20: Ricatto o Compromesso
«L'amore è il più antico degli assassini. L'amore non è cieco. L'amore è un cannibale con una vista estremamente acuta. L'amore è un insetto che ha sempre fame.»
«Che cosa mangia?» domandai senza pensare.
«L'amicizia».
Stephen King
A/N: Lo so, questo capitolo si è fatto aspettare un bel po'. In compenso, è un po' più lungo di quelli scorsi (conta 5k e passa parole, quindi leggerlo non sarà una passeggiata). Ed è anche abbastanza... enigmatico, quindi non sorprendetevi se non capirete nulla di ciò che dice Blythe, lol.
Se può consolarvi, da questo capitolo in poi la strada sarà tutta in discesa, molte domande troveranno una risposta.
Buona lettura - e ricordatevi di lasciare una stellina! u.u
Mark Terril al momento era in un altro Stato e sepolto tre metri sottoterra, ma continuava a vivere nei miei incubi. Il minimo che potesse fare per redimersi era lasciare che usassi il suo nome per proteggere me e Blythe: i morti non conducevano da nessuna parte.
Mi venne in mente un’idea, che rispecchiava appieno il casino in cui eravamo invischiati: folle e disperata.
«Potremmo andarcene via da qui, almeno finché le acque non si calmano». Rivolsi lo sguardo verso quello che presumevo fosse il nord, ma in quella bolla di nebbia era impossibile stabilire i punti cardinali. «Non siamo tanto distanti dal confine. In Canada non ci troveranno mai».
Blythe sfoderò quel sorriso traboccante di malizia contornato da un paio di fossette. «Mi stai proponendo di fuggire?»
«Fuggire, andarsene, come preferisci tu», dissi a denti stretti.
Scappare era più appropriato.
Proprio come ero scappato dal fantasma di Mark, ma nonostante avessi percorso migliaia di chilometri mi aveva ritrovato, e continuava a giocare con la mia vita come un ragazzino che apre in due un insetto e lo disseziona con un bastoncino per soddisfare la sua curiosità e il suo bisogno ludico. Scappare dalla polizia sarebbe stata una passeggiata, in confronto. Non doveva finire per forza come per Bonnie e Clyde.
«Per quanto l’offerta di una fuga in vecchio stile sia tentatrice, mi vedo costretta a declinarla», sospirò e mi guardò fisso nei miei occhi. «Non voglio più fuggire. Ho imparato che i problemi ti seguono ovunque tu vada, e che l’unico modo per risolverli è affrontarli», il suo sguardo si spostò alla mia sinistra, «e sembra che Bartholomew non abbia ancora imparato il significato di “privacy”», aggiunse, e il suo tono divenne tagliente.
Mi voltai nella direzione in cui aveva rivoltò lo sguardo, e il mio cuore saltò un battito.
A una ventina di metri da noi una figura si stagliava sullo sfondo di nebbia, troppo densa per permettermi di distinguerne i dettagli. Ma la sua imponenza non riusciva a passare inosservata: Ophelia non aveva esagerato affatto quando aveva paragonato Bartholomew ad un gigante.
Fece un passo verso di noi, coprendo una distanza spaventosamente lunga, e un ramò secco si frantumò sotto il suo peso. Allora riuscii a scorgere una treccia di capelli dorati che oscillava dietro la sua schiena, mossa dal vento. Non sembrava curarsene, con le braccia conserte sul petto, rivestito da un trench di lucida pelle nera che gli scendeva fino a metà delle cosce.
Il gemello cattivo di Thor, mi risuonò in testa la voce inquieta di Ophelia.
«Ti invito a tornare a dipingere soldatini, a guardare documentari su armi di distruzione di massa – a fare qualsiasi cosa tu stessi facendo prima di disturbarci con la tua invasiva presenza», sibilò Blythe, prima di oltrepassarmi e pararsi di fronte a me, dandomi le spalle. Il vento scostava anche i suoi capelli, rivelando i muscoli contratti del collo; le dita erano inarcate, come se fosse pronta a sfoderare degli artigli.
Bartholomew avanzò di un altro passo e un tonfo sordo vibrò nel terreno. Era abbastanza vicino da lasciarmi mettere a fuoco il suo viso; uno degli zigomi era striato da una sottile cicatrice di una colorazione leggermente più chiara del pallore nordico della sua pelle; la mascella squadrata conferiva una supplementare sfumatura di durezza ai lineamenti; il naso spigoloso era leggermente ricurvò verso sinistra e gli occhi nascosti dietro un paio di lenti scure.
Nonostante Bartholomew e Blythe non si assomigliassero per nulla possedevano un tratto comune: un fascino magnetico che ti stregava l’anima, e non potevi fare a meno di contemplarli ammagliato finché la loro bellezza struggente ti feriva gli occhi, come se fissassi il sole per troppo tempo.
«Cosa. Diavolo. Stai. Facendo», tuonò Bartholomew, scandendo le parole una ad una, la voce profonda quanto i tonfi che producevano i suoi passi.
«Sto solo socializzando, non si vede?», chiese Blythe, in tono innocente e rilassato, a dispetto del suo corpo rigido che sembrava scagliarsi addosso a Bartholomew da un momento all’altro.
«Non farlo qui!», urlò Bartholomew, indicando il terreno con l’indice. Era difficile non notare le sue mani, enormi come tutto il resto del corpo. Ed era impossibile non notare la pelle coriacea che rivestiva ogni centimetro di una di esse; si estendeva fino al polso, come se l’avesse immersa per ore in una friggitrice piena di olio bollente.
Bartholomew aprì nuovamente la bocca, forse per concedere un po’ d’ossigeno al suo cervello che probabilmente stava venendo fuso da quella furia cieca che lo aveva posseduto o per dire qualcos’altro, ma quando il suo sguardo si posò su di me la richiuse e infilò la mano martoriata in una tasca della giacca. Malgrado le lenti scure degli occhiali di sole celassero i suoi occhi, sentii su di me l’intensità del suo sguardo. Se avevo la sensazione che quello di Blythe mi scrutasse l’anima, quello di Bartholomew me la trapassava da parte a parte, affilato come un coltello.
Pericolo! Pericolo! Scappa!, urlò una voce nella mia testa – quella dell’istinto di sopravvivenza, che ignorai prontamente.
Avevo percepito la stessa sensazione da bambino, una volta in cui ero andato allo zoo con Joseph. Ero rimasto incantato dalla bellezza di una tigre addormentata… poi si era svegliata e mi aveva ringhiato contro e si era lanciata contro le sbarre della gabbia dove era rinchiusa; la magia era sparita e la paura aveva preso il sopravvento, nonostante la bestia non potesse nuocermi.
Adesso, però, non c’erano sbarre che mi separavano da Bartholomew, e nessuna gabbia che lo contenesse.
«Qualsiasi sia il tuo problema, esponilo a Lorraine e lascia che sia lei a stabilire le conseguenze delle mie azioni», disse Blythe in tono formale.
«Puoi giurarci che lo farò!», ringhiò Bartholomew.
«Perfetto. Ora vattene», tagliò corto. Ogni traccia della sua diplomazia era svanita.
«Non finisce qui», disse Bartholomew, e avevo il sentore che stavolta si stesse rivolgendo ad entrambi. Girò su sé stesso, la sua lunga traccia disegnò un arco dorato nell’aria, e si diresse verso il punto centrale della radura.
Quando era quasi sparito dalla nostra vista Blythe lo chiamò, la voce nuovamente cristallina ed esageratamente cortese: «Ah, Bart, quasi dimenticavo, ti dispiace preparare alcune cose? Abbiamo una vettura e un cadavere di cui disfarci».
Sussultai. Non avevo previsto che Blythe avrebbe messo i suoi famigliari al corrente di quello che credevo fosse un nostro segreto.
Bartholomew reagì meglio di quanto mi aspettassi. Di certo meglio di chiunque avesse mai sentito rivolgersi una richiesta del genere.
Si fermò di scatto, rimase immobile per qualche attimo – forse per realizzare cosa gli aveva appena detto Blythe –, borbottò qualcosa di incomprensibile, scrollò le sue larghissime spalle; fece un altro passo e scomparve nella nebbia.
Ero assetato di spiegazioni, ma Blythe appoggiò un dito sulle proprie labbra invitandomi a fare silenzio. Le sue pupille vorticavano frenetiche all’interno delle orbite, come se stesse scandendo ogni angolo della radura e della foresta che ci circondava, nonostante la nebbia copriva tutto dietro un velo biancastro, mentre io aspettavo col cuore palpitante di paura che i tonfi dei passi di Bartholomew si disperdessero e non sentissi più nessun detrito naturale scricchiolare sotto la sua camminata.
Infine Blythe allontanò il dito dalle labbra. «Cos’è successo?», chiesi.
«Faresti meglio ad andartene».
Finsi di non sentirla. «Perché Bartholomew era così adirato? E chi è Lorraine?»
Lei finse di non sentire me. Afferrò un lembo della manica della mia giacca e si inoltrò nel bosco, nella stessa direzione da cui ero arrivato, costringendomi a seguirla. Incespicai un paio di volte, ma mi sorresse ogni volta facendo leva con le dita strette alla giacca, solide ed irremovibili come quando stavo per accendere la luce in biblioteca e rischiare di attirare l’attenzione del bibliotecario. Talvolta Blythe sembrava una statua marmorea con sembianze umane.
«Blythe, aspetta!», la supplicai.
«Non c’è tempo per le domande, devi andartene via da qui».
Accelerò l’andatura e faticai a starle dietro, seppure le mie scarpe fossero più adatte delle sue per camminare nella natura. Si muoveva come se conoscesse a memoria la posizione di ogni ostacolo naturale e la nebbia non compromettesse la sua vista.
«In che senso dobbiamo disfarci di Derek e della sua auto?»
Ero abbastanza sicuro di cosa significasse, ma una frase del genere l’avevo sentita solamente nei film. Nella vita reale le cose funzionavano diversamente.
«Oh, non preoccuparti, tu non farai nulla. Ci penseremo io e Bartholomew», rispose, come se il suo tono disinvolto potesse sciogliere il groviglio di tensione che mi si era formato in pancia. «A proposito, ti dispiace consegnarmi il telefono e il portafogli?»
Mi ero stufato. Mi impuntai con tutte le mie forze e mi liberai dalle sue dita avvinghiate alla manica come un gancio d’acciaio. O meglio, fu lei ad allentare la presa e dovetti reggermi ad un tronco per non venire sbalzato all’indietro. «Ce la faccio da solo, grazie», sbottai una volta ritrovato l’equilibrio.
«Ho i miei dubbi», sorrise timidamente. «Aiden, il portafogli e il telefono», porse la sua mano, il palmo rivolto verso l’alto.
«Certo», infilai la mano nella tasca dove erano riposti gli oggetti che avevano improvvisamente assunto il valore di due reliquie, «ma ad una condizione».
Incrociò le braccia sul seno, accigliata. «Ovvero?»
Mi morsi il labbro. Non mi piaceva quello che stavo per fare. «Devi iniziare a rispondere alle mie domande».
«Mi stai ricattando?», chiese, a metà tra il divertimento e l’incredulità. Non potevo biasimarla, anch’io stentavo a credere che avessi dovuto ricorrere ad uno stratagemma tanto meschino per ottenere delle risposte.
«Non puoi considerarlo un… accordo?»
Blythe sospirò e chiuse gli occhi, il suo respiro fremeva di impazienza. Dopo un minuto interminabile li riaprì, ardenti d’intensità. «Va bene, ma prima usciamo da qui».
Blythe mi condusse fuori da quel labirinto di alberi e nebbia in meno della metà del tempo che avevo impiegato per raggiungere la radura. Camminò davanti a me per l’intera durata del tragitto, districandosi con movimenti fluidi e calcolati nella boscaglia; all’udire di sporadici battiti di ali il suo sguardo scattava verso l’alto ed ispezionava il cielo plumbeo. Ero tentato di chiederle cosa stesse cercando – o controllando –, ma era stata chiara: le domande avrebbero dovuto aspettare.
Giungemmo al limitare della strada, dove avevo posteggiato l’auto. Dubitavo che fosse considerato un’area di sosta, ma tanto a Nessdoom non mai visto l’ombra di un vigile che distribuiva che multe.
Be’, con tutta quella nebbia non si vedeva mai un granché.
Aprii la portiera dal lato del guidatore e feci per sedermi, ma Blythe mi precedette e si rannicchiò fulminea sul sedile.
«Molto galante da parte tua aprirmi la portiera, ma onde evitare futuri malintesi sappi che le mia braccia funzionano benissimo».
Mi sentii avvampare. «Io non-».
«Ti riaccompagno a casa. Senza offesa, Aiden, ma puzzi come una distilleria», arricciò il naso, «e qualcuno che mi ha raccomandato che non è prudente lasciare alla guida chi ha bevuto».
«Non ho bevuto. Cioè, sì, ma ieri sera, ora sto bene».
«Sarà. Comunque mi sentirei più sicura se potessi riaccompagnarti a casa».
Alzai gli occhi al cielo, ma non mi opposi ulteriormente e andai a sedermi sul sedile del passeggero. Se c’era una cosa di ero assolutamente certo, era che Blythe era troppo ostinata per lasciarmela vinta.
Le passai la chiave d’accensione e mise in moto l’auto; fece retromarcia e prese la Statale 66, verso Nessdoom. «Dovresti darmi qualcos’altro, però», mi ricordò.
«Risponderai sinceramente?», chiesi, la mia mano in bilico nella tasca della giacca.
«Non mentirò».
«C’è una differenza abissale tra rispondere sinceramente e non mentire».
«Oh, lo so benissimo», sorrise esibendo le fossette e mi offrì la mano, «ma queste sono le condizioni, prendere o lasciare»
Sospirai. Altre mezze verità. Quando Blythe mi aveva promesso in biblioteca che non mi avrebbe mai mentito non avevo ancora capito a cosa sarei andato incontro.
Estrassi gli effetti personali di Derek e glieli consegnai. Sembrava che non potessi ambire a qualcosa di più che gocce di verità di verità somministrate lentamente una dopo l’altra.
«Affare fatto». Una mezza verità era sempre meglio che una bugia.
Ripose gli oggetti della nostra trattativa in una tasca della pelliccia e successivamente l’auto acquisì velocità, sfiorando i cento chilometri orari; la foresta ai lati ai lati della strada divenne una sfocata macchia verde che scorreva accanto a noi. Più ci avvicinavano a Nessdoom, meno tempo avevo per risolvere gli enigmi che mi ronzavano in testa.
«Perché Bartholomw era così… arrabbiato, per usare un eufemismo?»
Blythe ci pensò su un attimo, poi parlò con fare riflessivo come se stesse ponderando ogni singola parola. «Bartholomew è sempre stato molto prudente, o paranoico, se preferisci, e lo è ancora di più da quando si vocifera che siamo una famiglia di assassini. Ritiene che non sia saggio attirare l’attenzione più del necessario, come concedersi un pomeriggio nella tranquillità della biblioteca, presenziare in un certo ritrovo di appassionati di poesia… o parlare con un amico nei pressi di casa nostra. Crede che il mio capriccio di avere un briciolo di vita sociale metta a rischio l’incolumità della nostra famiglia».
Mi morsi il labbro e mi trovai imprigionato in un attimo di esitazione, ma i metri che si aggiungevano al tachimetro mi spronarono a parlare finché ne avevo l’occasione. «Io… io sono un pericolo per la tua famiglia?»
Serrò le labbra. «No… non se mi comporto con prudenza», disse con durezza.
«Che cosa intendi?»
«Per tua informazione, sono capace di propinarti risposte enigmatiche per tutto il giorno, ma poiché hai a disposizione solo pochi minuti per continuare quest’interrogatorio ti suggerisco di passare alla prossima domanda».
Ne avevo così tante da non sapere quale scegliere… allora optai per la più ovvia. «Perché vi siete trasferiti a Nessdoom? Perché, a meno che non siete fan accaniti di Stephen King, non riesco proprio a spiegarmelo».
«La prosa del signor King non ci dispiace, ma il motivo di questa trasferta nel paese più nebbioso degli Stati Uniti è il viaggio di nozze durata indefinita di Lorraine e Narcissa».
«Le tue madri?»
Annuì, e sfoggiò un sorriso che non le avevo mai visto prima. Un sorriso di puro affetto. «Hanno aspettato così tanto per coronare il loro amore… e di tornare a Nessdoom. Non le ho mai viste così felici, nonostante tutto quello che sta succedendo».
«Sono già state qui?»
«Molto tempo fa. È qui che si sono innamorate… ma poi sono dovute andar via. Alcune persone di fronte all’amore tendono a divenire… pericolose», mi lanciò un’occhiata carica di sottintesi – alcuni riuscii a coglierli, altri mi sfuggirono –, e i suoi occhi si velarono di tristezza. «Ma adesso le cose sono cambiate, ci sono delle regole. Non dobbiamo più vivere nella paura»
L’auto arrivò a Nessdoom, e Blythe ebbe il buonsenso di rallentare. Se Diantha ci avesse fermato per eccesso di velocità, avrei dovuto fornirle delle spiegazioni molto valide per giustificare la presenza di Blythe nella mia auto, soprattutto dopo che si era lasciata sfuggire che aveva cercato la proprietà dei Winter per lasciare prove che li incriminassero.
Il tempo prezioso a mia disposizione stava scadendo.
«Cos’è successo ai tuoi genitori biologici?», chiesi, guardando fuori dal finestrino. «Non sei obbligata a rispondermi, dopotutto non sono affari miei».
«Mio padre è partito in guerra e non è più tornato. Mia madre si è ammalata e non ce l’ha fatta», disse in tono piatto, ma poi la sua voce si fece vibrante di dolore. «Poco dopo che Narcissa e Lorraine mi trovarono, mio fratello morì in un incendio».
«Mi dispiace. Mi dispiace che hai dovuto attraversare quest’inferno», mi sforzai di guardarla, la sua mascella era contratta come se stesse soffrendo anche fisicamente. «È stato inopportuno chiedertelo».
«È successo tempo fa, ora fa meno male», sussurrò guardando fisso sulla strada, e pregai che per una volta fosse completamente sincera. «Cosa ti ha portato a Nessdoom?», chiese, cogliendomi alla sprovvista.
«Sono fan di Stephen King», risposi evasivo. Era vero, ma non era il reale motivo per cui avevo lasciato Los Angeles. Era così semplice rifilare mezze verità.
«E oltre alla tua predilezione per il maestro del terrore?»
Deglutii. «Pensavo toccasse a me fare le domande».
«Sei sempre tu a farle. Non credi che me ne spetti almeno una?»
Aveva ragione. Da quando la conoscevo, la bombardavo di domande. Spesso non mi aveva risposto o mi aveva costretto a leggere la verità tra le righe, però i piatti della bilancia vertevano in ogni caso a suo favore.
«Dovevo andarmene, cambiare aria», mi inumidii le labbra, «Pensavo che lasciare Los Angeles fosse la soluzione per lasciarmi alle spalle l’incubo che è stata la mia adolescenza, le superiori, quindi sono venuto qui, da mio fratello».
«Hai lasciato la Città degli Angeli per sfuggire ai demoni del passato, molto poetico», disse, la sua voce leggera come un soffio. «Però stai ancora soffrendo».
A Los Angeles avevo già uno psichiatra, non me ne serviva un altro a Nessdoom. «E tu che ne sai?», dissi, e dalla mia voce trasparì una nota di aggressività.
Se Blythe la percepì o meno non lo diede a vedere. «Te l’ho detto: non puoi fuggire dai tuoi fantasmi, ti seguiranno ovunque tu vada, e prima o poi dovrai affrontarli. È una legge universale».
«Se lo dici tu», sbottai, ma in fondo sapevo che diceva il vero: non potevo fuggire dal dolore per sempre e seppellirlo dentro di me sotto poche manciate di terra. Alla fine trovava sempre un modo per risalire in superficie, bussare alla porta – anzi, sfondarla con una spallata – e ricominciare a tormentarmi finché non riuscivo a nasconderlo ancora dentro di me. Mi ero costruito un circolo vizioso per non affrontare una volta per tutte ciò che più temevo: il ricordo di Mark Terril.
«La fonte del tuo dolore ha qualcosa a che fare con il nome con cui ti sei presentato alla figlia di Derek?», chiese, come se mi avesse letto nel pensiero.
«Sì», sussurrai, e i miei occhi iniziarono a bruciare e a velarsi di sale. Mark stava bussando alla porta, toc toc, e potevo sentire l’eco della sua voce che chiedeva davanti a tutta la classe se preferivo usare le lamette o gli aghi, e perché non mi fossi attaccato direttamente al tubo del gas…
Istintivamente mi strinsi nelle maniche della giacca, e nonostante la braccia fossero ricoperte da uno strato di cuoio le sentii nude, esposte alla cattiveria altrui, le cicatrici indelebili palpitanti di rabbia. Scossi la testa.
«Cosa c’è?»
«Niente». Mi guardò di traversò, ma feci finta di nulla. «Come hai trovato casa mia?», chiesi per cambiare discorso – e per far tacere le urla di Mark.
«Questa è una domanda facile», disse con voce assente. «Tuo fratello ti ha detto che si è occupato di ristrutturare la nostra dimora?»
Annuii. «Me l’ha accennato».
«Ecco, è bastato recuperare alcuni documenti burocratici sepolti in un vecchio comodino per trovare il vostro indirizzo».
La banalità di quella risposta mi destabilizzò. Blythe, per un nanosecondo, mi sembrò… nella norma. Era così umana, quell’aura da angelo oscuro era momentaneamente svanita.
«A cosa pensi?»
«Sono un po’ deluso, a dire il vero. Credevo che mi avresti rifilato una risposta più contorta», ammisi, e poi mi si accese una lampadina, seguita da un brivido. «Al club di poesia c’era una ragazza che ti ha vista entrare nell’auto di Derek. Ha i capelli viola, un’aria poco raccomandabile e…»
«Violet Wollstonecraft», mi interruppe Blythe.
«La conosci?»
«Mi segue dappertutto, non l’hai notato?», disse, divertita. Io non avrei trovato nulla di esilarante nell’essere perseguitato da Violet, ma ormai avevo accettato che la mente di Blythe seguisse degli schemi tutti suoi.
«Come mai?»
Si passò una mano tra i capelli setosi e attorcigliò una ciocca tra le dita pallide. «Ah, non lo so, forse ho un’ammiratrice, oppure si è innamorata di me. Non ne sarei sorpresa». Liberò la ciocca di capelli e la sistemò dietro l’orecchio, assieme al resto della cascata sanguinea che le scorreva lungo la schiena. «Però no, non ho ancora avuto l’occasione di farle un autografo».
Io invece ero convinto che Violet piuttosto che farsi fare un autografo da Blythe preferisse tuffarsi a testa dalla finestra della sala lettura della biblioteca o, ancora peggio, leggere un libro.
«Comunque, stavo dicendo che ti ha vista con Derek… quindi quando troveranno il suo corpo la sua faccia passerà su tutte le televisioni dello Stato», un’ondata di panico scaturì dal mio petto, ma mi sforzai con tutto me stesso di rimanere lucido, «lei lo riconoscerà, andrà dritta dalla polizia e poi…».
«Non succederà nulla, probabilmente non sentiremo mai più parlare di Derek in vita nostra», disse rilassata.
«Come fai ad esserne sicura?», chiesi, e al diavolo la lucidità, ero al limite dell’isteria.
«Primo, mi accerterò personalmente che Violet non dica nulla a nessuno, e secondo, le foto di Derek non circoleranno sulle televisioni del Maine se lo troveranno in un altro Stato… quando ero con lui, vaneggiava di voler andare in Florida la prossima estate». Scrollò le spalle ricoperte dalla voluminosa pelliccia. «Be’, suppongo che ci andrà con qualche mese di anticipo».
Biascicai qualcosa riguardo Alisha, che meritava di sapere cos’era successo a suo padre.
«Non abbiamo mica intenzione di gettare il suo corpo nel Pacifico! Disponiamo di risorse illimitate e Bartholomew ha molta fantasia, saprà sicuramente come fare ad inscenare un’incidente d’auto, e, oh, non fraintendermi, ti dona questa improvvisa carnagione lattea, ma sei sicuro di stare bene?»
«Accosta», rantolai, dalla mia bocca colava un filo di saliva.
Blythe fermò immediatamente l’auto, e se non avessi allacciato la cintura avrei dato il mio primo bacio al vetro sul cruscotto. Aprii la portiera, mi fiondai fuori dall’auto e mi allontanai il più possibile da essa – e da lei – mentre la mia bocca si riempiva di bile. Da quando ero arrivato a Nessdoom il mio stomaco non era più lo stesso. Oppure tutti quei libri e film dell’orrore alla fine mi avevano reso facilmente impressionabile.
Mi appoggiai su uno steccato che dava su un uno dei tanti dei campi che precedevano la piccola parte urbana di Nessdoom, e tutto quello che vedevo erano piante di patate e nebbia.
Blythe si era materializzata al mio fianco, silente come sempre. «Devo chiamare un’ambulanza?», chiese incerta.
Il pensiero di un esercito di infermieri che avrebbe assistito al disgustoso spettacolino che stavo offrendo mi spaventò più del serial killer che poteva attaccarci da un momento all’altro. Tesi una mano per trattenerla dal farmi morire dall’imbarazzo di fronte a un gruppo di estranei.
Ci fu un solo rigurgito, e una poltiglia giallognola fiottò al di là del recinto. Chiunque fosse il proprietario di quel raccolto, avrebbe avuto un bel po’ di lavoro extra per ripulire quello schifo. Per sua fortuna, avevo già espulso tutto quello che c’era di solido nel mio stomaco la sera precedente.
«Affascinante», sussurrò Blythe.
Espressi il mio dissenso con una serie di colpi di tosse. «Cosa?»
«Non ho mai visto dal vivo una persona che vomita», disse, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, «è così diverso dai film. È un processo più ruoroso e sporco di quanto è rappresentato dalla media».
«Ah, grazie», sbottai una volta che la tosse mi aveva finalmente concesso pietà, «spero che adesso la tua curiosità sia soddisfatta».
«Grazie a te», mi canzonò, e smise di contemplare il liquido che avevo rilasciato su quella che doveva essere stata una pianta di patate. «Sei stato incosciente a volerti mettere al volante in queste condizioni, sarebbe potuta succedere una tragedia», disse severa.
«Proprio com’è stato incosciente saltare giù dalla finestra della biblioteca, vero?», incalzai, i denti mi battevano per il freddo pungente del mattino, la luce dell’alba ancora troppo fioca per riscaldare quell’inferno di nebbia.
«Proprio com’è incosciente restare qua fuori mentre stai congelando. Vieni, torniamo in auto».
Avevo lasciato la portiera dell’auto aperta, quindi l’interno dell’abitacolo si era raffreddato, divenendo una specie di piccolo igloo. Quando premetti il pulsante d’accensione del climatizzatore sfiorai per una frazione di secondo una nocca delle sue mani strette al volante. «Sei bollente», mi lasciai sfuggire. Era come se dall’ultima volta che l’avevo vista il suo corpo avesse assorbito tutto il calore che a Nessdoom mancava quella mattina.
«Sei tu ad essere ghiacciato», replicò tagliente, e mise in moto l’auto.
«Il tempo per le domande non è ancora scaduto, vero?»
«E io che speravo che vomitare avesse tenuto a freno per un po’ la tua curiosità», sospirò.
«Temo di dover deludere le tue aspettative».
Cercai le parole giuste per formulare la domanda. Era inusuale e a tratti ridicola, però avevo appena vomitato di fronte a lei e non aveva battuto ciglio, anzi, era rimasta affascinata da qualcosa che avevo paura la disgustasse, quindi era inutile temere che potesse dubitare della mia sanità mentale.
Ogni attimo trascorso con Blythe era come precipitare nel vuoto.
«Credi nel soprannaturale?», chiesi a denti stretti, guardandola con la coda dell’occhio per non perdermi la sua reazione
Blythe non perse la sua tipica impassibilità nemmeno per un secondo, come se le avessi chiesto cosa aveva mangiato per cena.
«Per sovrannaturale cosa intendi? Fatine dei boschi? Poltergeist?», sbuffò, quasi sprezzante, «Dio?»
«No, mi riferisco più a… a streghe e demoni», dissi con un filo di voce, sentendomi un po’ ridicolo, «Incubi e Succubi, per la precisione».
In tutta risposta pigiò sull’acceleratore, accorciando la distanza che ci separava da casa mia. Fissava il vuoto, le nocche delle mani strette sul volante stavano sbiancando.
«Blythe?»
«Perché?»
«Perché cosa?»
«Perché mi stai facendo questa domanda», disse in tono supplichevole, e la sua maschera d’impassibilità scivolò via. Per la prima volta riuscì a leggere nei suoi occhi, ciò che era celato dietro quella perenne scintilla misteriosa: paura, il viola delle iridi divorato dal nero delle pupille.
«Non avrei dovuto farla?», chiesi, confuso. «È solo che… una mia amica mi ha raccontato una delle leggende locali, al falò».
«Quale leggenda?»
«Quella di Senzanome e della Succuba, la conosci?».
«Ne ho sentito parlare».
«Be’, pensavo che… che la Succuba e Senzanome potessero essere riuscite ad uscire dall’inferno e adesso si stiano vendicando con gli attuali abitanti di Nessdoom perché… perché adesso sono a Nessdoom sotto forma di fantasmi, e credono di essere ancora nel 1692 dato che, non so, sono rimaste incastrate in una specie di fessura-spazio temporale e sono a caccia degli eredi dei latitanti…»
«E perché mai dovrebbero vendicarsi?», chiese perplessa.
«Non lo so, non ci ho ancora pensato», ammisi, e ci pensai su un attimo, «forse perché Primrose le ha condannate alla dannazione eterna e all’oblio. Azzarderei che ciò che le ha rese molto rancorose», ipotizzai.
«Temo che tu sia totalmente fuori strada. Da quel che ho sentito sul loro conto, sono certa nei cuori di Senzanome e della Succuba non ci sia spazio per l’odio, se ne saranno fatte una ragione». Si lasciò sfuggire una risatina, come se avessi detto l’ennesima stupidaggine – e forse era proprio così. «Comunque, posso sapere chi si è occupata di divulgarti questa fantasiosa storiella?»
«Ophelia Blake, la sorella di Diantha».
«Ah, lei», disse in tono piatto.
Mi venne in mente Blythe che inceneriva Ophelia con lo sguardo, fuori dalla biblioteca. «Presumo che lei non sia una tua ammiratrice».
«No, non lo è affatto».
La fissai in attesa che proseguisse, che mi desse qualche dettaglio in più, e alla fine si arrese alla mia testardaggine. «Diciamo che tra le nostre famiglie non scorre buon sangue», continuò, «come con la maggior parte delle famiglie a Nessdoom, del resto. Inoltre, nemmeno io sono una sua ammiratrice», sbuffò, «ogni volta che mi incrocia da qualche parte sembra essere sul punto di darsela a gambe terrorizzata, quasi avesse visto un fantasma, e a me non piace chi ha paura di me. Non mi piace per niente».
Annuii. Sapevo di cosa stava parlando. Ophelia mi aveva accennato più volte all’inspiegabile presagio di morte da romanzo gotico che provava in presenza dei Winter.
Non avevo mai sperimentato sulla mia pelle gli sguardi che riceveva Blythe, carichi di paura e sospetto, ma quanto potevano essere diversi da quelli di disgusto e disprezzo che avevo ricevuto io alle superiori?
«Io non ho paura di te».
«Lo so».
Blythe svoltò e giungemmo al viale di sotto casa; la nebbia era così fitta da ottenebrare la facciata rosso pomodoro, lasciando visibile soltanto la famigliare betulla in giardino e la staccionata.
«Sei sicura di non volere che venga con te e Bartholomew? Potrei mostrarvi dov’è Derek».
Blythe rallentò e posteggio l’auto accanto alla staccionata. «Il tuo altruismo è ammirevole ma non essenziale. Bart è pratico nel scovare le persone».
«Che cosa significa? Che è una specie di detective?»
«Qualcosa del genere», sghignazzò, riempiendo l’abitacolo con la sua risata argentea, «anche se forse è più simile a un cacciatore».
«Che io sappia, i cacciatori scovano animali, non persone», le feci notare, perplesso.
«Animali, umani, tutti lasciano delle tracce o una scia e nessuno è davvero introvabile».
Lanciai una rapida occhiata alla casa, per accertarmi che Joseph non fosse già sveglio e per evitare lo sguardo di Blythe. «Poiché non vi accompagno, è il caso che vi avverta riguardo una cosa».
«Sono tutt’orecchi».
«Diciamo che il corpo di Derek non ha un bell’aspetto».
«Non mi aspetto di certo il contrario, solitamente i cadaveri non sono proprio carini».
Chiusi gli occhi. Non volevo vederla mentre glielo dicevo. Non volevo vedere nulla. «Il punto che è ho vomitato… be’, ho vomitato su Derek», serrai le labbra, «sulla sua faccia, per l’esattezza».
Blythe non proferì parola, e per un attimo credetti di essere da solo in auto, di averla immaginata per tutto questo tempo.
«C’è altro che devo sapere?», disse infine, e dalla sua voce sembrava che stesse reprimendo una risata.
«Non credo».
Blythe aprì la portiera e con un movimento aggraziato fu fuori dall’auto in un battibaleno.
«C-ci rivedremo?», balbettai, lanciando un’altra occhiata in direzione della finestra che dava sulla stanza di Joseph, senza vederla per davvero, e uscii dall’auto anch’io.
«Se lo desideri», rispose con un sorriso luminoso. «Ora siamo… com’è quella strana espressione che va di moda in questi tempi? Oh, sì, ora siamo letteralmente partners in crimes».
«Quando ci rivedremo?», insistetti. Non volevo più passare un solo secondo nella consapevolezza che non avrei mai più goduto della compagnia di Blythe.
«Quanta impazienza. Be’, quando non sono occupata ad inscenare incidenti stradali passo il mio tempo in biblioteca a collezionare occhiatacce, quindi puoi trovarmi lì».
«Okay». Tentennai, ma poi la ringraziai per il passaggio. Se non ci fosse stata lei al volante, avrei fatto una brutta di fine.
«Prego». Si allontanò di qualche passo, seguiti dai colpi di spillo dei suoi tacchi sulla strada, e quando fu quasi sommersa dalla nebbia feci altrettanto.
«Aiden?», mi chiamò, e mi fermai sulla stradina sterrata che attraversava il giardino conducendo alla porta.
Mi voltai verso nella direzione della sua voce, seppure fossi troppo distante per vederla. «Sì?»
«Puoi promettermi una cosa?»
«Certo».
«Non andare più nei boschi, per nessuna ragione, soprattutto da solo o all’imbrunire».
«Perché?».
«Promettimelo», sibilò.
Alzai gli occhi al cielo. «Okay, lo prometto, croce sul cuore. Vuoi fare anche giurin giurello?»
Ignorò il mio sarcasmo. «Sono a posto così, grazie».
«Be’, ci vediamo, allora».
Non ricevetti nessuna risposta, soltanto una folata di vento che mi investì in pieno. Mi strinsi nel giubbotto e controllai la buca lettere. Blythe era stata di parola: al suo interno c’era la copia di Belli e Dannati che avevo sottratto alla biblioteca. Be’, eccolo, il mio premio per essere sopravvissuto al bunjee-jumping senza corda dal primo piano della biblioteca, rigorosamente plastificato per salvaguardare quel poco di copertina che non era stato rigato da utenti a cui non stava a cuore la salute dei libri.
Tutto sommato, ne era valsa la pena.
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