09. Indigo
Canzone nei media:
"Black and white 1" - Lyriel
Mi trovai catapultata in un altro luogo: un paesaggio arido e cupo si stagliava dove c'erano stati la strada e il bosco. Davanti ai miei occhi si apriva quello che immaginavo fosse un vasto spazio aperto, ma che mi era impossibile poter scrutare: la nebbia di Mar-dröm si era tramutata in un fumo indaco fitto e impenetrabile. Sotto ai miei piedi c'era un terriccio nero, freddo e polveroso, sparso di sassolini e pietre grosse quanto il mio palmo. Il silenzio era assoluto. Non c'era niente, a parte il mio respiro il mondo era vuoto.
Ancora inginocchiata mi guardai attorno cercando qualcosa, anche solo un oggetto o edificio che provasse che qualcuno c'era stato. Niente.
«Ehilà?» La mia voce echeggiò per un minuto buono, sempre più inquietante più la parola si ripeteva. «Dove cazzo sono finita...» mormorai fra me e me, ma quando anche quel sussurro risuonò mi tappai la bocca. Incerta sulle gambe mi tirai in piedi, studiando il luogo. Doveva avere per forza a che fare con il giuramento, nonostante non capissi come o per quale motivo.
Stringendo le mani a pugno avanzai nella foschia, senza direzione ma sempre più decisa più i secondi passavano. La nebbia restava compatta e, quasi dieci minuti dopo, compresi che non stavo andando da nessuna parte.
Facendo scorrere lo sguardo da destra a sinistra mi fermai. Sentivo che un altro attacco di panico era vicino, ma non mi sarei lasciata andare, non questa volta. Non avrei avuto assi nella manica da giocare, nessun miracolo a salvarmi, era tutto nelle mie mani ed era fondamentale rimanessi lucida.
«Okay» sussurrai fra me e me. «Analizziamo la situazione.» Presi un respiro profondo e lo trattenni, prima di rilasciarlo con un lungo soffio dalle labbra. «Ho donato la mia anima» dissi, sollevando le mani in aria, «e sono finita qui. E visto che a Mar-dröm non succede mai nulla per nulla deve esserci una spiegazione.» Mi lanciai un'occhiata attorno, scrutando il fumo. «E se fosse un test?»
Mezzo secondo dopo, una voce tonante interruppe il silenzio: «Sono stupito» disse. «Ci hai impiegato meno degli altri.»
Scattai automaticamente indietro di diversi passi, facendo andare lo sguardo da una parte all'altra, sicura che di lì a poco una figura sarebbe spuntata dalla nebbia per attaccarmi.
«Tranquilla, Clara, non hai nulla di cui preoccuparti» riprese. A ogni sua parola, la nebbia indaco pulsava, lanciando bagliori violetti che finivano per accecarmi.
«Chi accidenti sei? Come fai a sapere chi sono? E dove sono?» sputai portandomi una mano davanti agli occhi.
«Sono il Guardiano di Limbo, il luogo in cui ti trovi ora.» Nella mia mente le sue parole non ebbero il minimo senso e diedero vita a milioni di altre domande, ma prima che potessi parlare il Guardiano aggiunse: «Hai giurato la tua anima al Dio Senza Occhi e lui ha accolto la tua richiesta. Limbo è il luogo in cui dovrai provare di essere degna di diventare una sua emissaria.»
Ingoiai l'ansia e strinsi i pugni. «Ignorerò i vari dubbi.» Poi scossi la testa e aggiunsi: «Perché non me lo hai detto subito invece di lasciarmi a vagare senza una meta?»
«Il mio ruolo è quello di aiutarti, Clara, ma dovevi arrivare da sola alla conclusione che fosse una prova. Sfortunatamente, sono le regole.» Inspirai a fondo e chiusi le palpebre, portandomi i palmi al viso nel trattenere un lamento. Quando in quel mondo qualcosa era mai stato facile?
«Quindi cosa accidenti dovrei fare?»
«Intanto liberiamoci di questo fumo. È scomodo, non trovi? Non si vede nulla.» Non capii se mi stesse prendendo in giro o meno, ma quando la sua voce si spense la nebbia smise di luccicare e iniziò a ritirarsi. Di fronte a me si aprì una breccia nel fumo, che mi permise di vedere il paesaggio che si celava al di là: un deserto di sabbia nera sotto a un cielo indaco, qualche collina in lontananza e nient'altro, come fossi la prima anima a solcare quelle terre.
Rimasi in silenzio per vari secondi, divisa fra lo shock e la meraviglia. «Cos'è questo posto?» riuscii solo a mormorare, scoprendo che l'eco era svanita.
«Limbo è una zona di mezzo che può assumere molti aspetti. Siamo stati creati dal Dio Senza Occhi affinché i ranghi dei suoi emissari potessero essere... selezionati.» Fece una pausa, forse in attesa di una mia reazione, ma io mi limitai a rimanere in ascolto. «Ogni volta che una creatura entra qui, Limbo assume delle caratteristiche ben precise, per rispecchiare la mente e l'anima di chi vi si trova all'interno.»
«Quindi... sono nella mia testa?» aggrottai le sopracciglia.
«Sei in uno spazio fra i mondi... ma sì, potremmo dire che tu sia nella tua testa. Questo luogo è una versione di te.» Aspettò ulteriormente, poi sottovoce, con tono più dolce, disse: «Questo ti mette in soggezione?»
Scossi le spalle e feci una smorfia. «Ho visto cose ben peggiori e ormai sono abituata al peggio, quando si tratta di Mar-dröm.»
«Lo so, Clara. Mi dispiace che tu sia finita qui in tali circostanze. Prometto che cercherò di portarti sana e salva alla fine di questo percorso.»
«Grazie» replicai, sollevando il mento e guardando verso il cielo. Ero parecchio perplessa, ma cercai di non darlo a vedere. «Come fai a conoscermi? Sei una specie di entità onnisciente?»
«Non esattamente. Io so tutto su di te dal momento in cui sei entrata a Limbo. Questo è il mio regno, ricordo tutti coloro che vi sono giunti prima di te e ricorderò anche coloro che verranno dopo.» Nella mia mente pensai di chiedergli quanti fossero stati, quante orme stessi calpestando, ma non posi la domanda. Lui rispose comunque: «Tanti.»
«E sono diventati tutti Artisti?»
Stavolta fu il Guardiano a non dire nulla e io non seppi come prendere quel silenzio. Voleva stare a significare che alcuni avevano fallito? Quindi io avrei potuto fallire?
Dopo un po' riprese, ma cambiando argomento: «Ciò che dovrai fare ora, Clara, è semplice: verrai sottoposta a delle prove che testeranno il tuo carattere, e come reagirai a esse determinerà il Peccato – o i Peccati – a cui appartieni. Raggiungi la fine per dimostrare di essere degna e per quanto possa essere difficile non fermarti. Capito?» Lo ascoltai senza spiccicare parola, annuendo di tanto in tanto. «Insisti, non farti bloccare dalle paure e ricorda sempre che è solo un'illusione. Quello che vedrai non starà succedendo davvero, sono immagini estrapolate dalla tua mente. Ti possono fare del male soltanto se tu glielo permetti.»
«D'accordo.»
«Io sarò qui, ti osserverò, e ogni volta che avrai bisogno di me dovrai solo chiamarmi.»
«Quante prove saranno? E in cosa consisteranno?»
«Le prove saranno sette, una per Peccato. Non posso dirti in cosa consisteranno, ma posso darti un consiglio: come reagirai indicherà la tua indole, quindi mantieni la calma e non scappare dalle prove, non dare mai loro le spalle. Se lo farai, fallirai.»
Sentii una stretta allo stomaco. «Cosa succede se fallisco?»
Il Guardiano ci mise un attimo prima di mormorare: «È meglio che tu non lo sappia.»
Ingoiai a fatica il grumo di saliva che mi si formò sotto alla lingua e mi sforzai di mantenere calmo il respiro. Il paesaggio davanti a me era ancora immobile; sembrava davvero un limbo, non c'era né caldo né freddo, non c'era un alito di vento, né nuvole, né stelle. Era tutto morto.
«Questo luogo» sollevai un indice e lo girai nell'aria, «sono davvero io?»
«Sì, Clara. È una forma idealizzata del tuo animo. Ricordatene, quando uscirai.»
Non risposi, lasciando scorrere lo sguardo sull'orizzonte come mi stessi vedendo per la prima volta allo specchio. Non avrei immaginato di essere così e non avevo mai pensato all'indaco come mio colore, ma ora che ci rimuginavo su scoprii di apprezzarlo.
Dopo un po', il Guardiano mi riportò alla realtà: «Dimmi quando sei pronta, così diamo inizio alla prova. Sono certo che non vedi l'ora di andartene.» Schiusi le labbra per dire che non era così, ma mi resi conto di non riuscire a farlo. Lui notò la mia fatica e si affrettò a spiegare che a Limbo non si poteva mentire. Questo serviva per impedire che il risultato delle prove fosse falsato.
Respirai a fondo, raddrizzando la schiena. Percepivo l'ansia montare, togliermi parte del respiro. Il sordo tum, tum del mio cuore mi lanciava fitte al petto nei momenti in cui pensavo più attentamente a quello che avrei dovuto fare, e più tempo lasciavo trascorrere più esso peggiorava. Sapevo che se non mi fossi decisa presto sarei finita per avere paura delle prove e che così mi sarei bloccata. Potevo farcela, dovevo solo credere in me stessa e ricordare che quello che avrei avuto davanti sarebbero state illusioni. Ero al sicuro, il mio unico compito era reagire e andare avanti.
Fallo per Francesca.
«Okay... sono pronta.»
«Ne sono felice, Clara» rispose. «E ricorda: le tue scelte dichiarano chi sei.»
Socchiusi gli occhi, «Va bene... quindi dovrei pensare prima di...»
Lui mi interruppe: «Puoi lasciarti guidare dall'istinto o riflettere. L'importante è che tu non rivolga loro le spalle.»
«Cosa succede se gli rivolgo le spalle?»
«Fallisci. Ricordi cosa ti ho detto sul fatto che non possono ferirti?» Non replicai, non ce ne fu bisogno. «Se non hai altre domande possiamo iniziare.»
Rilasciai un lungo sospiro, poi annuii. «Sì, iniziamo.»
«Buona fortuna, Clara» disse soltanto, con tono basso e vibrante, e non appena la sua voce si spense Limbo scomparve dalla mia vista, ingoiato da un'oscurità senza fine.
Sobbalzai, voltando il capo di qua e di là ma facendo attenzione a non girarmi. Non potevo vedere nulla, neppure me stessa, neppure le mani che muovevo davanti alla mia faccia. Sotto ai piedi sentivo ancora lo scricchiolio dei sassolini, ma era come fossero invisibili.
Se rimasi calma fu solo perché non avevo mai avuto paura del buio.
«Va bene» mormorai con un filo di voce. «Okay. Okay. Okay. Guardiano?»
«Dimmi, Clara.»
«Mi sfugge cosa dovrei fare.»
Lo sentii ridacchiare. «Sei circondata dall'oscurità. Il tuo compito è uscirne. Come lo fai?» Dopo aver detto questo tornò silenzioso e quando lo richiamai non mi rispose.
Ok, pensai fra me e me, scrutando l'oscurità che rendeva inservibili i miei occhi. Il Guardiano aveva specificato che dovevo compiere delle scelte e che dovevo uscire in qualche modo dall'oscurità in cui mi trovavo. Non aveva però dato delle opzioni fra cui scegliere, perciò potevo tecnicamente fare quel che volevo. La risposta era il modo in cui ne sarei uscita e, stranamente, la prima idea che mi venne in mente non fu quella di accendere una luce, ma di sradicare il problema alla radice: alzai le mani in aria e, facendo un respiro tremolante, le mossi come afferrando i lembi di uno squarcio. Mentre le mie dita danzavano nelle tenebre potei percepire queste ultime come qualcosa di solido, un velo che mi carezzava la pelle mentre si spostava man mano che allontanavo le mani l'una dall'altra. Mi sarei aspettata una certa resistenza, ma l'oscurità si aprì come fosse stata un tendaggio e nel vuoto che si venne a creare vidi una luce e un paesaggio.
Mossi un piede e oltrepassai il confine nero. Il luogo in cui finii era un sentiero tortuoso che si inerpicava fra le vette delle montagne, brulle se non per qualche cespuglio. Le proporzioni erano tutte sbagliate: le montagne erano troppo piccole per essere così vicine, tanto che se ci fossi salita sopra, arrampicandomi, vi sarei potuta stare in piedi a malapena. Ai lati del sentiero c'era un piccolo fossato coperto d'erba e, oltre le vette, alte pareti di roccia. In lontananza potevo vedere un'altra vetta, che si trovava proprio al centro della strada. Il cielo era sempre indaco.
Ebbi l'impulso di girarmi per vedere se l'apertura da cui ero arrivata c'era ancora, ma mi trattenni.
Preferii non disturbare il Guardiano e cominciai a camminare, seguendo lo zigzagare del sentiero. Non avevo idea di cosa sarebbe successo e ne avevo un po' paura, ma la via andava in una sola direzione. Non avevo la minima intenzione di scoprire cosa succedeva a chi falliva le prove.
Mossi un piede dopo l'altro, lo sguardo fisso sulla vetta centrale, la quale più andavo avanti più sembrava allontanarsi. Dopo poco meno di due minuti, a una cinquantina di passi da me, apparve una figura. Riuscivo a distinguerla poco, come fosse sfocata; se ne stava ferma e non accennava a muoversi. Istintivamente mi bloccai, ma poiché ero conscia che non c'era altro modo di uscirne che andando avanti ripresi a camminare.
Quando fui a meno di venti passi di distanza la riconobbi e ci volle tutta la mia forza di volontà per non correre verso di lei.
È solo un'illusione.
Strinsi i pugni e ficcai le unghie nei palmi per convincermene e costringermi a controllarmi. Ero più forte di così, non mi sarei fatta prendere in giro da un parto della mia mente.
Quando la raggiunsi mi fermai dinanzi a lei. Era identica all'ultima volta in cui l'avevo vista: i lunghissimi capelli neri sciolti sulla spalla destra, l'altra parte della testa rasata, l'orecchio pieno di piercing e un altro piercing a lato del naso. Persino i vestiti erano gli stessi, la canotta nera con una frase dei Korn che aveva creato lei stessa, i jeans strappati sulle ginocchia e i piedi nudi. In mano teneva la tavoletta grafica, fra le labbra una sigaretta fumata a metà. Mi scrutava con l'espressione sarcastica a cui ero abituata, il capo leggermente inclinato e quella luce negli occhi, che erano sempre stati più belli e più verdi dei miei. La sua pelle olivastra sembrava splendere dall'interno.
Non potei trattenermi dal sorridere. «Francesca» dissi. Sentivo già gli occhi lucidi.
«Tonta» replicò, sollevando le spalle di quel mezzo centimetro. Quando aveva parlato, la sigaretta era svanita nel nulla.
Inspirai a fondo, commossa. «Sei qui per mettermi alla prova, eh?»
«Non ti sfugge niente.»
«Stai bene?» domandai, cambiando argomento. Lei non rispose. «Sei solo un parto della mia mente, per questo non puoi rispondermi, vero?»
«Corretto.»
Deglutii e tirai il collo, portando lo sguardo a terra. «Va bene. Cos'hai per me?»
Francesca si limitò a sollevare le mani davanti a sé. Anche la tavoletta era sparita e nei suoi palmi ora c'erano due oggetti, tesi verso di me. Sul sinistro teneva la spilla di nonna, quella che dopo la sua morte ci eravamo litigate per mesi, ma che alla fine aveva tenuto lei. Scrutai per alcuni secondi la grossa gemma blu, circondata da rami e piccolissimi uccelli di metallo, prima di spostare l'attenzione su quello che teneva nel palmo destro: il ciondolo a forma di chiave che avevo avuto io, quello che nonna aveva indossato a malapena tre volte in dieci anni. Riportai lo sguardo sulla spilla.
«Devo scegliere?» Francesca annuì in risposta. «Posso avere quello che voglio?» Lei ripeté il gesto e io raddrizzai le spalle. Non esitai, allungando il braccio per afferrare la spilla, ma nel momento in cui le mie dita la sfiorarono sia questa che mia sorella si disfecero nell'aria.
«No!» urlai, lanciandomi in avanti per afferrarla. Rimasi a mani vuote.
«Era un'illusione» intervenne il Guardiano. Io lo ignorai, gli occhi che bruciavano per le lacrime che stavo trattenendo. Scrutavo il territorio alla ricerca di Francesca, ma ero rimasta sola. «Non era reale.»
«Lo so, però...»
«Francesca non è qui, Clara, non ci è mai stata.» Chiusi le palpebre e mi costrinsi a riprendermi. «Sei stata brava. Hai già superato due prove.»
«Non erano così difficili» sussurrai, passando un dito sotto all'occhio destro.
«Hai passato la prima in modo egregio, ma ero certo sarebbe successo, non per nulla è il tuo primo Peccato.»
«In che senso? Che Peccato era?» chiesi, ma lui non rispose.
Alla fine relegai la cosa con una scossa delle spalle e andai avanti. Il paesaggio stavolta non cambiò ma, per quanto procedessi, la vetta rimase distante. Andò avanti così per molto: nessuna figura si formò più sul mio cammino né l'oscurità tornò ad avvolgermi. Forse stavo sbagliando qualcosa.
«Guardiano?»
«Sì, Clara?»
«Cosa devo fare?»
«Devi raggiungere la vetta davanti a te.»
«Ma non si avvicina.» La indicai con una mano, «Per quanto vada avanti resta lontana.»
«Non c'è mai una sola via per raggiungere un fine» asserì, prima di tornare ad avvalersi del silenzio. Io evitai di lamentarmi della situazione e studiai il luogo. L'unica altra strada che vedevo era quella formata dalle vette delle montagne che, una dopo l'altra, arrivavano a quella centrale.
Poco convinta mi avvicinai al fossato e, con un balzo, mi appesi alla roccia. Scalarla era facile, dovevo solo seguire le scanalature per raggiungere la cima. Una volta lì feci attenzione a non cadere e guardai avanti: altre cinque vette. Non sarebbe stato complesso.
Distavo dal terreno a malapena due metri, ma quando vi buttai l'occhio ebbi una vertigine, come se la mia mente ne avesse registrati il doppio. Sentii il bisogno di scendere e tornare alla sicurezza del sentiero, ma stringendo i denti ignorai il pensiero e, appendendomi alla parete di roccia lì vicino, mi mossi lentamente fino alla seconda vetta. Come prima, fisicamente non fu difficile, era quella strana voglia di tornare indietro a farmi indugiare.
Resistendo continuai, passetto dopo passetto, e arrivai fino alla quarta vetta prima che una voce interrompesse le mie azioni. Accovacciata sulla cima, lanciai un'occhiata verso il basso e vidi che lì, aggrappata alla roccia, c'era una donna anziana. Non l'avevo mai vista prima in vita mia, ma lei chiamava il mio nome, chiedendomi con voce spezzata di aiutarla. Io ero in una situazione precaria, se mi fossi mossa troppo velocemente sarei potuta scivolare, ma sarei stata dannata prima di lasciarla lì. Anche se si trattava di un'illusione.
Nello stesso istante in cui mi aggrappai alla pietra e scesi per allungarle la mano, però, la vecchia si disperse nel vento come aveva fatto Francesca. Mi ci volle qualche secondo per registrare la cosa, la quale mi lasciò a bocca asciutta.
Rimasi lì ancora un po' per essere sicura che non riapparisse ma dopo quasi due minuti mi dissi che qualunque scelta fosse l'avevo già fatta e che dovevo andare avanti. E così, con calma, arrivai fino alla vetta centrale, la quale, non appena vi misi sopra il piede, diventò un sentiero. Per la sorpresa inciampai e solo all'ultimo riuscii a non cadere.
Mi trovavo adesso in un bosco. Gli alberi erano alti e con tronchi magrissimi, neri e dalle chiome piene di foglie indaco. Ce n'erano talmente tanti da rendere impossibile scrutare nel sottobosco.
Al centro del sentiero, largo a malapena per una persona, alzai gli occhi al cielo nero. «Come me la sto cavando, Guardiano?»
«Scelte insolite, Clara» rispose, «ma egregiamente.»
«C'è davvero chi non ha aiutato quell'anziana?»
«I Peccati sono diversi per ognuno. Tu non soffri d'Accidia, quindi per te non è stato molto difficile. Ma altri non avrebbero esitato a ignorarla.»
Senza rispondere ma limitandomi a un accenno del capo mi incamminai. Qui il paesaggio cambiava, curvando ogni tanto sulla destra, e presto raggiunsi un ponticello di pietra, sotto cui scorreva un fiume indaco dalla tonalità molto intensa.
Davanti al ponte comparve una ragazzina. Era mingherlina, con una massa di capelli castani e un ampio sorriso a cui mancava un dente. «Ciao!» mi salutò. La riconobbi come Emma, la bambina che in quarta elementare si era unita alla mia classe e che, per due anni, era stata snobbata da tutti, inclusa me. Non ne andavo particolarmente fiera.
Ricordavo molto bene l'evento che per anni mi aveva fatta sentire in colpa. Era successo in quinta, prima delle vacanze di Natale, quando Emma era venuta a scuola senza pranzo e nessuno era stato disposto a darle parte del proprio. Nemmeno io. C'era stato un momento in cui avevo pensato di darle una delle mie due merendine, ma poiché erano le mie preferite mi ero limitata a ignorarla.
Mentre la osservavo con un senso di oppressione montante, mi accorsi che stringevo qualcosa fra le mani. Abbassando lo sguardo sapevo già cosa vi avrei trovato: nel palmo avevo la stessa merendina che quel giorno mi ero rifiutata di darle. I miei gusti, dopo anni, non erano cambiati: era ancora la mia preferita, ma ero una persona diversa e avevo ben definiti i miei principi. Quindi senza esitare gliela allungai, ancora avvolta nella plastica, Emma sorrise e una brezza se la portò via.
Lasciai ricadere il braccio. «Gola o Avarizia?»
«Gola.»
«Beh, immagino di non averne grossi problemi.»
«No, immagino di no.»
Sorrisi debolmente e ripresi a camminare, oltrepassando il ponticello con passo affrettato prima di tornare ad addentrarmi. Svariati minuti dopo il sottobosco iniziò a farsi via via sempre più cupo: più andavo avanti più gli alberi si allungavano verso l'alto, le sommità che curvavano verso l'interno, diventando steli appuntiti chinati verso di me; le loro chiome indaco formarono ben presto una tettoia sopra alla mia testa e l'aria tiepida si tramutò gradualmente in una brezza pungente che – se non avessi avuto tutti quegli strati di vestiti addosso – mi avrebbe congelata.
Fu quando della luce non restava che un riverbero sottile che la prima figura uscì dal sottobosco. Aveva poco di umano, una pelle grigiastra e piena di crepe e capelli neri. Vestiva di stracci e si muoveva come un animale, a quattro zampe e con scatti ferini. Quando voltò la testa verso di me, un brivido mi gelò il sangue nelle vene. Il volto che stavo vedendo era il mio, per quanto distorto in un'espressione feroce. Mostrava i denti, mentre si avvicinava trascinandosi, come il suo corpo fosse stato pesante.
Feci in automatico un passo indietro, mormorando un: «Guardiano...» Lui sussurrò che era solo un'illusione. Facile dirlo, avrei voluto vederlo nella mia situazione.
Quasi al contempo, dalla parte opposta del sentiero uscì una seconda figura. Anche questa indossava il mio volto, ma al contrario della prima era di una bellezza estasiante. Avvolta in un abito da sera color turchese, impreziosito da diamanti, si dirigeva da me con andatura fiera. I capelli erano lunghi e ondulati, proprio come erano stati il giorno del mio arrivo a Mar-dröm. Era più vecchia di me di qualche anno e dimostrava un agio che a lungo avevo agognato ma che non ero mai stata in grado di possedere.
Rimasi raggelata sul posto, senza azzardarmi nemmeno a mandare giù la saliva, e nel giro di poco le due mi raggiunsero. Si fermarono a due passi da me, la bestia alla mia sinistra e la bella alla mia destra. Mi guardavano, una con occhi curiosi e la testa che si muoveva a scatti e l'altra con un sorrisetto altezzoso e un luccichio freddo negli occhi.
«Cosa... siete?»
«Siamo te» risposero all'unisono, le voci simili alla mia ma al contempo del tutto diverse. Quella della bestia era graffiante e rauca, mentre l'altra melliflua e priva dell'accento da cui per anni avevo cercato di liberarmi. Sembravano a tutti gli effetti la versione peggiore e migliore di me.
«Superbia?» domandai a nessuno in particolare, e nessuno mi rispose. In compenso, le due inclinarono la testa e, in contemporanea, sibilarono: «Uccidila.» Subito non capii e le scrutai confusa. Fui sul punto di chiedere cosa intendessero, quando sentii un oggetto nella mano. Con un brivido mi decisi a guardare verso il basso e, nel mio palmo, trovai un coltello. Era antico, con l'impugnatura nera e incastonata di pietre indaco, e una lama ondulata la cui punta era tanto affilata che al solo osservarla sentii dolore.
Feci tornare lo sguardo a quelle versioni di me. «State scherzando.»
«Uccidila» ripeterono.
Scossi la testa con fervore e urlando a squarciagola chiamai il Guardiano. «Devi scegliere, Clara» fu la sua semplice risposta. «Devi uccidere una delle due.»
«Ma sono...»
«Te?» replicò con tono quasi canzonante. «Sì, e per andare avanti devi scegliere quale delle due parti di te vuoi uccidere.» Tentai di protestare ma lui non ascoltò. «È solo un'illusione, Clara, e non hai alternative. O ne uccidi una o fallisci.» Dopo aver detto questo tacque, lasciandomi in balìa della decisione che dovevo ma non volevo prendere.
Le studiai ancora un po', guardinga. «Cosa rappresentate?»
«Il tuo passato» sibilò la bestia. «Il tuo trionfo» sussurrò la me ingioiellata.
Mi sarebbe piaciuto porre altre domande, ma ero consapevole che non avrei avuto ulteriori spiegazioni, né da loro né dal Guardiano. Non c'era qualche miracoloso indizio che mi avrebbe aiutata a scegliere, per andare avanti dovevo uccidere una delle due ragazze che mi stavano di fronte e, se non lo avessi fatto, chissà cosa avrebbe potuto succedermi.
Rivolsi un'altra occhiata al coltello e alla sua lama, immaginando di ficcarla nello stomaco di una delle due, e mentre lo facevo giuro che potei sentirne la punta. Poi risollevai lo sguardo e lo riportai su di loro, che per tutta risposta ordinarono: «Uccidila.»
Se non avessi preso una decisione sarei rimasta intrappolata in quello stallo per sempre.
Da una parte c'era il mio passato, quello che mi aveva fatta stare male, che mi aveva fatta sentire debole e aveva rischiato di inghiottirmi, ma che io avevo sconfitto solo con le mie forze. Dall'altra c'era il mio possibile trionfo, l'immagine perfetta di me che, quando di notte ero troppo triste per non piangere, tenevo stretta al petto per rincuorarmi.
Saggiai il coltello nel palmo destro. Una persona normale non avrebbe esitato a uccidere la bestia, accucciata come un animale e così piena di crepe da sembrare sul punto di rompersi. Ma io non volevo diventare questo e se dovevo scegliere qualcosa di cui liberarmi preferivo che quel qualcosa non fosse il passato. Senza di esso, senza quello che avevo vissuto, cosa sarei stata? Chi sarei stata? Di certo non la persona che era arrivata fin lì: se non avessi vissuto quello che avevo vissuto, sarei stata la stessa Clara di sette anni prima, e probabilmente mi sarei arresa alla prima prova.
«Uccidila.»
Sollevai il mento e socchiusi gli occhi. Non avrei permesso a un ideale di vincere su quello che ero. Perciò feci un passo avanti e, prima di rischiare di cambiare idea, afferrai la spalla della Clara ingioiellata. Con un movimento fluido del braccio le conficcai la lama nell'addome. La fitta che sentii pochi secondi dopo nel punto in cui l'avevo accoltellata, però, fu tutt'altro che immaginaria. Le due si sciolsero nell'aria, tuttavia io rimasi boccheggiante per qualche minuto. Per quanto si fosse trattato di un'illusione, avevo appena ucciso una parte di me.
«Scelta singolare» commentò il Guardiano.
«L'ho... cancellata per sempre?»
«Come? No» sbuffò lui. «Hai semplicemente dimostrato quali sono le tue priorità.»
«Quindi non... soffro di Superbia?»
«Non quanto altri» fu la sua risposta. «Surbus ne sarà un po' deluso» aggiunse dopo poco, prima di sospirare. «Ora però direi che è meglio procedere. Ancora due prove e sarai libera, Clara.»
Se le sue parole avevano avuto lo scopo di rincuorarmi, non ci riuscirono. Sarei stata sollevata solo nel momento in cui sarei uscita da Limbo ancora tutta intera.
Con un po' di fatica mi rialzai, ma quando feci un passo avanti il bosco svanì nel nulla e il rumore di un clacson mi assordò i timpani. Potei solo indietreggiare di scatto, con la bocca spalancata e un urlo a mezza voce, prima che una macchina mi tagliasse la strada.
D'improvviso di fronte a me c'erano delle strisce pedonali, più avanti un semaforo e poi, in fondo, la fermata del tram numero 9. Ero tornata a Torino, nel luogo in cui Samuele mi aveva spinto nel passaggio dimensionale, l'ultimo posto che avevo visto prima di trovarmi intrappolata a Mar-dröm. Nel riconoscere i contorni delle cose a me familiari sentii la rabbia salire e non mi fu difficile comprendere cosa sarebbe successo dopo.
E infatti, d'un tratto, proprio nel punto in cui io lo avevo aspettato, preoccupata per lui, ecco comparire il mio ex, con una di quelle sue stupide t-shirt, i jeans rovinati e gli anfibi ai piedi. Era immobile di fronte al parco, che mi fissava. La rabbia che avevo provato si tramutò in un impulso così forte che faticai a controllarla. Se quella era la prova dell'Ira, il risultato era già molto chiaro.
Ignorando il semaforo e le automobili mi buttai in mezzo alla strada, camminando a passo spedito. Le macchine continuarono a transitare, ma io vi passavo attraverso come un fantasma. Non le guardai nemmeno, i miei occhi erano tutti per Samuele.
Mi sorrideva.
Faceva solo quello, un lieve sorriso appena accennato agli angoli della bocca.
Come osava?
I miei passi si fecero più pesanti. Descrivere quello che provavo è difficile, mi sentivo ottenebrata dall'odio come mai prima in vita mia lo ero stata; più mi avvicinavo più tutto l'astio che avevo tenuto dentro si amplificava: ogni istante passato piangendo, ogni incubo che per essere dimenticato mi aveva costretta a drogarmi, il ricordo di ogni promessa che aveva infranto quando aveva deciso di distruggere la mia vita, come se la sua fosse stata più importante. Tutte queste cose, tutte le emozioni contrastanti che avevo provato, si amalgamarono in una sola, grossa, palude di rabbia, fino al punto in cui l'unica cosa che riuscivo a pensare era di fargli male. Lo desideravo talmente tanto che iniziai a tremare.
Sapevo che si trattava di un'illusione, Samuele non era realmente lì, ma non mi importava: quello che era successo due notti prima era ancora troppo fresco per poter essere ignorato e il suo tradimento troppo doloroso per poter essere dimenticato. Non avevo pensato alla possibilità di vederlo, all'interno delle prove, ma adesso mi rendevo conto di essere stata stupida. Avrei dovuto aspettarmelo, la sua faccia era l'ultima cosa che avrei voluto aver parata davanti, era perciò palese che l'avrebbero usata per testarmi.
A poco a poco, falcata dopo falcata, lo raggiunsi, il respiro sempre più affettato e la testa sempre più leggera. Avevo le orecchie che andavano a fuoco e sentivo la faccia bollente; se avessi iniziato a fumare non me ne sarei stupita. Prima di allora non avrei mai pensato che fosse possibile provare una tale ira nei confronti di qualcuno, mi tremavano persino le dita all'idea di stringerle attorno al suo collo.
Quando non fui che a due passi da lui, Samuele sollevò una mano e mi salutò. Il suo sorrisetto si aprì in un vero e proprio sorriso a trentadue denti, come fosse felice di vedermi. Io, per tutta risposta, gli tirai un pugno.
Senza un suono Samuele si accartocciò a terra e io iniziai a prenderlo a calci.
Sì, era un'illusione, ma accidenti se fu soddisfacente.
«Brutto stronzo» sibilai, colpendolo appena sotto al mento. «Non sai cosa faresti senza di me, eh?» mi chinai, lo afferrai per il colletto della maglia e lo sollevai senza fatica, cosa che nella realtà non avrei potuto fare. Non a mani nude, almeno. «Lo vedo» gli sputai in faccia. «Mi hai spinta qui al posto tuo!» e accompagnai l'ultima parola con una testata. Questa io però la sentii.
Samuele non rispondeva, forse perché era solo un parto della mia mente, o forse perché non ero sicura di come il vero lui avrebbe risposto, ma la realtà era che non mi interessava. Nessuna parola che avrebbe potuto dire mi avrebbe reso capace di perdonarlo.
Lo fissai in silenzio per qualche istante, lui fece lo stesso, e i suoi vitrei occhi verdi e l'espressione smarrita mi fecero arrabbiare ancora di più. Con una spinta lo buttai in terra di nuovo e, sovrappensiero, feci qualcosa che mi stupì: in un gesto automatico chiusi le mani ad artiglio e le mossi davanti a me, prima di ruotarle. Stavolta l'illusione emise un grido, alimentando la mia rabbia.
Tirai indietro le mani e quasi contemporaneamente dal corpo di Samuele iniziò a defluire il sangue: nel suo addome c'erano due buchi, da cui uscivano spessi fili cremisi. Quando muovevo le dita, questi seguivano i miei gesti, come fossero guidati da me. Mi permisi allora di immaginare che avessero la forma di una lama e che si conficcassero nel suo collo. Il sangue, come se il mio fosse stato un ordine, obbedì, assumendo l'aspetto di tanti punteruoli affilati che – con una rapidità che a tratti mi spaventò – si girarono verso Samuele e lo colpirono.
E così com'era iniziata, l'illusione svanì.
Senza fiato caddi a terra e mi portai una mano al petto. Il mio cuore batteva all'impazzata, come avessi corso una maratona. Sollevando il capo scoprii di trovarmi di nuovo nel bosco, identico a quello che avevo lasciato quello stesso mattino. Se gli alberi non fossero stati neri e il cielo non fosse stato indaco, avrei pensato di essere tornata indietro.
«Ho... passato la prova?» chiesi.
«Hai scelto» rispose il Guardiano.
«Sono una brutta persona se dico che è stato veramente soddisfacente?»
«Ognuno ha i propri Peccati, Clara. Qui non giudichiamo nessuno.»
Mi alzai, un po' traballante sulle gambe, e rivolsi un sorriso debole al cielo, mormorando un «grazie» poco convinto. Avevo lo stomaco contorto, ma la maggior parte della rabbia che per mesi avevo tenuto sopita dentro di me era sparita. Mi sentivo più leggera, seppure l'odio e il desiderio di vendetta fossero ancora al loro posto. Era stato liberatorio e il modo in cui il sangue si era lasciato guidare da me mi aveva deliziata. Se significava questo, essere un'Artista del Sangue, allora non faticavo a capire Arko.
Anche se un po' distratta, mi incamminai per l'ultima prova.
Tornare nel luogo in cui mi ero trovata solo poche ore prima non fu solo bizzarro, ma anche particolarmente inquietante. Mi guardavo attorno convinta di veder spuntare da un momento all'altro il ragazzo con le corna, giunto per finire ciò che aveva iniziato, ma il bosco rimase calmo e dannatamente silenzioso.
«Guardiano?»
«Dimmi, Clara.»
«Quale Peccato manca?»
Rimase zitto per un po', poi la sua voce disse, con tono grave: «L'Avarizia.»
Fu quando l'ultima lettera della parola si fu spenta che uno schiocco riecheggiò nella foresta, accompagnato da uno svolazzare e gracchiare di corvi. Li vidi a una decina di metri da me, si librarono nell'aria con le loro ali scure e, dietro di loro, apparve lui.
Vestiva sempre di nero e i suoi capelli rossi erano più lucidi e folti alla luce del giorno. Mi dava le spalle e non accennava a muoversi, ma questo non mi tranquillizzò. Invece di andare avanti indietreggiai, sul punto di voltarmi. Mi trattenni all'ultimo solo perché il colore del cielo mi ricordava dove mi trovavo.
«G-Guardiano?» stavolta la mia voce vibrò. «C-che cosa devo fare?»
«Devi affrontare la prova.»
Mandai giù la saliva a fatica, pensando di fare un passo avanti, ma quando stavo per farlo scossi la testa e indietreggiai ancora. Mi leccai le labbra. «No, non posso.»
«Sì che puoi.»
«No, io non...»
Mi interruppe: «Se non affronti la prova dell'Avarizia fallirai» disse semplicemente, in modo più diretto del solito, prima di avvalersi del silenzio. Questo, tuttavia, fu abbastanza: mi tornò alla mente perché mi trovavo lì, perché non potevo fallire, e ciò mi diede il coraggio di avanzare – passo dopo passo – per quei dieci metri che ci separavano. Arrivata a poco meno di un metro da lui mi fermai, ma il ragazzo non si mosse. Quando parlò, mi dava ancora le spalle.
«Benvenuta alla tua ultima prova» esordì. La sua voce era la stessa che avevo già sentito, ma in qualche modo era anche diversa. Non aveva quella punta cantilenante, niente accenno di follia, era... normale. «L'Avarizia è stata selezionata come tuo ultimo Peccato poiché ragione del tuo giuramento.» Deglutii ma non risposi. «Per superarla dovrai rispondere alle domande che io, ragione della ragione, ti porrò.»
Dopo questo tacque e io attesi. Quando capii che non avrebbe detto nient'altro, mi trovai a mormorare un: «Va bene...»
«Questa volta ti sarà concesso di mentire e sarà tuo compito dire solo la verità. Se lo farai, avrai dimostrato d'essere degna. Se invece fallirai, la tua anima sarà destinata a vagare a Limbo per l'eternità. Senza riposo, senza pace, senza via d'uscita alcuna. Cerca dentro di te e trova la risposta giusta.» Fece una pausa. «Tutto chiaro?»
Ignorai la stretta allo stomaco. «Sì.»
«Clara Romano, perché dovrei farti vivere?»
Non nascondo che la domanda, sul momento, mi spiazzò. Mi sarei aspettata qualcosa che avesse più a che fare con il Peccato in sé, e quando feci per aprire bocca per chiedere delucidazioni, lui mi bloccò: «Puoi rispondere solo con la risposta giusta. Non sono ammesse domande. Tu conosci la risposta, Clara Romano.»
Serrai le labbra l'una contro l'altra.
L'Avarizia era stato il Peccato che mi aveva spinta a votarmi al Dio Senza Occhi, quella voglia bruciante di vivere che avevo trovato solo vicina alla morte. La risposta che mi veniva in mente era una sola. Non c'era niente a Mar-dröm per cui valesse la pena restare: ciò che io desideravo era tornare a casa e dare atto alla mia vendetta, così da poter tornare alla mia esistenza di sempre, con mamma che preparava biscotti alla cannella, papà che rincasava alle cinque portandomi lattine di Coca Cola e Francesca che se ne stava stesa sul divano a disegnare cose che non capivo. Volevo tornare alla mia camera, agli scaffali di libri che non avevo ancora letto, alle lingue che non avevo ancora imparato, alle canzoni che altrimenti non avrei più potuto ascoltare. A Mar-dröm non c'era niente per me, niente per cui valesse la pena vivere, ma al contempo avevo ancora qualcosa per cui valeva la pena non morire. E io me lo meritavo, dannazione, mi meritavo di vivere.
L'illusione che indossava il corpo del ragazzo con le corna aspettava.
Tentennai ancora un po', battendo il piede a terra e mordendomi il labbro. Avevo un solo tentativo, non potevo sbagliare. Fui anche tentata di chiamare il Guardiano, ma lui non avrebbe potuto rispondere per me, né aiutarmi. Dovevo cavarmela da sola.
Mi feci forza e, prendendo un respiro così profondo da sentire una fitta ai polmoni, risposi soltanto: «Perché me lo merito.»
Lui inclinò il capo, senza girarsi. «Interessante risposta.» Fece una pausa e poi disse: «E dimmi, perché pensi di essere degna di diventare un'Artista?»
Anche stavolta rimasi incerta, ma mi costrinsi a tenere i miei dubbi per me. Questa domanda era più difficile della precedente. Io non volevo diventare un'Artista, non letteralmente, era solo un effetto collaterale.
«Io...» guardai il terreno ai miei piedi, muovendo gli occhi convulsamente alla ricerca di una risposta, che però non c'era. Perché pensavo di esserne degna? «Io...» biascicai di nuovo, poi mi rassegnai. Emisi un sospiro e mi portai le mani agli occhi. «Non lo so» replicai. «Non credo di esserlo. Ho donato la mia anima perché era l'unica soluzione per non morire, l'unica che mi avrebbe dato la protezione e il potere che mi servono per sopravvivere.»
«Interessante» rispose di nuovo lui, e poi, lentamente, iniziò a voltarsi. Io trasalii, ma un terrore ben più profondo mi invase quando, al posto del volto misterioso del ragazzo con le corna, mi trovai a scrutare il vuoto, un vortice nero che girava su se stesso nel punto in cui invece avrebbe dovuto esserci una faccia. Non aveva occhi, non aveva naso, non aveva una bocca con cui poter parlare. Eppure, questo non sembrava fermarlo, poiché la sua voce disse: «Ti ringrazio per la tua sincerità, Clara Romano.»
Il mio viso si accartocciò in un'espressione di raccapriccio.
Lui ignorò il mio disgusto e allungò il braccio in direzione degli alberi. Il sottobosco, con un fruscio e uno svolazzare di foglie, si aprì per mostrarmi un tunnel immerso nelle ombre. «Prego» aggiunse infine, «raggiungi il tuo posto al fianco del Dio Senza Occhi.»
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Betaggio a cura di Octavia_Stokercrow
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