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18: Statale 66

“La vita è una tragedia per coloro che sentono, e una commedia per coloro che pensano.”
Horace Walpole

A/N: un capitolo più corto e piatto del solito.

«Vuoi una birra?», mi propose Joseph, mentre guardava la partita di baseball. Aveva spremuto l’acceleratore dell’auto fino al limite per non perdersi il secondo tempo. Durante il viaggio di ritorno mi ero pentito di essermi fatto abbindolare dalla sua storiella del moralista e dell’ubriacone e seriamente temuto di incontrare Derek nel piano astrale e di dovergli dare una spiegazione per aver rallentato il processo di identificazione del suo corpo.

La mia pancia si contrasse al pensiero di un’altra birra. «No, grazie».

«Fai bene. L’alcol uccide quello che hai dentro», disse mentre sorseggiava la sua.

«Allora perché bevi?»

«Perché in me ci sono molte cose da uccidere, come la rabbia di star perdendo contro quelle schiappe dei Marlins».

Anche dentro di me c’erano cose da uccidere, seppellire e dimenticare, soprattutto dopo quella sera. «Credo di aver cambiato idea riguardo quella birra».

«Serviti pure, sono nel frigo».

Ne presi una, e quando chiusi lo sportello vi notai una foto appiccicata con del nastro adesivo, i cui angoli spiegazzati suggerivano che era stata rigirata tra le mani innumerevoli volte, scattata in quella che sembrava una giornata trascorsa al mare. Ritraeva nostro padre con un piccolo Joseph a cavalluccio sulle proprie spalle, le gambe immerse nell’acqua fino all’altezza delle ginocchia – erano  a Venice Beach? A Santa Monica? I loro capelli avevano la stessa sfumatura biondo cenere che io non avevo ereditato – se Joseph era la fotocopia di nostro padre, io ero quella di nostra madre, con cui condividevo gli occhi verdemare e la capigliatura corvina –; Joseph alzava le braccia al cielo e rideva, esibendo un sorriso sdentato, di una vita fa.

Lo stesso sorriso che sarebbe appartenuto e rimasto racchiuso nel passato di Alisha, una volta che avrebbe saputo che suo padre le era stato strappato via.

Per un breve frangente valutai di confidarmi con Joseph… ma non sapevo come avrebbe reagito. Se avesse spifferato tutto a Diantha, avrebbe messo a repentaglio la libertà di Blythe. La posta in gioco era troppo alta per permettermi di spartire il peso di quel fardello con qualcun altro, indipendentemente da quanto mi stesse logorando l’anima.

Ma nonostante i miei buoni propositi di portarmi quel segreto nella tomba, una vocina egoista mi suggerì il nome della persona con cui avrei potuto condividere quel fardello.

La scacciai via.

Mi sedetti sul divano, lo sguardo puntato sulla televisione, ma i miei occhi registravano soltanto una serie di immagini sfocate che si susseguivano una dopo l’altra. Il baseball non mi attirava, ma non quello la ragione della mia disattenzione.

Non riuscivo proprio a zittire quella vocina e, man mano che sorseggiavo la birra, si faceva più pressante.

C’era una persona che non avrebbe riferito ad anima viva ciò che avevo fatto al corpo di Derek. Era nel suo interesse, e fare la cosa giusta – denunciarmi, per esempio – non era una sua inclinazione. D’altronde, era lei che mi aveva iniziato ad una vita criminale, come rubare libri dalle biblioteche pubbliche.

Alla seconda birra quella voce mentale divenne indistinguibile dalla mia. Forse tutti gli anni passati a sottostare alle regole, a cercare di essere una persona decente e a leggere biografie di fuorilegge mi avevano portato ad un punto di non ritorno, dove lasciavo fuoriuscire la mia vera natura non tanto diversa da quella di un Clyde Barrow o di un Billy the Kid.

Scossi la testa. Avevo agito per il bene di Blythe.

Ma a discapito di quello di Alisha e di suo padre.

Sospirai e mi servii un’altra birra, evitando di guardare la foto appiccata allo sportello.

Non berrò mai più.

Una frase che avevo sentito unicamente nei teen drama con più cliché narrativi che spettatori, ma nelle condizioni in cui mi trovavo mi vidi costretto a rivalutarla.

La testa mi scoppiava e la gola era in preda ad un’arsura desertica.

Nel mio ricordo più recente della scorsa notte stavo bevendo una birra (la quinta, da quando eravamo rientrati a casa? La sesta?),  poi un black-out, e mi ero svegliato sul divano.

Mi alzai e, assieme alla nausea, mi assalirono i ricordi del falò. La storia di Senzanome, il corpo di Derek e la conversazione con Alisha. Tutte le birre del mondo non mi avrebbero mai fatto dimenticare il tono supplichevole con cui mi chiedeva di far tornare a casa Derek. Appoggiai la mano alla fronte, madida di sudore.

Ero tornato sobrio, ma la voce egoista non mi dava ancora tregua. O forse ero ancora ubriaco, visto che il suggerimento che mi aveva dato mi sembrava ragionevole tutt’ora. Nonostante la luce del sole (quel poco che riusciva ad oltrepassare la nebbia) e quella parvenza di sobrietà, stavo per assecondare la parte più meschina, oscura di me.

Era sabato, quindi Joseph avrebbe dormito fino a tardi. Non gli avrei dovuto spiegare perché ero salito in auto alle prime luci dell’alba e diretto verso nord-ovest.

Attraversando le strade di Nessdoom non scorsi nessuno. Il paese era ancora immerso nel sonno; e la nebbia, tornata prepotentemente a compromettere la visibilità, per una volta giocò a mio favore. Meno testimoni, meno complicazioni.

Passai accanto alla biblioteca e diedi una rapida occhiata alle sue finestre. Erano chiuse e non c’era traccia del Belli e Dannati che avevo dimenticato su una delle ante. E, incredibilmente, era diventato l’ultimo dei miei problemi.

Man mano che mi dirigevo fuori città le abitazioni si diradarono lasciando spazio ad una ricca vegetazione, ed imboccai la statale 66. Forse era proprio in quel momento che mi resi veramente conto di cosa stavo facendo e, soprattutto, che non avevo ancora pensato a cosa le avrei detto.

Ricordi il tizio con cui sei uscita l’altra sera? Io di certo. Ecco, per caso ho trovato il suo cadavere e mi chiedevo se anche tu fossi morta. O se avessi visto chi l’ha ucciso. Ah, e già che c’ero gli ho preso il portafoglio e il telefono, così quando verrà ritrovato ci vorrà un po’ di tempo in più per identificarlo, e nel frattempo troveremo un modo per tirarti fuori dai guai. Perché ti sto aiutando? Perché mi dispiacerebbe se ti arrestassero. Oh, sì, e anche perché mi piaci da morire, nonostante non voglia più avere a che fare con me.

Avrei dovuto trovare qualcosa di meglio.

La strada si aprì in un valico di pini, talmente vicini gli uni dagli altri da mescolare i propri rami tra di essi, formando ragnatele marroni soffuse dalla nebbia – così fitta da rendere invisibile le cime degli alberi – e ai suoi lati diversi sentieri disparati si immergevano nella boscaglia.

Il mio sguardo guizzava su entrambi lati della strada per scorgere la casa dei Winter, ma non notai nulla che assomigliasse neppure vagamente ad un’abitazione. C’erano soltanto alberi, alberi ed alberi. E nebbia, ancora più fitta che in paese.

Sospirai, ed accostai al limitare della strada, sull’erba che precedeva la boscaglia, a pochi metri da uno dei sentieri che si immergevano in quella foresta di pini. Sembrava che non avessi altra scelta se non prenderne uno di essi – e di perdermi. Se Diantha non era riuscita a trovare la casa dei Winter, non potevo aspettarmi di avere successo dove lei aveva fallito. Non con il mio senso dell’orientamento pressoché inesistente.

L’unica cosa che potevo fare, però, era provarci.

Mi inoltrai nel sentiero, e se la vita fosse stata una fiaba avrei seminato il mio cammino con chicchi di riso per ritrovare la via d’uscita, ma mi trovavo nella vita reale, dove il vento spazzava via i chicchi e le persone morivano nei boschi.

Procedendo i pini si fecero meno frequenti, lasciando spazio a querce, aceri e altri alberi dal tronco più robusto; mi guardai indietro per controllare quanto mi ero allontanato dalla statale 66, ma la nebbia copriva qualsiasi segno di civiltà. Era impossibile stimare quanta distanza avessi percorso.

Mi trovai ad un bivio, e una direzione valeva l’altra, allora scelsi quella a destra. Il terreno era in pendenza, quindi, dal quel che sapevo, potevo starmi muovendo verso nord come verso sud. Iniziai anche a contare i passi, e al duecentosettantaquattresimo il sentiero si divise in due un’altra volta.

Per un attimo temetti di star girando in tondo, di trovarmi nuovamente al primo bivio che si era parato davanti al mio cammino, poiché non c’era nessun dettaglio che differenziasse l’uno dall’altro. Ma doveva essere solamente una mia impressione, mi dissi per consolarmi.

Non c’era da sorprendersi che Diantha si fosse persa in quel labirinto di alberi e nebbia, e che non avesse trovato la residenza dei Winter. L’unica consolazione era il terreno spoglio, senza ostacoli naturali che intralciassero i miei movimenti già precari; soltanto foglie morte che si sgretolavano sotto i miei passi. Se per miracolo avessi trovato la casa dei Winter, sarebbe stato un peccato suonare il campanello con i vestiti sporchi di terriccio e insanguinati. Ultimamente la mia goffaggine aveva fatto fare gli straordinari alla lavatrice.

Sporadicamente il crocidio dei corvi mi fece sussultare, e quando sentivo l’erba frusciare in lontananza, sotto il movimento di qualche animale, mi fermavo immobile finché il rumore non cessava. Non mi sorprendeva nemmeno che il serial killer avesse scelto un luogo così cupo come campo d’azione.

Continuai a camminare alla cieca finché la vegetazione si impoverì, diradandosi di colpo.

Giunsi in una radura circolare, la cui estremità opposta alla mia era nascosta dalla nebbia, ma ero pronto a scommettere che fosse enorme. Era delimitata da alberi spogli e decadenti; il terreno era meno rigoglioso di quello della foresta, sterrato e disseminato da occasionali erbacce.

Quando ero in procinto di muovere i primi passi per esplorare la radura, udii alle mie spalle una voce inconfondibile, cristallina.

«Ti sei perso?»



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