10: Vuoto
"I morti sanno essere più rancorosi di quelli del segno dello Scorpione."
American Horror Story
Quasi non udii il suono della maniglia della porta che girava.
Blythe spostò la mano dal mio viso sul mio petto e mi spinse delicatamente, facendomi arretrare verso uno scaffale. Il suo fiato si fondeva al mio e la tensione che provavo si era convertita in un ronzio che mi pizzicava le tempie.
La porta si aprì e il pavimento del corridoio tra i due di muri di libri dove ci eravamo nascosti venne investito da un fascio di luce proveniente dall'atrio. L'arco di apertura della porta non era abbastanza ampio da illuminare completamente il corridoio, celandoci in un alone di oscurità.
Poi l'arco di luce si ampliò di qualche centimetro, accompagnato da un breve cigolio emesso dal cardine della porta; allora Blythe si sporse verso di me alzandosi sulle punte dei piedi per sfuggire alla luce che altrimenti avrebbe segnalato la nostra presenza illecita.
La sua fronte fredda mi sfiorava il mento e la curva del suo seno si appoggiò all'altezza del mio sterno. In quella posizione, non c'erano dubbi che percepisse il battito del mio cuore e il viso che stava andando a fuoco.
Tramite la visione periferica scorsi una sagoma nera alla soglia della porta, leggermente ricurva in avanti, Alfred.
Per un attimo valutai l'idea di farmi avanti, autodenunciare la nostra malefatta - se me la fossi giocata bene forse sarei riuscito a farla passare per una bravata adolescenziale e avremmo risolto tutto con un esilio a vita dalla biblioteca -, ma poi la scartai: prima di fare qualsiasi cosa avrei preferito consultarmi con Blythe; e al momento non era possibile, allora rimasi zitto e immobile, trattenendo il respiro.
Poi la porta si chiuse e il buio prese nuovamente il sopravvento.
Una chiave girò nella serratura della porta, i passi del bibliotecario si allontanarono.
Solo quando sentii il rumore di un motore che veniva messo in moto ripresi a respirare.
«Ci ha chiusi dentro». Eravamo soli, quindi non era più necessario bisbigliare. «Ci ha chiusi dentro», ripetei sull'orlo del panico.
«Un'acuta osservazione, Watson». Blythe indietreggiò, silenziosa come un fantasma. La sensazione di non averla più accanto a me divenne aliena, sbagliata, come tasselli combacianti di un puzzle che venivano staccati a forza. «Hai paura anche del vuoto?»
Mi avviai nella direzione dalla quale proveniva la sua voce, al di là degli scaffali. La figura di Blythe si stagliava davanti ad una finestra, oltre il lungo tavolo da lettura. Quando la sua mano girò la maniglia della finestra mi fu chiaro cosa aveva in mente.
«No. No. Non se ne parla».
Blythe spalancò la finestra e un soffio di vento notturno penetrò nella biblioteca. Oltre la finestra, si vedeva soltanto la nebbia, grigio sporco bagnato dalla luna. Fletté una gamba sull'anta, e dandosi una spinta col resto del corpo si ritrovò agilmente con entrambi i piedi sul bordo sulla finestra, a pochi centimetri dal vuoto.
«Aspetta, ci deve essere sicuramente un'altra soluzione!» esclamai, esasperato.
«Se non hai nulla in contrario, la precedenza va alle signore», disse, il suo sguardo rivolto verso l'infinita coltre di nebbia.
Saltò.
Svoltai il tavolo e mi affacciai alla finestra, per sapere cos'era rimasto di lei. Nel punto dove sarebbe dovuta atterrare non la vidi. L'impatto al suolo - un spiazzo di erba incolto - era stato così violento da disintegrarla?
«Blythe?», la chiamai, accorgendomi di aver pronunciato per la prima volta il suo nome ad alta voce. Mi piacque il suono, la lingua che si inarcava leggermente verso l'alto, la punta che spingeva contro gli incisivi superiori e infine si incastrava tra entrambi gli incisivi. «Sei... viva?», chiesi, incerto. Cosa si poteva dire ad una persona che era appena saltata ad un'altezza di tre metri?
L'unica risposta che ricevetti fu il sibilo del vento e il fruscio delle fronde degli alberi. Be', d'altronde i cadaveri non parlano...
«Blythe!» la chiamai nuovamente, con più vigore. Non mi importava più che qualcuno mi udisse e mi cogliesse in fragrante all'interno della biblioteca dopo l'orario di chiusura.
«Blythe Angelique Winter è passata a miglior vita, ora è il suo spirito che parla», disse Blythe seduta su una grossa radice di quercia che sporgeva dal terreno. «Salutava sempre, amava la musica degli anni Venti ed era una persona stupenda, seppur sospetta pluriomicida».
«Molto divertente», sbuffai, ma non potei fare a meno di sorridere sapendo che non si era ferita saltando dalla finestra.
«È il tuo turno, adesso. Che aspetti?», mi invitò a saltare.
Il mio sorriso andò via con la stessa velocità con cui era arrivato. «Be', sai, non ho nessuna fretta di morire».
Blythe rise. «Se non atterri come si deve il peggio che può ti capitare è passare qualche mese in sedia a rotelle. Non farla tragica».
«Rassicurante».
«Sbaglio o stai temporeggiando?»
Sospirai. «Non ti sbagli».
Poggiai il libro e le mani sul cornicione della finestra, e sollevando una gamba dopo l'altra mi ritrovai seduto su di esso con le gambe che penzolavano nel vuoto. Il vento fendeva l'aria e lo sentivo penetrare la pelle del mio giubbotto; strinsi le mani allo spigolo del cornicione per evitare che una folata di vento mi facesse perdere l'equilibrio e cascare di sotto.
Anche se, inevitabilmente, mi sarei dovuto buttare giù in ogni caso.
«Se le cose dovessero andare male, sappi che sono formata per effettuare cure di primo soccorso», disse, «ma se non fossero sufficienti, in tasca ho un dispositivo elettronico chiamato 'telefono', col quale potrei chiamare un'ambulanza».
«Ora sì che sono tranquillo». Istintivamente guardai verso di lei - in basso -, ma un senso di vertigine mi colse all'improvviso; allora spostai immediatamente lo sguardo verso l'orizzonte, grigio e tenebroso.
«Aiden», disse, dolcemente, «andrà tutto bene. Ce la puoi fare».
Mi sforzai di lasciare la presa al cornicione e spostai le mani sulle ginocchia; feci del mio meglio per rilassare le gambe, sapendo che se le avessi mantenuto in quello stato di rigidezza l'impatto col suolo le avrebbe spezzate come bastoncini. «Okay», sussurrai, più a me stesso che a lei.
Okay.
Mi lasciai cadere.
In quella frazione di secondo che sembrava un'eternità non vidi né un tunnel di luce né la mia vita intera scorrermi davanti agli occhi. C'era soltanto il mio corpo che si avvicinava inesorabilmente al suolo, attirato ad esso come una calamita, e la paura, una cazzo di paura che mi martellava la gola e annebbiava la mente.
Quando i piedi toccarono il suolo flessi le gambe per attutire la caduta; poi spostai il peso in avanti e cercai di simulare la piroetta che facevano i marines nei film d'azione, nelle scene dove si buttavano da edifici o elicotteri - ma evidentemente era più facile a dirsi che a farsi. Rotolai goffamente sull'erba fresca di rugiada una, due volte, per fermarmi sul mio fianco, che schiacciava il braccio.
«Ce l'ho fatta», sussurrai. La paura svanì, e per la prima volta da quando ero arrivato a Nessdoom venni colto da una scarica di euforia. Mi sentivo... vivo. Ero vivo.
Mi ricordai che Blythe era lì con me, quindi mi rialzai immediatamente. La parte del mio corpo che era stata a contatto con l'erba del prato era tutta bagnata e il braccio pulsava di dolore, ma era irrilevante. «Non è stato terribile come pensavo», ammisi, e mi meravigliai della radiosità nella mia voce.
Il sorriso di Blythe fece verso alla mia gioia. «Hai visto? È stato rapido e indolore» . Si avvicinò a me abbastanza da lasciarmi scorgere l'opacità che spegneva i suoi occhi viola. «O forse tanto non esattamente indolore», si corresse. Qualcosa le aveva fatto intuire che stessi soffrendo; sembrava che talvolta per lei fossi un libro aperto.
Automaticamente portai la mano del braccio incolume all'altro braccio, nel punto dove vibrava di dolore. «Sto bene, è solo un graffio».
«Mi sentirei più tranquilla se potessi dare un'occhiata».
Arrotolai la manica del giubbotto all'altezza del gomito ed esposi il braccio. Non sembrava essere grave. Sull'avambraccio era presente un lieve rigonfiamento - lieve ma doloroso - che aveva tutte le carte in regola per divenire un livido.
Blythe posò i polpastrelli sul gonfiore, e la sua bassa temperatura corporea lenì momentaneamente il dolore come se vi avesse appoggiato sopra una borsa piena di cubetti di ghiaccio.
«Mi dispiace. È stato egoista da parte mia trascinarti in questa missione dalla dubbia moralità», si scusò.
Prima che riuscissi a dirle non aveva motivo di scusarsi, un'auto si fermò in uno dei posteggi e due fasci di luci ci accecarono, illuminando lo spazio circostante a giorno. Mi colse il dubbio che quella potesse essere una volante della polizia, e nella mia testa si palesò un'immagine in cui Diantha ci arrestava per effrazione e passavamo il resto dei nostri giorni dietro le sbarre - in celle separate.
Oppure potevamo scappare, e Blythe sarebbe stata la mia Bonnie e io il suo Clyde...
«Merda, merda!» esclamai, in panico - Clyde sarebbe rimasto lucido e avrebbe avuto in mente un piano geniale per sfuggire alle manette, ma al diavolo, io non ero Clyde - ero solo un idiota che temeva per la propria fedina penale immacolata. «Cosa facciamo?», mi rivolsi a Blythe, disperato.
«È tutto sotto controllo, non preoccuparti», mi tranquillizzò, la voce calma e vagamente divertita.
La luce dei fari venne abbassata di un livello, e allora riuscii a distinguere l'auto come una Jeep verde scuro, che si confondeva facilmente con la notte. Non era la polizia - eravamo salvi, per il momento.
Dalla Jeep scese un uomo tarchiato, la folta barba copriva parzialmente gli zigomi e le guance, vestito con una tuta da lavoro dalle maniche arrotolate e anfibi neri.
«Questa cazzo di nebbia!», sbottò mentre si avvicinava verso di noi, con passo sicuro e pesante.
«Lo... lo conosci?» chiesi a Blythe, sottovoce.
«Uno sterile scambio di messaggi virtuali è sufficiente per conoscere una persona?»
La guardai perplesso, e alla luce dei fari mi sembrava che le sue occhiaie fossero ancora più prominenti e lineamenti affilati.
L'uomo si fermò davanti a noi, barcollante, con una sigaretta incastonata tra le labbra, gli occhi fissi su Blythe. «Sei Blythe?» chiese, e dal suo alito dedussi era un abituale consumatore della stessa marca di birra che beveva Joseph. Tuttavia mio fratello era abbastanza responsabile da non mettersi alla guida dopo aver trangugiato mezza dozzina di Bud Light.
«Sei un tipo perspicace, Derek», replicò Blythe, prontamente.
«Hai un nome bellissimo».
«Sei anche molto gentile».
Quello scambio di battute fece bruciare le mie viscere di gelosia, e il mio iniziale timore nei confronti di Derek mutò in qualcosa di simile all'odio. Le guance iniziavano a scottare.
Derek continuava a guardarla, analizzando ogni centimetro del suo viso - non sembrava essersi accorto della mia presenza, e questo non fece che alimentare la mia irritazione.
«Sei molto diversa dalle foto del tuo profilo», disse Derek, accusatorio, portandosi un dito sotto gli occhi, riferendosi alle occhiaie di Blythe. Sul suo avambraccio era tatuato un pugnale avviluppato da un rovo.
Cosa stava succedendo?
«Cosa posso dire in mia difesa? Non sono fotogenica», replicò Bythe, con lo stesso tono divertito che aveva usato con me, come se stesse nascondendo qualcosa.
Be', sì, non c'erano dubbi che Blythe nascondesse molte cose.
Derek fece un tiro dalla sigaretta - ridotta a un mozzicone fumante - e la gettò via. «Non volevo certo insinuare che...» Spostò il suo sguardo perquisitore su di me - improvvisamente non ero più invisibile - e poi nuovamente su Blythe. «È il tuo ragazzo?» chiese, come se non fossi capace di parlare.
Arrossii violentemente le guance diventarono incandescenti. Effettivamente in quel momento non sarei stato esattamente capace di formulare una frase dal senso logico.
«Aiden è un mio amico».
«Meglio così. Non mi va di dividere una donna con un altro uomo».
Qualcosa dentro di me si sbriciolò in mille pezzi. Quel qualcosa latrava di dolore, ma dalla mia bocca non veniva emesso alcun suono.
«Adesso, però, è meglio darci una mossa», continuò Derek, il suo alito ancora più nauseabondo, «Portland non è dietro l'angolo. A meno che tu non preferisca che andiamo da te...»
«Casa mia è fuori discussione», replicò Blythe, perentoria. «Aspettami in auto, ti raggiungo subito».
«Okay, ma sbrigati». Derek si allontanò e, quando raggiunse la Jeep, ruttò senza ritegno - ero certo che si fosse trattenuto fino a quel momento -; entrò nell'abitacolo, aprì una lattina di birra e dall'impianto stereo partì un pezzo di una canzone da discoteca, riassumibile in un fastidioso tunz tunz.
«Che schifo la musica elettronica», bofonchiai, non sapendo cos'altro dire.
«Concordo. È priva d'anima». Sentivo su di me il suo sguardo, fuoco vivo che bruciava la pelle.
Deglutii, e mi sforzai di incrociare il suo sguardo - temevo che riuscisse a leggere la sofferenza nei miei occhi - e scelsi con cura le parole che stavo per pronunciare. «Sei... sei sicura di voler salire in auto con quel tizio? Sembra un po'... alterato, diciamo».
Blythe sorrise debolmente, ma dai suoi occhi trasparve stanchezza. «Non preoccuparti, so quello che faccio».
«Ma non sai quello che potrebbe fare lui», replicai, disperato, accennando a Derek, che si stava scolando quella che poteva essere la sua decima birra della serata. «Potreste fare un incidente in auto e...»
Morire.
«Non succederà nulla del genere».
«Non puoi saperlo», insistetti.
Blythe sospirò e alzò brevemente gli occhi al cielo. «Aiden, ti prego, ti stai preoccupando per niente».
«Ma io pensavo che prima... In biblioteca...» farfugliai, guardando i miei piedi. Le parole non erano mai state il mio forte, soprattutto quando si trattava di usarle per esprimere sentimenti.
«Non è successo niente - e qualsiasi cosa fosse potuta succedere, sarebbe stata uno sbaglio», disse, fermamente.
Il mondo - e l'intero universo - mi crollò addosso. Mi sentii un idiota per aver creduto che ci stessimo per baciare, per aver scritto quello stupido haiku ispirandomi a ciò che provavo per lei.
Sparire, desideravo soltanto sparire.
«Capisco». Una parte di me voleva terminare quella dolorosa conversazione il prima possibile, l'altra voleva rimandare all'infinito il momento in cui Blythe sarebbe andata via con Derek.
«No, non sono sicura che tu capisca», disse, con lo stesso tono risoluto. «Ciò che voglio dire è che sarebbe meglio darci un taglio. Per il bene di entrambi».
Fu come se Blythe avesse calpestato i pezzettini di ciò che le parole di Derek avevano sbriciolato - proprio quando pensavo di non potermi sentire peggio. La vita era piena di sorprese; e io, le sorprese, le detestavo.
«Perché?» riuscii a chiedere, nonostante il nodo che mi chiudeva la gola.
«Perché, perché, perché... Fai sempre così tante domande, tu?»
Mi morsi il labbro, non sapendo più cosa ribattere. Non c'era modo di dissuaderla dal salire nella Jeep di quel Derek: aveva fatto la sua scelta.
Derek suonò il clackson, e non potei fare a meno di maledirlo tra me e me. D'altronde Portland era lontana, sarebbero dovuti partire subito per non arrivarci a notte fonda...
«Sembra che sia ora di congedarci», disse Blythe.
Deglutii.
«Ciao, Aiden».
«Ciao», rantolai, ma si stava già dirigendo verso la Jeep. Non si voltò indietro nemmeno una volta.
Il motore ruggì e la Jeep uscì dalla zona parcheggi; si infilò nella strada principale e zigzagò verso sud, in direzione di Portland.
Rimasi immobile finché il rombo del motore non si disperse, sovrastato dal fruscio del vento. C'era solo vento, freddo, nebbia e pathos; Blythe se ne era andata via, portandosi via l'eros.
Mi strinsi nel giubbotto ed entrai in auto. Quando feci retromarcia per uscire dal posteggio, intravidi Capelli Viola che camminava sul marciapiede sul lato opposto a quello della biblioteca, incappucciata e con le mani che sprofondavano nella giacca.
Il club di poesia era terminato da... Non ne avevo idea, stando con Blythe avevo perso la cognizione del tempo, ma ero sicuro che Capelli Viola aveva avuto tempo sufficiente per spingersi ben oltre pochi metri che la separavano della biblioteca. Temevo che avesse visto Blythe salire nell'auto con Derek - visibilmente ubriaco e dal pessimo gusto musicale -, e che se lo avesse raccontato in paese avrebbe alimentato i sospetti che vigevano attorno a Blythe e alla sua famiglia.
Ma la vita di Blythe non mi riguardava, quindi non avevo motivo di preoccuparmi, no?
Tuttavia, non potevo fare a meno di chiedermi quanto avesse visto Capelli Viola. Se aveva assistito al mio tuffo carpiato dalla finestra della biblioteca e le persone sbagliate fossero venute a saperlo, sarei finito nei guai.
Sospirai. Volevo soltanto tornare a casa, immergermi nella lettura di Belli e Dannati e smettere di pensare.
Belli e Dannati... proprio come L'Esorcista, lo avevo dimenticato in biblioteca.
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