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A Ritmo Di Vita

Annabeth guardò il suo fidanzato. I capelli scompigliati frustavano l’aria come chiazze d’inchiostro. Sulla pelle del volto spiccavano pallide cicatrici che creavano motivi strani, quasi ipnotici, sullo sfondo abbronzato. La cosa che risaltava di più erano però gli occhi del colore dell’oceano, divertiti e sereni come una giornata tranquilla passata al mare con la persona che si ama. La ragazza si impose di non rimanere a fissarli, perché altrimenti, lo sapeva, non sarebbe riuscita più a distogliere lo sguardo. Si concentrò invece sui particolari: la forma del naso, un po’ lungo, la bocca piegata nel sorriso sarcastico che era ormai segno distintivo di lui, quel piccolo neo poco sotto la basetta della guancia sinistra. Ognuno di quei piccoli particolari le era così familiare… così come le era familiare il tocco della sua mano premuta sul viso. L’unica cosa strana era il freddo, sì. Quella mano non era calda, non sprizzava vita come un tempo. Era gelida, e inerte tra le sue dita, che la stringevano alla guancia con foga. Era ferma, come congelata nel tempo. Ma il tempo non si era fermato, Annabeth lo capiva dalle lacrime che sentiva scorrere lungo le guance. Eppure non stava piangendo. O almeno non se ne rendeva conto. No, lei stava studiando. Studiava quel viso congelato in un sorriso, cercando di individuare tra le righe uno scorcio della vita che l’aveva abitato. Ripassava per bene quelle ultime parole dolorose che lui le aveva rivolto, in modo da non dimenticarle mai. Si scriveva nelle mente i comandi essenziali da eseguire per restare in vita: espira, inspira, espira. Perché sembrava non venirle più automatico. Eppure continuava, senza riuscire a fermarsi: inspira, espira, inspira.

Studiava, studiava come una matta ogni particolare di quell’immagine. La studiava per non scordarla mai. Per fare in modo che ogni altro ricordo ne venisse cancellato. Espira, inspira, espira. Ormai le sembrava solo una vecchia litania, un incantesimo le cui parole non avevano un vero senso. Inspira, espira, inspira. Se lo ripeteva, perché ogni altro pensiero era congelato. Espira, inspira, espira. Ogni altro pensiero era fermo come quella mano, vuoto come quello sguardo. Inspira, espira, inspira. Piano, anche lei si stese a terra, di fianco a lui. Espira, inspira, espira. Cominciò a studiare il movimento del suo petto. Voleva imitarlo. Inspira, espira… no, non era così. Il suo petto era immobile, vuoto, congelato, come tutto il resto. Inspira… doveva fermare quella litania… espira… voleva solo smettere, voleva solo essere come lui… Inspira… voleva solo stare con lui… espira… stare con lui, per sempre. Forse, un modo per colmare quella distanza c’era. Annabeth prese il coltello, che aveva di fianco. Inspira… guardò gli occhi, quegli occhi che tanto aveva amato. Quegli occhi che fino ad allora le avevano permesso di continuare con quel ritmo. Ripassò un’ultima volta ogni particolare del suo viso, ogni particolare di lui e di quello che erano stati, in meno di un secondo… espira… non fece male. No, non fu la coltellata a farle male quando morì. Quello che le fece male fu riportare un’altra sola volta alla memoria le ultime parole del ragazzo che aveva amato, prima che la coscienza le scivolasse via.
"Se muoio, è colpa tua, Annabeth Chase. È tutta colpa tua."

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Annabeth batté un paio di volte le palpebre e aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu il cuscino su cui aveva la testa posata. Mi avranno curato la ferita, pensò in un primo momento. Solo un attimo dopo si rese conto della mano che le cingeva la vita con forza, come per proteggerla, e delle parole che le venivano sussurrate nell’orecchio. E allora capì. Si girò e pianse, pianse a dirotto, mentre Percy le accarezzava la testa dolcemente. – È stato solo un sogno, Sapientona – le stava dicendo. – solo un sogno, non è niente…-  Ma lei non ci riusciva, non riusciva a smettere di singhiozzare, mentre ancora nella sua testa si ripeteva quello strano ritmo che era tornato ad avere un senso: inspira, espira, inspira.

Le ci volle un bel po’ per calmarsi. Solo allora si rese conto di una cosa. Alzò la testa piano e, la voce ancora rotta dal pianto, disse: - Percy, ma tu… che ci fai qui? Non dovresti essere nel tuo dormitorio? – Si erano trasferiti a Nuova Roma da poco, e quella separazione gli stava facendo più male di quanto non avessero previsto. – Sì, dovrei. – rispose lui scostandole piano i capelli dal viso bagnato. – ma la tua compagna di stanza ti ha sentita urlare e mi ha chiamato con un Messaggio- Iride. Sono volato qui. – Annabeth avrebbe dovuto sentirsi ancora più triste a quell’affermazione: aveva probabilmente svegliato tutta la palazzina. Invece l’ombra di un sorriso le comparve sulle labbra. – “Volato” nel senso di “arrivato di corsa” o “volato” nel senso di “ho fregato un pegaso dalle stalle vicino al dormitorio per fare più in fretta”? – Il volto di Percy passò dall’affettuoso all’imbarazzato. –Ehm… - proprio in quel momento si sentì un nitrito da fuori la porta. Annabeth scoppiò a ridere, mentre Percy borbottava “grazie per il tempismo, Fulmine”; poi poggiò la testa sul suo petto. – Ma come fai a strapparmi un sorriso anche in queste situazioni? – chiese lei d’un fiato. – Be’, non è facile, mi ci sono voluti anni di pratica. – Sul volto del ragazzo comparve il classico sorriso da piantagrane. Di punto in bianco, le cinse più forte la vita e si mise a sedere, mettendole l’altro braccio sotto le ginocchia. – Ehi, ma che fai… - Per quanto la ragazza cercasse di fare l’offesa, le si stampò in faccia un sorriso enorme mentre si sforzava di non ridere. – Mettimi giù! – ma il ragazzo si era già alzato, tenendola in braccio, e aveva aperto la porta del dormitorio. Annabeth gli allacciò le braccia dietro il collo, mentre lui la portava sul pianerottolo. Il vento fresco di metà settembre le accarezzò il viso e scompigliò i capelli di lui. La ragazza ebbe solo un attimo per godersi quella vista, prima di rendersi conto che Percy la stava caricando sul pegaso “preso in prestito”. Provò a ribellarsi, ma lui le sussurrò in un orecchio: - Non c’è niente di meglio per calmarsi di un volo adrenalinico su un pegaso amante delle ciambelle, no?– Il pegaso nitrì. – Oh, scusa, non delle ciambelle… dei popcorn – E le sorrise. Tra lo scocciato e i divertito, Annabeth si lasciò issare sul cavallo alato. Percy montò dietro di lei e le cinse la vita, come se la ragazza avesse avuto bisogno di aiuto per stare in equilibrio. Eppure, quel gesto d’affetto le piaceva, tanto che si strinse ancora di più tra le braccia del ragazzo, sovrapponendovi le sue. Poi il pegaso spiccò il volo, e i due si librarono per il cielo di Nuova Roma.

Annabeth non ricordava che la vista fosse così bella, dall’alto. L’ultima volta che aveva sorvolato il Campo Giove era stata un anno prima, quando doveva recuperare Percy. Ricordò che al tempo aveva sentito una sorta di brivido freddo dietro la nuca, a quella vista. Ora invece sentiva solo il calore del figlio di Poseidone, le mani ancora premute sulle sue come se temesse di vederselo scivolare via. Ma la stretta di lui lanciava un messaggio inconfondibile: non si sarebbe allontanato da lei, mai più, per nessun motivo. La vista anche era meglio dell’ultima volta: era appena l’alba, e una lieve luce arancione cominciava a colorare i templi sulla collina, in lontananza, e a far risplendere il mare come fosse fatto d’oro. La città si stendeva sotto di loro, ancora addormentata, silenziosa e pacifica. E laggiù, al limite dell’orizzonte, si intravedeva San Francisco, piena di luci che si estendevano all’infinito, caotica anche di notte. Eppure, neanche il pensiero della confusione che regnava in quella città lontana, neanche quello riusciva a rompere il senso di calma infinita trasmessale dal disco dorato che stava sorgendo nel cielo limpido e dal ragazzo burlone che la teneva stretta.

Atterrarono sulla cima di una collinetta affacciata sul mare, sempre all’interno dei confini del Campo, ma abbastanza distanti dalla zona abitata. Annabeth mise i piedi a terra, e subito Percy le fece segno di alzare lo sguardo sul mare. Lei lo fece, e lo spettacolo la lasciò senza fiato. Il disco dorato ora era sorto quasi a metà, tingendo di infinite sfumature di rosso e rosa tutto davanti e sopra di loro. Il grigiore della notte era stato sostituito quasi completamente da un blu chiaro, ma non ancora azzurro… sembrava quasi il colore dell’acqua. L’impressione era che fosse il cielo a rispecchiare il mare (anch’esso tinto di tutti i colori più caldi che si potessero immaginare) e non il contrario. Inspira… la ragazza prese una grande boccata d’aria fresca. Poi si girò a guardare Percy. Lui si voltò nello stesso momento, e Annabeth si sentì come se non avesse davvero smesso di guardare lo spettacolo dell’orizzonte: anche gli occhi di Percy, così simili al mare, riflettevano la luce del Sole, creando un piccolo e fantastico orizzonte in miniatura. Il mio orizzonte, pensò la ragazza per un istante. Poi, istintivamente, si avvicinarono l’uno all’altro, e si baciarono, con quello spettacolo ancora negli occhi. I loro corpi si accostarono, e Annabeth fu semplicemente felice, perché ora non sentiva più quella litania dentro la testa. L’unico ritmo che sentiva era quello dei loro cuori, che battevano perfettamente all’unisono, più vivi che mai.

Angolo autrice
Ebbene, alla fine il telefono non si è squagliato per il caldo (io si però, per inciso) e sono riuscita a pubblicare.
Se questa o l'altra mia storia (una solangelo, la trovate sul mio profilo) arriveranno a cento visualizzazioni (Ahahahhahah ma ci sto credendo sul serio?) pubblicherò un'altra Percabeth, probabilmente un po' più lunga.

Per ultimo, una domandina a chi legge:
Genitore divino?
Io sono figlia di Posy, perché... be', il perché lo troverete in un'altra storia che pubblicherò in seguito.

Ciauu
- Philo_Sophia

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