12. It's all just fine
Canzone nei media:
"I don't need help" - VISTA
Bussai al portone tre volte, prima di afferrare la maniglia e scoprire che era aperto. Messo piede nella struttura vidi che questa era immersa nell'oscurità. All'interno aleggiavano un filo d'aria fredda e un odore di chiuso che mi punse l'olfatto.
Studiando il salone che mi accolse, visibile solo grazie alla luce del tardo pomeriggio, superai l'entrata e mi chiusi la porta alle spalle. Mi trovavo in un androne spazioso, sulla sinistra vari divanetti e alcuni tavolini; sulla destra si trovavano due grosse scrivanie da biblioteca, sopra cui giacevano delle lampade spente. Ne afferrai una e la accesi grazie a dei cerini che trovai lì accanto, e così potei scorgere la zona cucina, ad almeno cinque metri da me, dotata di un pianale centrale su cui erano stati abbandonati dei bicchieri e qualche piatto. I fornelli parevano troppo moderni per c'entrare qualcosa con quel posto.
Girando su me stessa vidi che contro il muro alla mia estrema sinistra, a dividere salotto e cucina, c'era una rampa di scale, che portava al piano superiore.
Deglutii con la gola secca.
«Ehilà?» mormorai, «C'è nessuno?» Non ebbi risposta.
Provando una punta d'ansia raggiunsi le scale e mi affacciai. Le ombre erano più dense che nel salone, sicché la luce che entrava dalle finestre della cucina lì non arrivava. Inspirando a fondo posai le dita sul corrimano di legno e iniziai a salire senza fare rumore. Non credevo ci fosse qualche minaccia, non nella casa del Dio Senza Occhi, ma non nascondo di aver provato un certo timore per la desolazione dell'edificio.
Giunta al primo piano mi trovai in un lungo corridoio pieno di porte. Ne contai almeno nove, prima di scorgere un'altra rampa di scale verso il fondo alla mia sinistra. A ogni secondo che passava il silenzio si faceva più assordante, fino al punto in cui persino il mio respiro sembrava rimbombare fra le pareti.
Inspirando a fondo raggiunsi la porta più vicina e strinsi la mano attorno al pomello. Contai fino a tre e lo girai, spalancando con violenza e portando la lampada ad altezza viso. Allungai il braccio più che potei per illuminare ogni angolo, ma non vidi altro che una camera immersa nelle tenebre, un letto sfatto, qualche libro dimenticato e una finestra dalle tapparelle abbassate.
Con un senso di delusione misto a leggerezza richiusi la porta. Vagai su e giù per il corridoio, aprendo e ispezionando ogni stanza, ma trovando sempre le stesse cose: polvere e abbandono. Solo quando ebbi finito mi diressi alle scale, in modo ancor più circospetto.
Il corridoio che trovai al secondo piano era ancora più cupo del precedente, o almeno nella mia testa lo percepii tale. Anche qui c'erano nove stanze, ma a differenza di prima ci fu una cosa che attirò la mia attenzione: vicino a me, su una di queste porte, era affisso un biglietto.
Con la saliva bloccata in gola vi avvicinai la lampada. La carta era piegata e attaccata al legno tramite una puntina. In mezzo al bianco spiccava il mio nome, scritto con una calligrafia elegante e piena di grazie. Lo strappai con una mano e, seppur a fatica, lo aprii. All'interno, sempre con quella grafia deliziosa, c'era un breve messaggio. Diceva che quella era la mia stanza temporanea, che all'interno vi avrei trovato tutto ciò che mi serviva e che il bagno era in fondo sulla destra. Appena sotto c'era la firma del mittente, Vicious. In un post-scriptum si scusava per l'assenza di altri novizi e che sperava presto ne sarebbero arrivati altri a tenermi compagnia.
Con un sospiro e le spalle stanche abbassai la mano. Lasciai cadere il foglio a terra e, senza curarmene, mi affrettai a girare la maniglia.
La camera sarebbe stata identica alle altre, se non per il letto rifatto e le candele accese, che rischiaravano il luogo con un bagliore caldo. Le tapparelle erano alzate e da oltre le tende si poteva scorgere il cielo al tramonto. Sopra il materasso erano poggiati degli abiti grigi, molto simili a quelli che avevo visto addosso a Rage.
Dopo aver richiuso la porta mi guardai attorno, scrutando la scrivania – vuota se non per le candele – e passando la mano sulle superfici dei mobili, come per provarmi fossero reali. Le lenzuola su cui avrei dormito erano leggere e di lino e l'armadio posizionato sulla parete d'entrata arrivava fino al soffitto. Lo stile della stanza non era poi molto ricercato, ma messo a confronto con la casa di Pargo mi parve la camera di una principessa.
Posando la lampada su uno dei due comodini aprii le ante dell'armadio. Dentro vi trovai altri abiti grigi e qualche asciugamano.
Togliere i vestiti che avevo indossato fino ad allora fu strano, come se slacciare il tabarro e sfilare gli stivali mettesse un muro fra lo ieri e il domani. La sensazione che provai fu a metà fra il sollievo e il lutto. Avevo chiuso quella parte della mia vita e avevo iniziato un cammino nuovo, dove avrei potuto essere chi desideravo e avrei imparato a controllare la materia che mi circondava. Non sarei più dovuta scappare di fronte a niente, perché d'ora in poi sarei stata capace di combattere. Tutte le creature che mi avevano spaventata o avevano cercato di farmi del male non avrebbero più potuto nemmeno toccarmi. Le leggi si sarebbero piegate al mio passaggio, non avrei più vissuto nella paura.
Con un sorriso mesto strinsi il tabarro fra le mani, prima di lasciarlo cadere sulla cassapanca ai piedi del letto. Quando lo feci, da una delle tasche scivolò fuori un biglietto. Lo scrutai confusa, prima di chinarmi e afferrarlo. Era vuoto, identico a quello che avevo bruciato per raggiungere Raka e Gizelle qualche giorno prima. Non mi ci volle grande sforzo per capire di cosa si trattava, e nello stesso istante mi tornò alla mente, come un flashback, l'abbraccio. L'ibrida doveva aver sfruttato quell'occasione per mettermi in tasca l'incantesimo.
Stretto fra pollice e indice lo fissai come potesse disfarsi davanti ai miei occhi.
Dentro di me si espanse un moto di tristezza. Pregai che le due stessero bene, che il ragazzo con le corna non le avesse ferite per colpa mia e che prima o poi ci saremmo potute rivedere. Se fosse capitato loro qualcosa non me lo sarei mai perdonata.
Con gli occhi che pizzicavano e un groppo in gola rimisi il foglietto nella tasca del tabarro e ripiegai questo con attenzione, prima di sistemarlo sul fondo della cassapanca. Dopodiché afferrai vestiti puliti e asciugamani e mi diressi al bagno.
Il mio volto nello specchio era diverso da come lo ricordavo.
Non avevo avuto occasione di vedere il mio viso, negli ultimi tre mesi, poiché la casa di Pargo era sprovvista di specchi, ma il riflesso che vedevo lì, nel bagno di quella casa vuota, non era quello che pensavo avrei visto.
I miei capelli neri cadevano sottili ai lati della testa, grondando gocce d'acqua gelida, e la pelle era più pallida di quanto ricordassi – o almeno questo era l'effetto dato dalle occhiaie sulla mia carnagione scura. Gli occhi, che avrebbero dovuto essere di un blu intenso, erano foschi e stanchi. Ero ancora io, ma al contempo non lo ero più.
La Clara di sempre, quella che viveva a Torino e quasi ogni sera andava a una festa o a bere con gli amici in centro, aveva labbra piene e un costante sorriso, guance tonde, una capigliatura folta e uno sguardo tagliente e allegro.
Quella che vedevo ora, però, era una Clara diversa. Le guance incavate, l'espressione stanca e spaventata di chi ha visto troppe cose e nemmeno l'ombra di un sorriso.
Mar-dröm mi aveva cambiata e questo non aveva niente a che fare con l'aver donato la mia anima. Se gli Artisti erano creature bellissime, allora io non ero affatto un'Artista.
Staccare lo sguardo da quell'immagine fu dura e anche mentre mi vestivo e asciugavo i capelli continuai a vederla nella mia testa. Era sempre lì, che mi fissava con il suo volto triste e le spalle basse, coperte da un peso invisibile che non sarebbe andato via presto, forse mai.
Insomma, chi volevo prendere in giro? Diventare un'Artista poteva essere eccitante, ma non era che una soluzione temporanea. Avrei controllato il sangue o qualche altro elemento incredibile che mi avrebbe fatta sentire potente, e poi? Avrei vissuto per sempre, non sarei mai invecchiata, non sarei mai cambiata. Vivere servendo il Dio Senza Occhi poteva essere più sicuro che stare in una catapecchia nella capitale, creando sogni senza venire pagata, ma finché mi fossi trovata a Mar-dröm quel peso non sarebbe svanito. Finché non fossi tornata a casa nulla sarebbe stato a posto, per quanto potessi sforzarmi di vedere il lato positivo. E la Clara nello specchio sarebbe potuta restare la stessa in eterno, se non fossi stata in grado di trovare un modo per andarmene.
L'unica cosa che rendeva sopportabile l'occlusione che tentava di sopraffarmi era la certezza di avere uno scopo. Nelle prossime settimane avrei imparato come essere un'Artista e sarei stata a stretto contatto con alcuni dei Sette Figli. Questo era quello che dovevo fare, attenermi a ciò che ci si aspettava facessi. E magari sarei stata capace di scovare una via di fuga, di creare un portale e rimettere piede sulla Terra.
Mar-dröm era un luogo complesso, a tratti inquietante e a tratti meraviglioso, ma non era il luogo per me. Non era casa mia. E questo non potevo dimenticarlo. Ma tornare a casa sarebbe stato impossibile, se mi fossi lasciata andare ai pensieri cupi che mi occludevano la testa e mi dicevano di accasciarmi e piangere. Non volevo farlo, non volevo crollare adesso, ora che c'era la possibilità di rendere meno miserabile la mia vita.
Quindi finii di rivestirmi e uscii dal bagno senza guardare lo specchio, costringendomi a mantenere stabili le mie emozioni, soffocandole sotto alla curiosità. Tornata in camera vidi che il tramonto aveva lasciato spazio alla sera inoltrata e che il cielo stava diventando nero, invece che blu. Affacciandomi poi alla finestra scorsi vari Artisti avviarsi in gruppetti più o meno grandi, tutti verso la stessa direzione. Pochi minuti dopo una campana iniziò a risuonare di sottofondo.
Con una punta di trepidazione e non poca ansia inspirai a fondo e uscii dalla camera. Scesi a passo controllato fino al piano terra e lasciai la lampada sul bancone sopra cui l'avevo trovata, prima di spegnerla. Poi aprii la porta ed emersi nell'aria frizzante della sera.
Sembrava estate e anche l'odore che profumava il giardino dava quell'impressione. La cosa mi rasserenò un po', mentre guardavo i cespugli in fiore e gruppi sempre meno folti di Artisti passare davanti a me sui sentieri. Feci per unirmi a loro, quando sentii qualcuno chiamarmi per nome.
Non nascondo che provai una certa sorpresa nel momento in cui, nel girarmi, vidi una ragazza fissarmi. Se ne stava poggiata contro l'alto muretto di pietra che sorgeva accanto all'entrata, mezzo nascosto dai rampicanti. Indossava un vistoso mantello dorato, ma teneva il cappuccio abbassato e i lembi del tessuto aperti. Sotto di esso i vestiti erano neri e aderenti, pieni di tasche e cinghie dorate.
Io non risposi, limitandomi a studiarla con espressione stupita. Lei dovette spazientirsi, perché si staccò dal muretto e venne avanti con uno sbuffo. «Sei tu Clara?»
Sbattei le palpebre e mi scossi. «Io... sì.»
La ragazza annuì. «Sono Tehani» allungò la mano destra verso di me e io la strinsi con forza. «Mi manda Avarus» aggiunse dopo, «vuole che ti aiuti ad ambientarti e ti tenga compagnia in sala comune.» Non feci in tempo a dire nulla prima che Tehani mollasse la presa sul mio palmo e mi oltrepassasse con uno svolazzamento di mantello. Prima di avviarsi, però, si girò. «Vieni, è meglio se non facciamo tardi.»
«Sì, scusa.» La raggiunsi e insieme ci incamminammo seguendo una delle stradine di ghiaia che collegavano l'intero giardino. La maggior parte degli Artisti si era dileguata ed eravamo rimasti in pochi a indugiare fra i sentieri. Fu guardando gli altri presenti che mi resi conto di una cosa che prima non ero stata in grado di notare. Tutti gli Artisti che avevo visto fino ad allora avevano un elemento comune: sembravano umani. Non c'erano corna, code o sembianze bestiali, solo persone dall'aspetto normalissimo.
«Sei arrivata oggi, eh?» esordì d'un tratto Tehani, riprendendosi la mia attenzione.
A pochi passi da lei e sforzandomi di seguire la sua andatura veloce, la scrutai. Sotto alla luce aranciata dei lampioni la sua pelle appariva più scura della mia e i suoi capelli castani erano legati in una serie di treccine, che a ogni suo movimento si scuotevano. La cosa più particolare, però, era il trucco che le copriva la faccia: la pelle attorno agli occhi era colorata di nero, con due linee verticali che attraversavano le sopracciglia e scendevano fino alle guance. Questo make-up le dava un'aria minacciosa e mi fece passare qualsiasi voglia di mettermi contro di lei.
«Sì» mi costrinsi a rispondere. «Vicious mi ha detto che sono la prima dopo mesi.»
«È così» rispose Tehani con tono asciutto. «Ultimamente c'è stato un calo di arrivi, ma siamo sicuri che dopo di te ne arriveranno molti, molti altri. Con quello che è successo non mi stupirei se metà capitale cercasse di arrivare qui.»
Inarcai un sopracciglio. «In che senso? Cos'è successo?»
Tehani voltò di tre quarti la testa verso di me e mi scrutò con un'occhiata fredda. Potei vederla calcolare le possibilità, in dubbio se continuare a parlare o meno, ma alla fine scrollò le spalle e tornò a fissare la strada. «Pensavo te lo avessero accennato. Lascia stare, te ne parleranno i Sette Figli quando lo riterranno opportuno.»
Avrei voluto insistere, ma il suo aspetto e il distacco che dimostrava mi spinsero a far cadere la questione. Invece mi avvicinai di più, cercando di mantenere il suo stesso passo, e chiesi: «Tu quindi servi l'Avarizia?»
Tehani inclinò il capo. «Sì.» Non mi guardò, quando rispose, tenendo le mani dietro alla schiena, le spalle ritte e il mento alto.
«E che materia controlli?»
Stavolta potei vederla sorridere lievemente, seppure non si voltò. «Sono un'Artista della Tempesta. Nello specifico sono la Prima Artista di Avarus.»
Ignorando tutto ciò che stava attorno a noi chiesi: «Cos'è un Primo Artista?»
Il sorriso di Tehani diventò più ampio. «Un Primo Artista è qualcuno che ha dimostrato capacità più forti del normale ed è stato scelto per rappresentare il proprio Peccato. Diciamo che... sono una specie di cocca del prof.»
La sua risposta mi bloccò. Mi fermai in mezzo al sentiero di ghiaia, Tehani se ne rese conto qualche momento dopo e si fermò a sua volta, girandosi nella mia direzione. La scrutai con la bocca aperta e un senso montante di incredulità. Aveva parlato in modo troppo umano per essere originaria di Mar-dröm. A Mar-dröm la maggior parte dei modi di dire che usavo non sapevano nemmeno cosa volessero dire. Tehani dovette vedere la realizzazione sul mio volto, perché si lasciò andare a un sorriso dolce. «Lo hai capito, eh?»
«S-sei...»
«Vengo da Tahiti» mi interruppe. «Classe '92. Sono finita a Mar-dröm quattro anni fa.»
Il respiro mi si mozzò in due e prima che mi rendessi conto di cosa stessi facendo la stavo abbracciando. Non riuscii a trattenere le lacrime e alcune scivolarono lungo il mio viso e bagnarono il suo mantello. Tehani non mi scrollò, come mi sarei aspettata, ma anzi ricambiò la stretta e mi passò la mano destra sui capelli. Mi sussurrò all'orecchio di stare tranquilla e, non appena mi calmai, fui io a staccarmi.
«Scusami» mormorai passandomi un dito sotto all'occhio e tirando su con il naso. «Non vedevo un terrestre da tre mesi» per sdrammatizzare mi lasciai sfuggire una risatina nervosa.
Tehani, stupendomi ancora, fece spallucce. «Qui non siamo molti, ma ci siamo, e capisco la sensazione che stai provando, l'ho provata anche io molti anni fa. È per questo che Avarus mi ha chiesto di aiutarti, immaginava che ti sarebbe servito.» Alle sue parole rivalutai completamente Avarus. Avrei dovuto ringraziarlo non appena l'avessi rivisto.
«Grazie» dissi comunque.
«Di nulla» mi sorrise di nuovo. «Ora però è meglio avviarci, o rischiamo di arrivare quando le porte sono già state chiuse.» Non mi azzardai a contraddirla e fianco a fianco percorremmo a passo svelto le stradine di ghiaia. Non mi ero resa conto di quanto fosse grande quel giardino, a causa delle varie pareti di roccia che spuntavano qua e là formando curve e angoli nascosti, per questo mi stupì quanto ci volle per raggiungere la sala comune. L'edificio in cui si trovava apparve davanti a noi non appena svoltammo sulla sinistra, grande il triplo rispetto a quello in cui ero stata sistemata io.
La facciata somigliava a quella di un castello medievale, con l'entrata a ponte levatoio e delle torri di pietra che si innalzavano verso il cielo. Emisi un verso di meraviglia e Tehani ridacchiò, spiegandomi che era lì che vivevano il Dio Senza Occhi e i Sette Figli – almeno per la maggior parte del tempo e in via ufficiale. Non le chiesi di specificare cosa intendesse, ma anche se avessi voluto non avrei fatto in tempo, poiché raggiungemmo il ponte e poi il vero portone d'entrata, pochi metri più avanti, presidiato da due ragazzi col mantello rosso.
«Tehani» disse uno dei due, con un cenno della testa. «Siete arrivate giusto in tempo.»
«Karel, Berna» li salutò. Senza presentarmi, Tehani mi afferrò per il polso e mi trascinò con sé lungo il corridoio coperto. Lì tutto era di pietra e l'aria più fresca che all'esterno; in fondo, l'androne portava a una scalinata immersa nelle ombre, mentre alla nostra destra si aprivano varie arcate a grandezza naturale da cui si accedeva alla sala comune. Una grande quantità di tavoli riempiva il salone e molti di questi erano già pieni. Lampade illuminavano la stanza di luce chiara e Artisti di tutti i tipi andavano avanti e indietro da un tavolo all'altro, parlando, mangiando e ridendo. C'era anche chi restava chinato sul piatto mentre intento a leggere e chi faceva trucchi con la materia.
«Wow» sussurrai quando entrammo, il polso ancora stretto nella mano di Tehani.
Lei non disse nulla e riprese a trascinarmi. Quando facemmo il nostro ingresso nel bel mezzo della stanza nessuno ci diede la minima attenzione, a parte qualche Artista che, al passaggio della mia accompagnatrice, le rivolse un saluto veloce prima di tornare a quello che stava facendo.
Nel passare potei vedere che in fondo alla sala, sulla sinistra rispetto all'entrata, a un lungo tavolo riccamente imbastito, sedevano otto persone. Quattro di questi erano Rage, Vicious, Avarus ed Envier, gli altri erano una ragazza e due ragazzi. E poi il mio sguardo si posò sulla figura centrale, ritta e seria mentre scrutava la stanza. Eravamo distanti, ma non mi ci volle alcuno sforzo nel distinguere il suo viso privo di occhi. La saliva, mentre mi lasciavo tirare da Tehani, mi andò di traverso. Ero sicura che quello fosse il Dio Senza Occhi, e seppure sapessi che fosse una figura concreta nel mondo di Mar-dröm non mi sarei aspettata di vederlo lì, presente davanti a tutti quegli Artisti. Forse avrei dovuto cancellarmi dalla testa tutte le precedenti nozioni sul divino: quel mondo non funzionava come la Terra.
Non tentai nemmeno di parlarne con Tehani, dato il caos che riempiva la sala. Lei, pochi istanti dopo, si fermò e lasciò la presa sul mio polso. Nel voltarmi rimasi perplessa: aveva scelto un angolo vuoto, gli Artisti più vicini a cinque sedie di distanza. La ragazza mi invitò a sedermi e mi disse di aspettarla lì. Tornò quasi dieci minuti dopo, con due vassoi pieni di cibo in mano.
«Serviti pure» disse sedendosi davanti a me e facendo attenzione a spostare il mantello dietro di sé. Non le chiesi perché ci fossimo messe in un posto così isolato, ma Tehani parve intuire quello che stavo pensando perché, prima di addentare un pezzo della sua bistecca, disse: «Oh, non guardarmi così. Conosco molti Artisti, in quanto il mio ruolo di preferita mi mette in risalto, ma non li definirei amici. Ho voluto risparmiarti l'invasività che ho ricevuto io.» Mi lanciò un'occhiata di sottecchi. «C'è una sola persona oltre Avarus che definirei mia amica, ma stasera non è qui, quindi a meno che tu non voglia essere costretta a raccontare la tua intera vita e descrivere ogni minima cazzata a riguardo della Terra... dovrai rassegnarti a stare con me.»
Sbuffai e mi lasciai andare a un sorriso, prima di iniziare a mangiare.
Dopo un'ora e mezza la situazione non era cambiata: la cena proseguiva, gli Artisti parlavano, ridevano e giocavano con gli elementi sfidandosi fra loro. Io e Tehani eravamo rimaste tutto il tempo sedute per conto nostro, io a farle domande e lei a rispondere, spesso ridendo. Mi aveva detto di essere arrivata a Mar-dröm quasi cinque anni prima, ma durante la nostra conversazione non mi aveva chiesto una singola volta qualche informazione riguardo casa. Avrei voluto indagare sul perché, ma siccome ancora non la conoscevo mi costrinsi a farmi i fatti miei.
Al contrario, Tehani fu contenta di spiegarmi un po' il funzionamento del regno del Dio Senza Occhi, raccontandomi che i vari Artisti abitavano in case separate in base al Peccato e che io sarei rimasta nell'edificio dei novizi fino a quando non avessi deciso quale Figlio servire. Aggiunse qualche accenno a come era strutturato il suo tempo, fra lezioni, esercitazioni, studi amatoriali e missioni nel mondo esterno. Sull'ultimo punto non si volle soffermare più di tanto, dicendo che lo avrei scoperto quando sarebbe stato il mio turno.
Le chiesi poi se il Dio Senza Occhi fosse sempre così presente nella vita di Mar-dröm e come mai gli Artisti mostravano tutti un aspetto così normale. A quell'ultima domanda Tehani era scoppiata a ridere e dopo essersi asciugata delle lacrime immaginarie mi aveva detto che quando la trasformazione veniva completata, ossia quando il Peccato era stato scelto e si veniva nominati Artisti a tutti gli effetti, l'aspetto esteriore subiva una modifica. La motivazione era che le missioni risultavano molto più semplici, se l'Artista aveva un corpo meno ingombrante e vistoso.
In somme, potevano sembrare umani, ma la pressoché totalità degli Artisti non lo era.
Dopo quelle che dovevano essere due ore la gente iniziò a congedarsi. La maggior parte dei presenti rimase dov'era, così come il Dio e i Suoi Sette Figli – tranne Envier e l'altra ragazza che non conoscevo, le quali dopo un po' erano svanite nel nulla –, ma ogni tanto qualcuno si alzava, salutava gli amici e usciva dalla sala. Tehani non dava il minimo accenno di volersene andare, ma dopo un po' fu trascinata via da un'Artista dal mantello bianco, la quale non mi aveva degnata di un'occhiata. La mia accompagnatrice si era scusata e si era allontanata. Passati venti minuti non era ancora tornata.
Il tavolo a cui ci eravamo sedute era quasi dall'altra parte della stanza rispetto alla postazione sopraelevata in cui si trovava il Dio, ma a tratti – quando gli Artisti si scostavano dalla traiettoria – potevo scorgere i Sette Figli. Avarus rideva e scherzava con uno degli altri due fratelli, quello dalla pelle abbronzata e corti capelli neri, mentre Rage e Vicious confabulavano tra loro.
Non sapevo cosa aspettarmi dall'indomani; Tehani non mi aveva detto nulla di più di quanto già sapevo, e mentre fissavo i due fratelli da distante mi sembrava quasi di essere una ladra. Restavo seduta in silenzio a scrutare le persone che mi circondavano, ma mi sentivo del tutto fuori posto. Cosa c'entravo, io, con loro? Mi trovavo lì perché ero stata egoista e non vedevo già l'ora di potermene andare. Non ero un'Artista, non importava quanto quei poteri potessero essere allettanti.
Alla fine mi stancai di aspettare che Tehani tornasse. Quella stanza piena di estranei stava diventando soffocante, quindi nel modo più discreto possibile mi alzai e facendo finta di niente camminai fra le fila di tavoli, ignorata da tutti, fino a raggiungere le arcate d'entrata. Prima di oltrepassarle mi lanciai un'occhiata alle spalle, verso il tavolo ancora imbastito. Il Dio Senza Occhi non si era mosso di un centimetro dall'inizio della cena. Vicious e Rage continuavano a ridere.
Quando stavo per voltarmi, però, la ragazza girò di tre quarti la testa e mi vide. I nostri occhi si incontrarono per un istante, io sobbalzai e a passo rapido mi rifugiai nella frescura e nel buio del corridoio, dove non avrebbe potuto vedermi.
I portoni da cui eravamo entrate io e Tehani erano aperti e facevano entrare la luce della luna, ma non c'era traccia di Karel e Berna. Con un sospiro feci per avviarmi ma, mentre stavo per muovere il piede, sentii il bisogno di girarmi. Lì, proprio dove la ricordavo, c'era una scala. Fra le ombre sembrava brillare e dentro di me c'era una voce che mi sussurrava di avvicinarmi.
Probabilmente non avrei dovuto farlo, ma la curiosità era forte e dalla sala nessuno pareva avermi visto.
Deglutii un grumo amaro e, stringendo i pugni, la raggiunsi. Era di pietra e saliva verso l'alto. Non sapevo cosa sarebbe successo se mi avessero scoperta, ma quel sussurro continuava a dirmi di salire. In effetti era un po' strano, non ero quel genere di persona, ma non era stata una bella serata e il mio umore era troppo cupo perché fossi così forte da rifiutarmi. Quindi, lanciandomi un'occhiata alle spalle, mi accucciai e iniziai a salire i gradini.
La tromba delle scale era a chiocciola, immersa nelle ombre, ma quando arrivai sopra sbucai in un ampio corridoio buio. A pochi passi da me c'era un terrazzo con la porta a vetrata, che per coincidenza era scostata. Da lì la luce della luna sembrava ancora più forte.
Affascinata feci un passo avanti, poi un altro e un altro ancora, fino a che mi trovai all'aria aperta. La brezza era fresca ma si stava bene, proprio come in una notte d'estate, e ancora aleggiava quel profumo di fiori. Fu strano non sentire il rumore delle auto di sottofondo, o il ronzio degli insetti; non c'era nessun suono familiare in quella notte tranquilla, a parte il vociare che giungeva dal piano inferiore, ma per capire di non essere a casa mi sarebbe bastato sollevare gli occhi.
Il cielo era letteralmente nero.
Non c'erano stelle, solo una luna gigantesca e magnifica che illuminava il giardino con il suo pallore, sebbene non abbastanza da non rendere necessari i lampioni.
Se avessi potuto, sarei rimasta lì tutta la notte.
«Bella, eh?» disse all'improvviso la voce di Vicious. Quando sobbalzai il ragazzo si lasciò sfuggire una risatina, lì in piedi alla mia sinistra, nel punto che poco prima era stato vuoto. «Scusami, non volevo spaventarti.»
«Nessun... problema» replicai abbassando lo sguardo. «Sono io a dovermi scusare, non dovrei essere qui.»
Vicious sollevò la mano. «Rage ti ha vista andartene. Io volevo parlarti» fece spallucce, «quindi ho usato un trucchetto.» Lo fissai di sottecchi senza capire e lui per tutta risposta mi fece l'occhiolino. Era un ragazzo davvero strano.
«In che senso hai...»
«Oh, diciamo che potrei aver chiesto alle Ombre di... invitarti qui.»
Rimasi interdetta dalla sua risposta. «Vuol dire che mi hai convinta tu a salire qui?»
«In un certo senso.» Si girò verso di me, con un sorriso smagliante dipinto in volto. «Non pensare che ti abbia costretta, non farei mai nulla di simile. Semplicemente ti ho... indicato la strada, diciamo così.»
Continuai a scrutarlo poco convinta. Era identico a quando lo avevo incontrato poche ore prima, se non per i capelli, che stavolta erano tirati indietro e sembravano coperti di gel. I vestiti che indossava erano gli stessi, il mantello nero ancora legato fra le clavicole.
Stranamente non sentivo provenire da lui il fascino che quel pomeriggio mi aveva investita, seppure ai miei occhi si presentasse ancora bello, e se non fosse stato per le corna – nere e dai riflessi bordeaux – lo avrei scambiato per un normalissimo umano. I suoi occhi erano di un semplice azzurro chiaro e a un sopracciglio e alla narice destra aveva persino dei piercing – il che mi stupì non poco, considerato chi era.
Al contempo, però, non provavo nemmeno soggezione, né disagio, così come non li avevo provati quando lo avevo trovato ad attendermi, insieme ai fratelli, dall'altra parte dei Cancelli. In sua presenza mi sentivo come mi ero sentita con Tehani, forse persino più a mio agio.
Vicious notò che lo fissavo e il suo sorriso si allargò. «Percepisco che hai una domanda da pormi. Dimmi pure, Clara.»
Socchiusi gli occhi. «Sei l'incarnazione della Lussuria, vero?»
Lui chiuse le palpebre e chinò in avanti il capo. «Sì, lo sono.» Lentamente si voltò verso il parapetto e portò gli occhi alla luna. «Provi soggezione?»
Imitai il suo gesto, poi sussurrai: «In realtà no.» Rimuginai qualche istante se essere del tutto sincera o tenere quell'informazione per me, ma poi arrivai alla conclusione che Vicious era gentile e che sarei stata molto a contatto con lui, quindi magari avrebbe potuto darmi qualche consiglio. «Se devo essere sincera... mi sono sentita più a disagio nella sala comune. Tutti quegli Artisti...» feci vagare lo sguardo sull'orizzonte, scrutando il giardino che si estendeva a perdita d'occhio, «nessuno di loro sembrava vedermi, a parte Tehani, e mi chiedo cosa io ci faccia qui. Se c'entro qualcosa.»
Sentii Vicious sospirare e con la coda dell'occhio lo vidi poggiarsi con la schiena alla balaustra di pietra, le braccia incrociate davanti al petto. «È normale che tu ti senta così. Gli Artisti tendono a non dare attenzione ai novizi, a meno che non siano...» Soppesò la parola muovendo la testa di qua e di là, prima di mormorare: «Terrestri.»
«Ma io sono terrestre.»
«La maggior parte di loro ti crede un'ibrida» replicò, «e la presenza di Tehani ha trattenuto gli altri dallo spargere l'informazione.» Lo guardai in faccia e lui mi rivolse un sorriso triste. «E per il tuo sentirti fuori luogo, Clara, ti rivelerò un segreto. Tutti coloro che arrivano qui si sentono così, ma tutti sono degni di arrivarci. Mio padre ha creato Limbo cosicché solo coloro che erano degni potessero diventare nostri emissari. Se tu sei qui, se hai superato le prove, è perché questo è il posto giusto per te.»
Il mio sorriso imitò il suo, ma in modo molto più debole, sicché le mie labbra si mossero solo di pochi millimetri. «Io sono una terrestre. Casa mia è sulla Terra.»
Vicious inclinò il capo, così da inquadrare meglio il mio volto. «Anche questo regno può esserlo, se glielo permetti» sussurrò con tono dolce. «Posso solo immaginare quanto possa essere difficile, ma sei arrivata qui, in un luogo sicuro, e questo è ciò che conta.»
Inspirai a fondo, evitando il suo sguardo e lasciando vagare il mio ancora un po' sul giardino. Poi scossi le spalle. «Può darsi» dissi con un filo di voce. Feci trascorrere qualche momento di silenzio, in cui seppi lui continuò a fissarmi, poi mi costrinsi a scuotermi e riportai l'attenzione su Vicious. «Comunque, volevi parlarmi?»
Alla mia domanda il ragazzo si rianimò e una nuova allegria fece brillare i suoi occhi. «Sì, giusto» sollevò un indice. «In realtà volevo solo parlare un po' con te senza la presenza soffocante dei miei fratelli.» Altro sorriso a trentadue denti. «Sono rimasto affascinato dalla tua prova e volevo conoscerti un po'.»
«Non ho... fatto nulla di così particolare.»
Vicious mosse di nuovo la mano nell'aria. «Non è stata tanto la prova in sé, che comunque ha dimostrato inventiva – in confidenza» si avvicinò al mio orecchio, «quasi nessuno pensa di muovere le Ombre, preferiscono accendere una luce, ovviamente dopo essere andati nel panico.» Dopo aver parlato si staccò da me, con uno sguardo sarcastico, e io nascosi una risatina. «Quel che mi ha colpito di te è stata prima di tutto la calma con cui hai affrontato la prova... e poi il fatto di essere arrivata alla fine.»
«Cosa intendi?»
«Gli Artisti destinati alla Lussuria sono pochi. La maggior parte delle creature pecca di altro, quasi sempre di rabbia o avarizia, magari di superbia. Qualche secolo fa andava di moda l'invidia, ora non più tantissimo, ed Envier se l'è legata al dito. Ma nel tempo una cosa è rimasta invariata: coloro che si votavano e dimostravano affinità alla Lussuria... raramente arrivavano fino alla fine, perché c'era sempre un altro Peccato più forte che li spaventava e li uccideva. In pochi hanno oltrepassato i Cancelli, e non tutti fra loro hanno scelto me.»
Rimasi spiazzata dalle sue parole e provai compassione nei suoi confronti. Vicious mi dava l'idea di essere una brava persona, a dispetto della sua natura, e quello che mi aveva appena confidato aveva smosso qualcosa dentro di me.
«La cosa che mi ha sempre divertito» aggiunse sollevando gli occhi verso l'alto, con il gomito sinistro poggiato sul parapetto, «è che abbiano scelto una vita di gruppo, piuttosto che il potere.»
Scossi il capo. «Non capisco.»
Vicious sospirò lievemente. «Non so quanto tu conosca di Mar-dröm, ma gli Artisti della Lussuria controllano le Ombre, una delle materie più potenti, insieme a quella del sangue. La vita dei miei emissari è per lo più solitaria, tranne quando non serve una certa... vicinanza nello svolgere le missioni assegnate» mosse le mani per sottolineare il concetto. Dopo un attimo di smarrimento spalancai gli occhi e mormorai un «oh». «Per questo molti preferiscono una vita più allegra rispetto al potere.»
Pensai alle sue parole e mi resi conto, con una stretta allo stomaco, di aver visto mantelli di ogni colore, nella sala comune. Tutti, tranne quelli neri. Sollevai il capo e lo guardai negli occhi. «Non c'erano Artisti dell'Ombra, a cena.»
Lui sorrise e scosse lentamente la testa. «E mai ci saranno.»
«E perché tu c'eri?» Sperai di non aver oltrepassato una linea di troppo.
Vicious fece spallucce, «È richiesto dal mio ruolo.»
Rimasi zitta per un po', studiandolo e contorcendomi le mani. Non sapevo come avrei dovuto sentirmi, a quelle rivelazioni; probabilmente in ansia, ma la verità era che ero curiosa. Quando il Guardiano mi aveva rivelato di essere affine alla Lussuria, non avrei potuto immaginare che si trattasse di questo, ma ora che ne stavo parlando con Vicious percepivo una certa attrazione verso il suo mondo. Il controllo del sangue rimaneva fisso nei miei pensieri come la sensazione più bella che avessi mai provato, ma ripensandoci anche muovere l'oscurità durante la prima prova era stato piacevole. La differenza, fra i due, risiedeva nello stile di vita che quel potere portava con sé.
Dopo vari minuti Vicious si lasciò sfuggire un sospiro e tornò a rivolgere il viso alla luna. «Spero di non averti turbata.»
«Io... no» risposi piano. «Stavo solo pensando.»
«Ti va di condividere?» replicò guardandomi con viso sereno.
Mi poggiai con le braccia alla balaustra. «Pensavo soltanto che è strano, tutta la situazione è strana. Sono curiosa di iniziare, ma ho anche... paura» ammisi alla fine.
Lui annuì, «È normale, nessuno ti chiede di non averne.»
«Cosa succederà domani?»
Si leccò le labbra. «Ti aspetteremo qui al castello e deciderai da chi iniziare. Ogni settimana ti eserciterai con uno di noi, così che in un mese avremo finito e potrai scegliere chi preferisci.»
«Esercitarmi?»
«Sì, ti permetteremo di usare qualche trucco, così capirai come funziona ogni singolo potere.»
Annuii decisa e sussurrai: «Sembra bello.»
«Ti divertirai» replicò Vicious sorridendo. Poi il sorriso si spense e la sua fronte si corrucciò. «Tranne che con Envier. Mia sorella è il contrario del termine divertimento.»
L'ho notato, pensai, ma non dissi nulla. Invece chiesi: «A che ora dovrà presentarmi?»
«La campana suonerà l'inizio della giornata. Dovrai essere qui entro l'ora seguente.» Lasciò morire la frase e fece una pausa, poi sussurrò: «A meno che tu non abbia già deciso da chi iniziare.»
Lo guardai di sottecchi, studiando la forma del suo viso e i lineamenti perfetti. Sarei potuta rimanere ore a fissarlo, ma immaginai che fosse l'effetto che faceva a tutti. «E cosa cambierebbe se avessi già deciso?»
Vicious sollevò una spalla, l'angolo delle labbra tirato in un sorrisino sghembo. «Beh, potresti evitarti la corsa per non arrivare in ritardo...»
Sapevo benissimo cosa stava facendo e con mia sorpresa la cosa mi divertì, tanto che non riuscii a nascondere un ghigno, che presto si trasformò in una risata, quando lui si girò verso di me. «Va bene, Vicious» dissi, con tono più allegro di quanto era stato l'intera serata.
Lui tornò a splendere, con ogni probabilità sollevato dalla mia risposta. «Davvero? Vuoi iniziare con me?» Io annuii, chinando il capo per nascondere il sorriso che pareva essermisi incollato addosso, e lui si staccò dalla balaustra per girarsi verso di me. «Perfetto!» esclamò. «Allora non preoccuparti di raggiungere il castello, mi presenterò io. Non preoccuparti nemmeno della colazione, ci penso io.»
«D'accordo» feci un cenno con la testa. La sua felicità sembrava avermi contagiata, mi sentivo più leggera, e la mia curiosità si era tramutata in un vero e proprio senso d'attesa. Non vedevo l'ora che arrivasse l'alba, non vedevo l'ora di scoprire cosa aveva in serbo per me.
Rimanemmo ancora per un po' lì insieme, a scrutare la notte e a parlare del più e del meno, e per la prima volta da quando ero arrivata a Mar-dröm non sentii nostalgia di casa.
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Betaggio a cura di Octavia_Stokercrow
Divisore commerciale creato da me, vietato rubare o riprodurre.
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