22: Belli e Dannati
“Perchè il desiderio inganna. E’ come un raggio di sole che guizza qua e là in una stanza. Si ferma e illumina un oggetto insignificante, e noi poveri sciocchi cerchiamo di afferrarlo: ma quando lo afferriamo il sole si sposta su qualcos’altro e la parte insignificante resta, ma lo splendore che l’ha resa desiderabile è scomparso.”
F. S. Fitzgerald
A/N: ho deciso di dividere (anche) questo capitolo in due parti, vista la sua eccessiva lunghezza e per non farvi aspettare troppo, quindi ci rivediamo tra qualche giorno per la seconda parte. Buona lettura!
Soltanto l’odore di muffa della biblioteca e della carta ingiallita riuscirono a riscuotermi dalla vergogna di aver mentito a Joseph e Diantha.
E una volta tornato a casa avrei dovuto inventarmi una bella storiella da rifilargli per tenere in piedi il mio alibi.
Mi ero fiondato all’interno della biblioteca alla ricerca di Blythe, ma avevo trovato soltanto Violet, seduta al lungo tavolo della sala lettura e intenta a schiacciare i tasti del telefono – in biblioteca si dovrebbe spegnere gli apparecchi elettronici! – e a sgranocchiare una striscia di liquirizia – in biblioteca non si può mangiare! –, il pacchetto spudoratamente aperto sul tavolo.
Ma chi era Aiden Langdon, ladro di libri e oltraggiatore di cadaveri, per fare la predica su cosa si poteva e non poteva fare?
Violet sollevò lo sguardo dal telefono, come se avesse avvertito l’avvicinarsi della mia aura di patetismo che mi rendeva degno delle sue occhiate sprezzanti – le stesse che si riservavano ad un verme prima di spiaccicarlo sotto la suola di una scarpa.
Per consolarmi, mi ricordai che se Violet era in biblioteca significava che ci sarebbe stata anche Blythe.
Mi infilai tra una delle file degli scaffali che sfioravano il soffitto, straripanti di libri e storie impolverate. Forse non era il momento adatto per evadere dalla realtà leggendo, ma nulla mi proibiva di circondarmi dagli strumenti per farlo.
Attraversai quel corridoio di libri rimasti immobili per decadi, guardai prima a sinistra, poi a destra e la trovai.
Blythe passeggiava lungo lo scaffale della sezione narrativa, passando distrattamente un dito sui libri riposti sullo scaffale come se stesse saggiando l’essenza di ognuno di essi.
Mi avvicinai a lei, titubante di interrompere quel rituale che aveva un nonsoché di mistico; la mia camminata non aveva nulla in comune alla sua. Se i suoi passi erano simili a un cigno che danzava nelle acque di un lago fatato, i miei erano i tonfi di un elefante che aveva passato la sua intera vita in cattività, dimenticando ogni movimento forgiato dalla scioltezza della natura.
«Ciao», sussurrò senza distogliere lo sguardo dai libri che stava passando in rassegna, quasi fosse ipnotizzata dalle loro copertine datate.
Esitai, sentendomi di troppo. «Ti disturbo?».
Girò la testa verso di me. «Mai», disse, la voce pregna d’intensità. Ma, a differenza della sua voce, il viola dei suoi occhi era nuovamente sbiadito, opaco, senza alcuna luce che brillava all’interno di essi Erano gli occhi di una bambola priva di vita, cerchiati da ombre bluastre.
«Posso chiederti una cosa?».
«Oddio, un’altra domanda? Ma che amena novità!».
Replicai al suo sarcasmo sorridendo. «Questa è solo un’innocente curiosità: porti le lenti a contatto?». Mi preparai ad arrossire. «N-non fraintendermi, i tuoi occhi sono s-s-sempre b-bellissimi, ma talvolta sembrano… spenti».
Si portò il dito che aveva sfiorato tutti quei volumi a pochi centimetri dalle labbra rosee e soffiò sul polpastrello, ricoperto da un velo di polvere – grigio sporco su un candore incontaminato. Il suo soffio disperse la polvere nell’aria e una miriade di particelle trasparenti prese a gravitare intorno a noi.
«Ti ringrazio», fece un sorriso che si trasformò presto in una smorfia, «ma no, non porto lenti a contatto. Sono solo molto, molto stanca… e spenta».
Battei le palpebre, confuso. Avevo la sensazione che anche stavolta mi avesse rifilato una mezza verità, che ci fosse dell’altro che non voleva dirmi. Ma perché mai avrebbe dovuto evitare di rispondere con sincerità ad una domanda così semplice?
Mi guardai attorno per accertarmi che non c’era nessuno nei paraggi che potesse udirci. «Tu e Bartholomew avete fatto quella cosa?», bisbigliai. In biblioteca era vietato parlare ad alta voce, e a maggior ragione era saggio attenersi a quella regola quando si parlava di crimini punibili con una detenzione decennale.
Non hai sentito cos’hanno detto al notiziario negli ultimi giorni?».
Rabbrividii. «No», esclamai. La sorpresa mi fece parlare con un tono più alto di quanto desiderassi.
«Certo che no, visto che come avevo previsto i notiziari locali non hanno dedicato nemmeno un secondo al tragico incidente che ha causato la morte di Derek Mogahan», sospirò. «La sua jeep è precipitata in un burrone del National Park, Florida, a causa di un malfunzionamento dei freni, esplodendo sul colpo. Una vera disgrazia. Soltanto il portafoglio contenente la sua carta d’identità ha permesso il riconoscimento del cadavere, quasi completamente carbonizzato».
Rimasi sbalordito dall’efficienza di Blythe e Bartholomew nell’aver messo in atto un piano così ben ordito per tirarci fuori dai guai. Se non fosse stato per loro, ora sarei ammanettato in qualche ufficio con una lampada puntata in faccia e a rispondere a delle domande la cui posta in palio delle risposte era la mia libertà.
Certo, se avessi chiamato la polizia appena avevo trovato il corpo di Derek non sarebbe stato necessario inscenare quel dannato incidente stradale, ma ormai era tardi per i ripensamenti.
E Blythe sarebbe stata accusata di un crimine che non aveva commesso.
«Per la cronaca, lo hai davvero ridotto male: il suo viso era tutto incrostato di vomito, soltanto le fiamme sono riuscite a dargli una ripulita», sghignazzò.
«Ma come avete fatto? Spostare la sua jeep e il suo corpo dall’altra parte degli Stati Uniti… è impossibile».
«I dettagli dell’operazione sono un segreto che mi porterò nella tomba. Ti basta sapere che la mia famiglia è estremamente ricca, e, sai com’è, dalla ricchezza deriva potere, nel nostro caso tanto potere». Fece spallucce. «In altre parole facciamo quello che ci pare e piace, e la facciamo franca, sempre».
Strabuzzai gli occhi. «Ma le tue genitrici cosa…».
«Narcissa e Lorraine hanno compreso la situazione e datomi la loro benedizione», tagliò corto.
Scossi la testa e decisi che quelli non erano affari miei. «Grazie», bisbigliai, «senza di te ora starei marcendo in galera».
«Quando vuoi», sorrise esibendo le sue fossette. «Ma cambiamo argomento, ti prego. Oh, sì, esponimi i tuoi pensieri riguardo Belli e Dannati, e non osare dirmi che non l’hai ancora iniziato, mi logorerebbe l’anima».
«L’ho iniziato», confermai, «ma non l’ho ancora finito». Feci un sorriso colpevole. «È orrendo che Anthony e Gloria si rovinino la vita per colpa del denaro e non si accorgano di ciò che hanno di fronte: benestare, agiatezza… e amore», deglutii. «È come se… come se cercassero tutti i modi possibili per trovare l’infelicità e sprofondarvi dentro fino al collo».
«Pensai lo stesso la prima volta che lo lessi. Era stato poco dopo che avevo perso i miei genitori e molto prima che Narcissa e Lorraine mi presero con loro. Vivevo in un orfanotrofio, con mio fratello Blaze come unica ancora di salvezza in un mondo crudele e spietato», la voce di Blythe tremò. «La mia esistenza era miserabile, e non riuscivo a capacitarmi di come potessero esserle anche quelle di Anthony e Gloria, che avevano tutto ciò che a me mancava. Come potevano essere così ingrati? Ero così… così adirata», esclamò.
«Poi, quando ero certa di aver toccato il fondo e di non riuscire più a rialzarmi, Lorraine e Narcissa mi donarono il loro amore incondizionato, ogni loro singolo respiro e una ricchezza che la famiglia Patch può solo agognare.
Avevo perso una famiglia, ma ne avevo trovata un’altra disposta ad amarmi. Eppure l’infelicità non voleva darmi sollievo, anzi, mi aggrappavo disperatamente ad essa.
Come potevo essere così ingrata – proprio io, che disprezzavo con tutta me stessa Anthony e Gloria?»
La sua voce si colmò di amarezza – tristezza rancida andata a male, rappresa in fondo all’anima per troppo tempo. «Forse… forse ero io a non ambire sollievo, a ripudiare la felicità. Per alcuni di noi la felicità è il più terrificante dei mostri. Ti rende fragile come un castello di carte, e la consapevolezza che è sufficiente la più leggera delle brezze per farti crollare in un milione di pezzi ti spinge a nasconderti nelle tenebre, e a rimanerci, dove nulla può scalfirti – perché non si può uccidere chi ha smesso di vivere, chi respira e basta».
Sospirai il suo nome, che si disperse in quelle stanza straripante di parole che non sarebbero mai state lette.
«Forse non sono tanto diversa dai protagonisti di Belli e Dannati… forse la felicità non la si raggiunge grazie a ciò che si ha, ma a ciò che si è», concluse.
«La raggiungerai anche tu», dissi deciso, «forse non oggi, non domani, ma un giorno sì. Com’era quella frase? Alla fine del tunnel c’è sempre la luce?», cercai di confortarla.
«Quest’aforisma abusato dall’industria cinematografica non si può applicare quando il tunnel è infinito, ma grazie comunque. È la cosa più carina che mi è stata detta da quando ci siamo trasferiti qui».
Mi morsi il labbro. Volevo salvarla a tutti i costi da quell’abisso in cui sembrava sprofondare, ma non sapevo come fare. Albus Silente diceva che le parole erano la massima fonte di magia, in grado sia alleviare il dolore che di procurarlo, ma da quel che avevo sperimentato in diciannove di vita le parole non guarivano un bel nulla, si limitavano a ferire senza guardare in faccia a nessuno.
«Perché sei qui?», chiese Blythe, estraniandomi dal mio tormento interiore. «Non hai ancora finito di leggere Belli e Dannati, e dubito ti convenga restituirlo, visto che non è stato passato dal banco dei prestiti. Restituirlo sarebbe un’ammissione di colpevolezza, partner in crime».
«Aspetta, non l’hai fatto passare dal banco dei prestiti?».
Mi guardò perplessa. «No, perché avrei dovuto?».
«Be’, perché…». Perché ero convinto che Blythe avesse recuperato il libro sull’anta della finestra della biblioteca la mattina seguente, una volta che la biblioteca sarebbe riaperta. A meno che…
A meno che non avesse recuperato il libro la stessa notte in cui l’avevo dimenticato su quell’anta – per questo non l’aveva fatto registrare nel database della biblioteca.
Il che era impossibile, visto che la finestra era ad un’altezza di tre metri dal suolo, come avevo avuto occasione di comprovare.
Lei guardò me e io guardai lei. Il suo viso si cristallizzò in quella maschera marmorea che non lasciava trapelare nessuna emozione. La maschera che portava quando cercava di nascondere qualcosa – ma cosa?
Aveva abbassato la guardia per un solo istante e si era tradita con le sue stesse parole. Sapeva che io sapevo che le era sfuggito qualcosa.
«Dove hai ritrovato il libro? E come hai fatto a sapere che l’ho dimenticato?», chiesi. Sentii la mia voce ovattata, lontana, quasi fossi rimasto intrappolato in un sogno. O in incubo.
Blythe sorrise, ma soltanto con la bocca – i suoi occhi continuavano ad essere spenti, morti. «L’hai lasciato sull’anta della finestra, non rammenti?», disse, suadente.
«Infatti, ma come…».
«Dopo che ti ho egoisticamente convinto a saltare dalla finestra, ho notato un angolino del libro giacere sull’anta, ma non potevo mica permettermi di farti notare che hai rischiato la vita inutilmente». Blythe alzò gli occhi al cielo. «Allora la mattina seguente sono tornata in biblioteca per recuperarlo; tuttavia sembra che la mia memoria sia pessima quanto la tua, poiché ho dimenticato la tessera della biblioteca a casa». Il suo tono accondiscendente mi riportò nella realtà, facendomi vergognare delle elucubrazioni che stavano per prendere vita nella mia testa. «Non mi è rimasto altro da fare se non impersonare Bonnie un’altra volta, infilare il libro in una tasca della giacca, uscire di soppiatto e commettere l’ennesimo crimine…».
«Stai mentendo, di nuovo», mi uscì dalla bocca prima che riuscissi a trattenermi.
Blythe incrociò le braccia sul petto, senza smettere di sorridere. «E come sei giunto a quest’azzardata conclusione?»
«Perché fai sempre così quando non mi vuoi raccontare la verità. Ti pietrifichi come una statua, e poi sorridi come se nulla fosse. Senza offesa, ma ti consiglio di trovare un modo più efficace per raccontare bugie, perché con me non funziona più», dissi, irritato. Fino a quel momento non mi ero accorto quanto mi tediasse quella mania di raccontarmi bugie in continuazione che aveva Blythe.
Il suo sorriso vacillò e un’ombra di incertezza rabbuiò i suoi occhi. «E anche se avessi ragione? Non potresti costringermi a dirti la verità», disse in tono di sfida.
«In biblioteca, quella notte, hai detto che non mi avresti mai mentito», l’accusai. Il mio sguardo si spostò automaticamente verso il punto dove mi aveva fatto quella che credevo fosse una promessa, dove pensavo che ci saremmo baciati.
Distolsi lo sguardo, succube di quel dolce e doloroso ricordo.
«Ho cambiato idea e deciso che i buoni propositi non fanno per me», replicò, cristallina. Quelle parole, taglienti come lame, distrussero una piccola parte di me, la fiducia che provavo nei suoi confronti – talmente cieca da averle affidato senza esitazione il corpo di Derek, e con esso la mia barcollante libertà; da credere nella sua innocenza quando sarebbe stato immensamente più facile il contrario.
Se J.K. Rowling avesse conosciuto Blythe Winter, in Albus Silente ci sarebbe stata molta meno luce e una goccia in più d’oscurità.
«Non hai ancora risposto al mio quesito», mi ricordò. Senza rendersene conto, stavo imparando da Blythe l’arte di cambiare discorso per sviare le domande.
«Per dirti che infrangerò la promessa che ti ho fatto, visto che siamo in tema».
Il suo viso si stravolse, la maschera glaciale che aveva indossato finora si sciolse. «No», condensò la sua rabbia in un paio di lettere. Forse non ero l’unico a non essere fan delle promesse infrante.
«Mio fratello e Diantha organizzano una battuta di caccia per trovare il serial killer, il mostro, o qualunque cosa sta massacrando tutte queste persone», spiegai, e mi sorpresi ad usare lo stesso tono con cui avrei raccontato di un pomeriggio trascorso al cinema o facendo qualsiasi altra normale attività. Be’, visti i recenti avvenimenti, forse avevo sviluppato un nuovo concetto di normalità.
«Non andarci, ti prego».
«Perché no? Non vuoi sapere cosa si nasconde nei boschi?».
«E tu, invece? Vuoi morire, è questo che vuoi?».
La sua supplica mi destabilizzò. Nonostante i misteri da cui mi teneva all’oscuro era così difficile comportarmi male, giocare al suo stesso gioco. Avrei preferito di gran lunga la versione arrabbiata di Blythe a quella preoccupata – non avrebbe suscitato in me sensi di colpa.
Poi, mi ricordai del mio piano. Mentirle non sarebbe stato necessario, sarebbe bastata una… com’è che si chiamava, già? Ah, sì, una mezza verità.
Sospirai e alzai le mani in segno di resa. «Va bene, hai vinto, non andrò nei boschi con loro», dissi rivolgendole lo stesso sorriso che avevo riservato a Joseph e Diantha, dalla cima delle scale. «Mi limiterò ad accompagnarli fino al punto d’incontro con gli altri».
Blythe mi scrutò per un minuto, ma era uno sguardo diverso dal solito. Stavolta non mi stava guardando nell’anima, ma soltanto negli occhi.
«Sei sincero», disse infine, non sforzandosi nemmeno di nasconde il suo tono stupito.
«Già». Aveva ragione, non stavo mentendo.
«Ma c’è qualcosa che mi stai nascondendo».
«Già», confermai. Adesso ero io a non smettere di sorridere. Era così facile rifilare mezze verità, risparmiarsi le spiacevoli conseguenze nel dire tutta la verità e la vergogna nel mentire apertamente.
«Gli amori che sbocciano in biblioteca, più tormentati dell’Odissea e più sanguinosi dell’Iliade…», canticchiò una famigliare voce stridula al di là degli scaffali. «Potreste gentilmente abbassare i toni? Non sono sopravvissuta alla morte per sorbirmi i drammi adolescenziali di un paio di ragazzini in piena fase ormonale», disse Emma Summer.
Nonostante il suo commento mi fece desiderare di sotterrarmi seduta stante, non potevo darle torto. Le ultime battute della conversazione tra me e Blythe avevano assunto una tonalità non consona al clima tranquillo della biblioteca.
Rimanemmo in silenzio per un po’, scandito dal suono di pagine friabili che venivano voltate con regolarità, e diedi le spalle a Blythe per nasconderle le guance che si erano tinte di rosso. Estrassi da uno degli scaffali il primo libro che mi capitò a tiro e lo sfogliai distrattamente.
«Di cosa stava parlando?», bisbigliò Blythe.
«A cosa ti riferisci?», sussurrai di rimando, analizzando la copertina de Il Monaco di Matthew Gregory Lewis che mi ero ritrovato tra le mani.
«Be’, dubito che il triste mietitore non l’abbia presa con sé perché la sua sgarbataggine rischierebbe di rovinare l’eterna festa che si celebra negli inferi».
Mi concentrai per rievocare ciò che mi aveva detto Ophelia sul suo conto, ma non era con gli occhi di Blythe puntati addosso. «Ophelia la conosce bene, è stata la sua baby-sitter quando era piccola. Mi ha raccontato che Emma ha avuto un grave incidente mentre praticava alpinismo, e i medici erano sicuri che non ce l’avrebbe fatta. Morte cerebrale. Tuttavia, lo stesso giorno in cui nacque Ophelia, Emma si risvegliò dal coma come se non le fosse mai successo nulla», spiegai.
«Un vero e proprio miracolo», disse con una punta di sarcasmo.
«Sai qualcosa che non so?» Inarcai le sopracciglia. «Certo, ovvio che sai qualcosa che io non so», mi corressi, «ma anche riguardo questa storia?».
«Tanto per una volta ne so quanto te», ammise.
Sbuffai. «Tanto per una volta», le feci l’eco.
Blythe si morse il labbro inferiore, come se si trattenesse dal dirmi qualcosa, e poi anche lei estrasse alla rifusa un libro dallo scaffale. «L’ultima caccia di Joe R. Lansdale. Mi auguro che il titolo non si riveli una previsione del successo della caccia di tuo fratello – alla quale tu non parteciperai».
«Esattamente».
La sua voce si addolcì. «Quindi, visto che non hai nulla da nascondere, non sarà certo un problema dirmi dov’è il punto di ritrovo».
Alzai gli occhi al cielo. «Perché, hai intenzione di accertarti personalmente che faccia il bravo?» .
«Mi crederesti se ti promettessi che non intendo assicurarmene di persona?»
«Forse sì», sospirai. Non potevo fare a meno di riporre in lei la mia fiducia, un’altra volta. Se eravamo partners in crimes dovevamo poterci fidare l’uno dell’altra. «Partiranno domani all’alba dalla proprietà dei Burroughs. È il posto dove… dove è stata ritrovata l’ultima vittima».
Annuì, chiuse gli occhi e fece un lungo respiro, proprio come aveva fatto quando aveva saputo della morte di Derek.
«Blythe?».
Riaprì gli occhi, ma qualcosa nel suo sguardo era assente, quasi non mi vedesse per davvero. «Si è fatto tardi e ho degli irrevocabili impegni famigliari che richiedono la mia presenza».
«Oh, okay».
«Ciao», disse con voce sognante, come se si trovasse altrove con la testa.
«Ciao».
In pochi istanti Blythe fu dalla parte opposta del corridoio di libri, i suoi passi echeggiarono leggeri nella biblioteca finché raggiunse l’uscita, e tutto ciò che mi rimase era una sensazione di vuoto per aver interrotto la conversazione così bruscamente e un libro gotico che avevo già letto.
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