque; lo sguardo di Timothy si era posato su di me. Avrei dovuto prevedere che, in quella posizione, la colonna di pietra mi nascondeva dalle streghe e dagli stregoni, ma non da Timothy e Tiffany. 

    «Che diavolo state facendo?», chiese Timothy, estraendo un telefono, ma lo rinfilò subito nella tasca. «Cazzo, non c’è campo… Tif, torna su e chiama la polizia!».

    «No!», urlò Violet, e il momento successivo qualcosa mi sfrecciò accanto veloce come un proiettile, smorzando l’aria lungo sua traiettoria, e attraversò la sala finché si udì un viscido schiocco, un suono che fino a quel momento pensavo fosse unicamente un effetto cinematografico dei film dell’orrore. 

    Timothy lasciò cadere la bottiglia, che esplose in una miriade di cocci, e rimase imbambolato sul posto, con un occhio che sporgeva innaturalmente fuori dall’orbita e il sangue che colava copioso sulla guancia, e l’altro che fissava il vuoto… o l’avvicinarsi della falce della morte. Quel qualcosa era una scheggia della lastra del loculo profanato che, ad occhio e croce, gli aveva perforato il cranio e forse anche il cervello. In ogni caso Timothy non sembrava stare molto bene, poiché si accasciò sulla grata come un peso morto. 

    Sì, un peso morto. Il tuo senso dell’umorismo sta diventando più raccapricciante di quello di Florian. 

    Tiffany si inginocchiò accanto a Timothy e prese a scuotergli le spalle come per svegliarlo. «Tim? Timothy?».

    Non avevo una laurea in neurologia, ma ero abbastanza certo che per svegliare una persona in quelle condizioni una scrollata alle spalle non era sufficiente, e, a meno che Tiffany non andasse in giro con una siringa di adrenalina della borsa o anche lei si dilettasse nell’arte della necromanzia, c’era ben poco da fare per Timothy. 

    Joseph non sarebbe stato contento della sorte che era toccata al suo amico. 

    Violet tese una mano verso Tiffany, come aveva fatto per aprire la porta della cripta con la telecinesi, e questa venne trascinata da un’inspiegabile forza invisibile. 

    La donna urlava come un animale braccato nella trappola di un cacciatore, mentre il suo corpo veniva attirato verso Violet come un magnete, e le sue ginocchia e i suoi gomiti sfregavano la rete metallica, lasciando dietro di essi sangue e suppliche. 

    Per un attimo Tiffany mi passò accanto, ma era troppo impegnata a dimenarsi in quella trappola telecinetica per accorgersi di me, e poi giunse ai piedi di Violet, con le giunture sanguinanti.

        «Violet, ferma!», gridò Florian. Ma era troppo tardi. Violet era già a cavalcioni sulla schiena di Tiffany.

    «Perché? PERCHÉ?!». 

    Probabilmente il motto di Violet era che il modo più efficace per evitare le domande del proprio interlocutore è ucciderlo, poiché afferrò Tiffany per la nuca e la sbatté contro la grata. Una volta, due volte. Tre. Alla quarta, Tiffany aveva smesso di lottare; non rimaneva molto del sua faccia, ridotta a una maschera sanguinolenta dai connotati squarciati dai fili metallici della grata.

    Quando Violet lasciò la presa, Tiffany girò il viso verso di me. Le sue labbra, sfigurate in un sofisticato cosplay di Jeff The Killer, si piegarono in una smorfia di dolore, e da esse uscì un sibilo, un’ultima supplica silenziosa. Una preghiera che non potevo esaudire. 

    Scusa.

    «Qualcuno mi passi il pugnale, Barbie non ne vuole sapere di crepare», disse Violet, e fece un cenno al pugnale riposto sull’altare. 

    Nonostante il suo ordine, nessuno accennava a muoversi, pietrificati come da un incantesimo. Ma la magia stavolta non c’entrava, semplicemente nessuno ambiva a divenire complice di omicidio.

    «Ho capito, mi toccherà fare tutto da sola, come al solito». Violet afferrò la testa di Tiffany per la coda di cavallo, macchiata da amorfe sfumature porpore, e la tirò all’indietro, i muscoli del collo tesi all’inverosimile. Ma invece che darle il colpo di grazia (o altri aspiranti tali) si soffermò sulla sua nuca. «Oh… che marca di tinta per capelli usi? Non c’è segno di ricrescita, è fenomenale». Passò le dita tra i pochi capelli rimasti immacolati dalla sua follia omicida, come se aspettasse veramente una risposta. «Okay, immagino che non me lo dirai, dopotutto non sembri nelle condizioni per parlare». 

    Il pugnale saettò dall’altare alla mano di Violet, disegnando un arco argenteo nell’aria; poi penetrò nella tempia di Tiffany, affondandovi fino all’elsa. Una macchia rossa divorò i pochi capelli biondi rimasti intatti dal sangue; dalla sua bocca uscì un rantolo soffocato.

    Violet ritrasse il pugnale e un fiotto di sangue sgorgò dalla ferita; mollò la presa dalla capigliatura e il viso mutilato si schiantò contro la grata. Per Tiffany era finita.

    Violet si alzò in piedi e sollevò il pugnale come se stesse pregando; l’aria attorno a esso si distorse, come nelle fotografie scattate sotto il sole cocente del deserto, la lama assunse una sfumatura arancione, fino a gradare verso una più scura, e la punta si assottigliò sollevando una cortina di scoppiettanti scintille, seguita dal resto della lama. Reclinò il pugnale in orizzontale, la lama prese a sciogliersi e lasciò colare il metallo fuso tra le fauci metalliche della grata, finendo chissà dove. 

    Quello era un modo talmente originale per disfarsi dell’arma del delitto che avrebbe fatto invidia anche al più minuzioso degli assassini. Il male era sempre stato furbo e scaltro, ma come lo si combatteva quando aveva una bacchetta magica nella manica?

    Una volta che il flusso incandescente cessò di scorrere e del pugnale non rimase nient’altro che l’elsa, si passò il dorso della mano sotto il naso e del sangue fresco si ripose sopra quello secco. «Forse mi sono sforzata troppo». Alzò lo sguardo dalla mano e chiese:

    «Beh, che avete da guardare?». 

    «Li hai uccisi», disse Cynthia. «Li hai uccisi!».

    «Din din din, risposta esatta! Grazie al suo acume la concorrente Duval ha vinto un milione di dollari!», esclamò Violet, riponendo l’elsa nella sua borsa. 

    «Smettila di cazzeggiare per un dannato istante! Ti rendi di cosa hai fatto? Hai ucciso due persone!».

    «Sì, ho ucciso due persone, e allora?». Violet si sistemò la borsa in spalla e imboccò una sigaretta. «Hanno visto troppo, non potevamo lasciarli andare. Piuttosto dovreste ringraziarmi, razza di ingrati che non siete altro, ho fatto ciò che nessuno di voi avrebbe avuto il coraggio di fare!».

    «Uccidere è un atto di codardia, non di coraggio».

    «Sì sì, certo», sbuffò Violet, scavalcò con una falcata il corpo di Tiffany e si incamminò verso l’uscita, attraversando la navata tra le due file di colonne; contemporaneamente aggirai la colonna dietro cui ero nascosto, posizionandomi verso il lato della parete, sperando di rimanere fuori dal loro campo visivo. Anch’io avevo visto troppo, e non mi ci voleva troppa fantasia per immaginare il trattamento che mi avrebbe riservato Violet se mi avesse sorpreso a curiosare. 

    «E adesso cosa stai facendo, Malefica?».

    «Me ne sto andando, ma se voi volete restare con i nostri amichetti usciti da CSI Nessdoom fate pure». 

    «Non dovremmo chiamare la polizia?», chiese Clover. 

    «Perché, avete voglia di passare il resto della vostra miserabile vita dietro le sbarre?».

    «Cosa? Noi non abbiamo fatto niente!», intervenne Cynthia. «Sei stata tu a ucciderli, non noi».

    Violet scoppiò a ridere. Aveva la stessa risata crudele e sprezzante degli antagonisti delle serie tv. «E pensate che ci crederanno? Una ragazzina che uccide da sola e a sangue freddo un uomo che pesa il doppio di lei e una donna adulta? No, ci siete dentro fino al collo anche voi, che vi piaccia o meno».

    «Quindi cosa facciamo? Li lasciamo qui e facciamo finta che non sia successo nulla?».

    «Esatto». 

    «Ma quando troveranno i corpi…».

    «Non li troveranno. Non troveranno nulla, ve lo posso garantire… a meno che qualcuno di voi non si lasci sfuggire qualcosa, e in questo caso posso assicurarvi che la prigione, in confronto a ciò che avranno in serbo gli Anziani per noi, sembrerà una benedizione». 

    «Diciamo che ho in mente un piano top secret».

    «Ovvero?».

    «Se ve lo dicessi non sarebbe più top secret, no?». Violet sospirò. «Fidatevi di me, ho tutto sotto controllo, ma meno ne sapete, meglio è».

    «Okay, poniamo caso che per miracolo non trovino mai i corpi… Cosa penseranno i colleghi di Timothy, quando non si farà più vivo? E la famiglia e gli amici di questa ragazza… che, a proposito, chi è? L’avete mai vista in giro?». 

    Sentii dei passi muoversi sulla grata. «La conosco, è Tiffany Hopper. Lavora part-time alla ferramenta Jones & Figlio», disse Florian. «Beh, lavorava, non credo che ci metterà ancora piede».

    «Rilassatevi, penseranno che sono stati uccisi dalle cose che si aggirano per i boschi, nessuno sospetterà di noi», disse Violet. «Ora muovetevi, dobbiamo andarcene».

    Mi sfiorò il dubbio che Violet sapesse tutto. Che sapesse che io ero lì a spiarli… e che avevo preso il vizio di manomettere scene del crimine per conto di terzi. Forse, ero io il suo piano top secret. Il sottoscritto… e una certa famiglia che possedeva i mezzi e le risorse per spostare indisturbata un cadavere da un capo degli Stati Uniti all’altro. 

    E soprattutto sapeva che non avrei permesso che Clover, Cynthia e Florian venissero incolpati di un crimine che non avevano commesso, oppure, ancora peggio, che venissero arsi vivi sul rogo dagli Anziani.

    O forse stavo diventando ancora più paranoico di quanto già lo fossi, e Violet in realtà non aveva idea di cosa avessi fatto e che avessi assistito al rituale di necromanzia in un posto in prima fila. 

    Ma se non ero io il suo piano top secret, allora di cosa si trattava?

    Sentii un tonfo sordo provenire dalla posizione dove Timothy aveva esalato il suo ultimo respiro, seguito da uno sputo. «Questo è per esserti preso gioco della Caccia alle Streghe di Salem. Ehi, Clover, ti sbrighi? Non abbiamo tutta la notte!», urlò Violet dall’altra parte della sala. 

    Clover?

    Mi schizzò il cuore in gola. Non avrei saputo dire tra i due chi si fosse spaventato di più alla vista dell’altro. I suoi occhi arrossati dal pianto erano spalancati all’inverosimile, abbastanza vicini da scorgere le sue pupille dilatate dalla paura, ed ero sicuro che la mia espressione era simile alla sua; le braccia rigide abbracciavano la scatola di cartone dove era riposto Fergus come pietrificate – l’adrenalina poteva fare questi scherzi: prima la paralisi, poi la fuga. 

    «Non dirò nulla», bisbigliai lentamente, scandendo le parole una a una per essere certo che mi comprendesse. 

    Mi fissò per un lungo istante, nel quale mi immaginai avvenire una conversazione telepatica tra noi due: 

    Se urli o fai qualsiasi altra cosa sospetta Violet tornerà indietro per controllare cosa sta succedendo. E poi mi ucciderà.

    Come faccio a fidarmi di te? Dopotutto mi stai chiedendo di affidarti la mia vita e quelle di Cynthia e Florian. 

    Non puoi considerarlo un tacito accordo? Tu fai finta di non avermi visto e io mi dimenticherò di ciò che è successo qua dentro, e tutti continuiamo la nostra vita felici e contenti. Serial killer permettendo, ovviamente. 

    O Violet permettendo.

    Già, Violet permettendo.

    «Arrivo!», esclamò Clover con voce tremante e mi oltrepassò senza guardarsi indietro. Rimasi immobile e col respiro mozzato finché non udii i suoi passi raggiungere il resto del gruppo e salire le scale che conducevano fuori da quell’antro infernale. 

    Forse Clover avrebbe finto di non avermi visto, ma io di certo non mai avrei dimenticato ciò di cui ero stato testimone, anzi c’era una cosa in particolare che aveva detto che mi avrebbe tormentato nei miei incubi e giorni a venire – come se il fantasma di Mark Terril non fosse già abbastanza.

    Quelli come loro. 

    Dovevo iniziare a fare i conti con la realtà e ammettere a me stesso che i Winter erano qualcosa che avevo sempre creduto appartenere a miti e leggende, romanzi e film dell’orrore. Ma era difficile, dannatamente difficile, ammetterlo, perché in tal caso avrei dovuto accettare che Blythe era l’esatto opposto dell’angelo che avevo idealizzato per tutto questo tempo. 

    E soprattutto avrei dovuto rimettere in discussione ogni sua singola azione, ogni sua singola parola pronunciata. Perché se Blythe era ciò che credevo – e temevo – che fosse, non ero più sicuro che non avesse ucciso Derek. 

    Le fiaccole si spensero, lasciandomi nel buio più totale con la mia paura più profonda come unica compagna. 

    Accesi la pila del telefono, e il suo fascio di luce illuminò quell’enorme tomba sotterranea. Cercai di non indirizzarlo verso i cadaveri – ultimamente ne avevo visti fin troppi – ma non era semplice quando ce n’erano ben tre sparpagliati nella stanza. C’era anche molto sangue, più o meno dappertutto: l’altare ne era striato da rivoli scivolati lungo la sua superficie marmorea durante lo scambio di Potere e mentre Violet sfogava la sua follia su Fergus, e dagli schizzi che aveva emesso il cranio di Tiffany. Mi sembrò anche di scorgere anche dei pezzettini di materia cerebrale sparpagliati sulla rete della grata, ma per una volta ritenni saggio non assecondare la mia insaziabile curiosità. 

    Tiffany era morta. Timothy era morto. Poppy era più morta di prima. Fergus era morto per niente. Tutto perché Violet aveva avuto la brillante idea la affidarsi a un incantesimo fallimentare per fare luce sulle linee vermiglie che venivano tracciate nei boschi di Nessdoom, ma gli unici risultati che aveva ottenuto erano morte e dolore – altrui, ovviamente. 

    La prima volta che avevo rivolto la parola a Blythe, le avevo detto che credevo esistessero due tipologie di mostri: quelli che avevano scelto di esserlo e quelli a cui non era stato concesso il privilegio della scelta. Beh, non avevo dubbi in quale categoria avrei collocato Violet Wollenstonecraft. 

    Blythe, d’altro canto…

    A un tratto qualcosa si mosse sotto i miei piedi, al di sotto della grata – qualsiasi cosa fosse, sollevò scrosci d’acqua e sassi che si schiantarono su un terreno roccioso, producendo uno schiocco secco. Rabbrividii, e improvvisamente i tre cadaveri divennero l’ultima delle mie preoccupazioni. 

    Puntai il telefono verso il cratere oscuro, ma le uniche cose visibili erano il flebile scintillio dell’acqua che danzava al bagliore della pila e le basi delle colonne che si perdevano in quelle tenebre sconfinate. 

    Rimasi in ascolto fino a riuscire a contare i battiti frenetici del mio cuore, che pulsava sordo terrore nelle vene e piano piano mi corrodeva la mente annebbiandola di cieca irrazionalità. Un certo scrittore una volta disse che i mostri esistevano solamente quando la luce era spenta e la bottiglietta di plastica sul comodino scoppiettava nel cuore della notte. 

    L’eco di un sussurro ancestrale si innalzò dalle profondità di quel baratro e rimbalzò contro le pareti della cripta, permeando l’aria di calore lascivo che spense la gelida paura e sciolse il terrore che pensavo si fossero annidate per sempre nelle mie membra. 

    Nel mio petto si accese una sensazione famigliare, quella che mi permetteva di tirare avanti giorno dopo giorno in quella cittadina nebbiosa dimenticata da Dio e dallo stesso stato del Maine: un incendio che mi consumava da dentro, dalle lingue di fuoco che avvampavano nel mio petto e facevano ribollire il sangue nelle mie vene. E tutto andava bene, il fatto che mi trovassi in una cripta con tre cadaveri sparpagliati nella stanza e altre centinaia nei loculi divenne uno sciocco e irrilevante dettaglio. L’unica cosa che mi importava è che lei era lì, sotto di me, ma a un mondo di oscurità di distanza. 

    Quello non era il sussurro di un mostro, ma il dolce canto di una sirena che mi richiamava a sé, e quel baratro tenebroso era il suo scoglio bagnato dalla spuma marina. 

    Mi misi a gattoni sulla grata e puntai la torcia elettrica in una delle fessure ferrose affinché più luce possibile rischiarasse il baratro. Volevo vederla, e immergermi nella fonte di quel sussurro che aveva acceso in me ciò che più bramavo: l’amore e i suoi tentacoli vischiosi, che quando stritolavano il cuore della sua preda le rendevano la vita degna di essere vissuta, di comprendere appieno le poesie di Pablo Neruda e apprezzare le commedie romantiche di Woody Allen. 

    Avidamente, scandagliai un’altra volta con la luce del telefonino quel mondo oscuro, ma trovai ancora soltanto rocce umide, pozzanghere disseminate su quasi tutta la superficie del suolo; un altro scroscio d’acqua, uno di quei movimenti che non riuscivo a individuare, mi fece reclinare spontaneamente il telefono nella sua direzione, in diagonale. E allora lo vidi.

    Il fascio di luce investì delle dita scheletriche che fuoriuscivano dalle fessure della grata, che serrate attorno ai fili metallici sorreggevano un corpo pallido sospeso sulla superficie di quell’oceano di tenebre, al di sotto dei miei piedi. Quasi spaventato dalla luce, mollò la presa dalla grata e precipitò nell’oscurità, scomparendo alla mia vista.

    Un battito di ali si librò in quell’abisso nero, e, a giudicare dalla quantità di aria spostata, l’apertura alare doveva essere molto ampia. Improvvisamente un ricordo della mia infanzia riemerse dalla polvere sotto cui era stato seppellito e rimasto intoccato per tutti questi anni. Stavo sfogliando svogliatamente una sorta di enciclopedia degli animali regalatami da mia nonna in occasione di un mio compleanno, troppo giovane per riuscire a leggere le didascalie, troppo maturo per entusiasmarmi con una fotografia di un ippopotamo che sbadigliava sommerso nel fango e ritenuto troppo piccolo per ricevere in dono una biografia di Richard Ramirez. Le pagine scorrevano rapide tra un sospiro e l’altro, finché un’immagine degna della mia attenzione fermò quella che credevo fosse una corsa inesorabile fino alla terza di copertina. Ritraeva un albatro urlatore che planava sul mare sfrigolante di colori caldi, dalle piume candide baciate dal sole sanguigno che tramontava all’orizzonte e le ali che si estendevano da un bordo della pagina all’altro. 

    Ecco, ora come ora non mi trovavo nelle vicinanze del Pacifico, bensì in una cripta sotterranea, quindi era assai improbabile che l’origine di quello spostamento d’aria fosse il battito di ali di uccello marino, però quell’animale dall’apertura alare così ampia sembrava essere l’unico possibile artefice di una tale ventata. 

    Ancora prima che tornassi alla ricerca di quella creatura aliena, ricomparve proprio sotto di me, nella stessa posizione di prima: anche lei era a gattoni, ma all’ingiù, dall’altra parte della grata, nell’oscurità. 

    Il suo corpo… o quel che ne rimaneva… era poco più di uno scheletro rivestito da un sottile strato di pelle quasi trasparente, che al chiarore della pila lasciava intravedere le interiora e gli organi che galleggiavano all’interno delle sue membra, come quello di un animale che viveva nelle profondità marine e non aveva mai conosciuto la luce, nato e morto in un limbo incolore. Quella specie di carta velina ricopriva anche il cranio completamente glabro e tirava sugli zigomi, quasi fosse sul punto di strapparsi; le pupille erano dilatate come se stessero cercando di inglobare le iridi e le sclere biancastre, divorare la poca e insipida luce sporca che animava i suoi occhi. 

    Già, i suoi occhi…

    L’incendio che avvampava dentro di me si spense senza lasciare carbone ardente come rimasuglio del calore che mi aveva pervaso; il canto della sirena si tramutò in una macabra sonata di violino dalle stridenti note sinistre; Pablo Neruda e Woody Allen non avevano mai esplorato il piatto più pesante della bilancia, quello contenente ciò che il realismo e Hollywood non volevano vedere né sentire: l’amore era cieco e uccideva.

    E quel certo scrittore si sbagliava di grosso. La luce era accesa, ma i mostri esistevano lo stesso. Si nascondevano nella nebbia di Nessdoom e, a quanto pareva, anche nei meandri della cripta delle Famiglie Fondatrici. 

    L’adrenalina fece il suo lavoro, mi inondò i muscoli e il palato col suo sapore salato, quello della sopravvivenza: o fuggi o muori. 

    Scelsi la prima opzione e presi a correre come se avessi il Diavolo alla calcagna, e forse di questo che si trattava: del Diavolo.

    Il Diavolo… i cui occhi erano di un colore famigliare, unico: una pennellata di viola acquarello su una tela bianca.

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