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Mark

Finisco di leggere la storia di Patrick e mi sento dentro la pancia una sensazione strana, come se avessi mangiato delle pietre che ora non riesco proprio a digerire.
Non faccio in tempo a distogliere gli occhi dal foglio che sento le ruote della macchina di papà calpestare il brecciolino del viale. Tra poco meno di dieci minuti sarà in casa e io sono qui in soffitta con questo diario in mano: sono proprio nei guai!

In tutta fretta metto il diario dentro al baule e faccio per andare via, ma quando sto praticamente per scendere il primo gradino qualcosa sembra bloccarmi le gambe. Voglio portare il diario con me, ho bisogno di continuare a leggerlo e sapere cosa è successo a tutti quei poveri ragazzi. Torno da dove sono venuta, lo prendo e me lo infilo sotto la maglietta come fossi un ladro e poi corro in tutta fretta nella mia stanza, senza voltarmi mai.

Entro nella mia camera e sento mio padre che gira la chiave nella serratura della porta e il sangue smette di circolarmi nelle vene dalla paura. L’unica cosa che mi viene in mente da fare è prendere il diario e buttarlo sotto al mio letto. Pochi secondi dopo io mi ci butto sopra e aspetto, so che mio padre da un momento all’altro entrerà in questa stanza, è la prima cosa che fa ogni volta che torna dal lavoro.

“Sono tornato!”

Sento la voce di papà propagarsi per tutta la casa e tutto l’amore che provo per lui diffondersi dentro al mio cuore. Sono così felice che sia finalmente qui che quasi mi dimentico del diario e di tutta quella strana faccenda.

“Ciao papà!”
“Andiamo a fare un giro fuori?”

Mi lascia un bacio con lo schiocco sulla fronte e poi sorride mentre si avvia verso il bagno per farsi una doccia. Non aspetta la mia risposta, già sa che sto correndo a prepararmi.
Usciamo esattamente quindici minuti dopo e io guardo il mondo dall’alto che quasi mi sento un gigante, a stare sulle spalle forti di papà che mi fanno sentire al sicuro dalle bruttezze del mondo. Facciamo tantissima strada e nel frattempo ridiamo, parliamo di qualsiasi cosa e ci facciamo i dispetti che stanno a dire che ci amiamo tanto così. Poi arriviamo al lago e papi mi fa scendere dalle sue spalle con una sola mossa. Anche se siamo stati appiccicati per tutto il tragitto da casa al lago, appena metto piede a terra mi stringo subito alla sua gamba destra per abbracciarlo fortissimo. È il mio super-papà e non so proprio cosa farei senza di lui.
Ci stendiamo sul prato e ci mettiamo a costruire origami di barchette di carta. Ogni tanto il mio papà si avvicina a me per aiutarmi a fare le piegature più complicate che io con le mie piccole manine non riesco a fare. Stiamo così indaffarati che non ci rendiamo conto del tempo che passa o forse proprio non ci importa. Stiamo bene e vorremmo stare così per sempre. Giochiamo per ore ed ore a rincorrerci e amarci come non ci fosse nulla al mondo oltre noi due. Poi ad un certo punto la stanchezza si fa sentire sulle mie spalle piccole di bambina e allora mi avvicino al mio papà e gli strattono i pantaloni, lui capisce subito e mi tira su dalle ascelle con le sue braccia forti e mi sorride mentre ci incamminiamo verso casa.

Credo di essermi addormentata fra le braccia di papà per tutto il percorso fino a casa, mi sono ritrovata nel mio letto ed è già tutto buio. Dormono tutti in casa, tranne me, che sono l’unica sveglia perché forse il sonno mi è stato rubato dalla curiosità o da qualche mostro che mi spaventa e che abita sotto il mio letto. Mi stringo nelle coperte e me le porto fin sotto al naso, chiudo gli occhi e immagino che sia il petto caldo e forte del mio papà. Mi giro e mi rigiro nel letto, fin quando infilo una mano sotto al cuscino e mi spavento tantissimo nel sentire qualcosa di strano e freddo… Il diario! Me lo ero quasi dimenticato. Ora che tutti dormono è il momento ideale per continuare a leggere quelle storie. Non ho tempo da perdere e subito mi metto seduta sul mio letto con la schiena poggiata al muro e il piccolo diario sopra le ginocchia.

Mark

Mark sfreccia veloce con la sua bici rossa fiammante tra le stradine strette e sterrate della sua città. È tanto che non esce di casa ma oggi suo padre gli ha dato una commissione da fare e lui proprio non si può opporre. Pedala senza stancarsi, si guarda intorno con sguardo sospetto e stringe il manubrio tra i pugni a proteggersi dal mondo. È mattino presto, si respira aria di sugo che bolle in pentola già da ore e di panni stesi su un filo ad asciugare. I nervi di Mark stanno tirati come i fili che reggono magliette e blu jeans, appese ci stanno lacrime di bambino che non si riescono a staccare per trarne libertà. Frena, aggancia la bici alla ringhiera marrone tutta arrugginita e arresta la sua corsa. Prima di togliere la scarpa dal pedale respira forte e a fondo. Le sue labbra si muovono piano e sembrano sibilare qualcosa, forse una preghiera, forse un grazie detto alla vita per avergliela fatta scampare anche questa volta. Dopo aver fatto Coming out nel suo piccolo paesino, Mark non si sente al sicuro nemmeno dentro le mura della sua casa. Scende dalla bici, si guarda ancora una volta le spalle e poi entra nella piccola bottega davanti a lui per comprare poche cose, pane e latte fresco per il pranzo. Paga con gli spicci rimasti della sera prima che tiene ancora nella tasca destra, sorride alla commessa ed esce. Cerca di aprire in fretta il lucchetto che lega la bici alla ringhiera, ma le mani gli tremano leggermente e fa un po' di fatica. Poi un click metallico gli fa sollevare le mani al cielo come a dire che ce l’ha fatta. E invece no, Mark questa volta non si è salvato dalla banalità del male, dall’orrendissima e vomitevole esistenza.

Qualcuno lo afferra da sotto il braccio, da dietro. La sua mano è forte, sembra contenere una rabbia inaudita. Mark viene scaraventato a terra e subito per proteggersi si porta un braccio davanti agli occhi. Poi il coraggio da bambino che si tiene incastonato dentro si fa uomo e allora sposta il braccio e guarda dritto in faccia quel lurido bastardo che gli sta facendo così male. Mark resta senza parole, il sangue dentro di lui a gelarsi mortalmente. Un gruppo di cinque, sei, forse sette persone lo accerchiano e hanno un ghigno malvagio disegnato sul volto. Sono persone che Mark conosce, che vede spesso, che prima di questo maledetto giorno avrebbe detto essere amici.

Allora Mark fa l’unica cosa possibile ad una preda in trappola: si porta le mani davanti agli occhi e attende la sua fine. Uno, due, tre calci dritti nello stomaco, poi pugni, schiaffi, sputi. Ma alle belve non basta sentirlo piangere, alle bestie non basta vedere il sangue colare dalla fronte e l’umiliazione riempire i suoi occhi. Uno del gruppo afferra Mark per i capelli ramati e lo trascina per una discesa, giù dritto in un parcheggio. Lo alzano da sotto le ascelle, lo sbattono al muro, gli alzano i capelli dalla fronte e con un pennarello indelebile scrivono parole che lui non potrà mai più dimenticare: Trans. Ma non basta, non basta mai per chi compie il male veder soffrire un innocente e allora continuano, lo truccano, rimmel, mascara, rossetto, ombretto. Ora si, che è un perfetto transessuale.

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