04. Tears and Flames
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"Half" - PVRIS
Nel momento in cui il signor Pargo mi vide spuntare sull'entrata, il sorriso che stava rivolgendo a una cliente si spense. I suoi occhi verdi diventarono di ghiaccio e la sua espressione più affilata del solito. Dedussi che non doveva essere arrabbiato, ma furioso.
Congedando la donna mi fece cenno di avvicinarmi al bancone – dove avrei dovuto esserci io, non lui – e non appena fui abbastanza vicina mi arpionò il braccio; le sue dita, lunghe e gelide, strinsero fino a farmi male. «Signorina Clara, spero abbia una valida spiegazione» sibilò a pochi centimetri da me, senza però distogliere l'attenzione dalla clientela.
«Io...»
Lui non mi ascoltò. «Signori» esclamò, rivolgendosi alle strane creature che ci fissavano senza emozione, «mi duole comunicarvi che il negozio chiuderà per breve tempo. Riapriremo a seguito della pausa pranzo!» Poi, con un colpo di tosse aggiunse: «Tuttavia posso assicurare che il vostro numero di arrivo rimarrà invariato!» Schioccò indice e pollice della mano destra e tutti i clienti si trovarono un numero impresso sulla fronte. «Ora sciò.»
Mastro Pargo attese che tutti se ne andassero, chi borbottando e chi sbuffando, e non appena anche l'ultimo cliente fu sparito lui mosse una mano verdognola nell'aria e la porta sbatté. Le persiane si abbassarono di colpo, facendo cadere il negozio nell'oscurità. Una lampada da lavoro si accese da sola di fianco a noi.
«Dove accidenti eri, Clara?!» sibilò di nuovo, voltandosi verso di me con un livore che mi avrebbe fatta indietreggiare, se lui non mi stesse ancora trattenendo. «E perché sei senza vestiti?!»
Boccheggiante lo scrutai senza capire. Non mi aveva mai dato del tu, prima d'ora, né aveva mai usato un linguaggio così umano. «Io... sono stata inseguita. Penso che mi abbiano drogata, non lo so, e...»
«Ho atteso tutta la notte che tornassi. Tutta, Clara. Sono stato sul punto di venirti a cercare.» La sua voce era arrabbiata, ma scrutandolo sotto alla luce aranciata vidi che i suoi occhi erano lucidi. Sul momento faticai a crederci: si era preoccupato per me.
«Non è stata colpa mia, mi devi credere!» asserii. «Sono svenuta, ho solo fatto in tempo a ripararmi dentro un chiosco crollato prima di perdere i sensi. L'aria nella zona in rovina aveva qualcosa di strano, e prima che me ne rendessi conto sono rimasta intrappolata.»
Pargo portò entrambe le mani sulle mie spalle, stringendole delicatamente, e chinò il capo con le palpebre chiuse. Sospirò e vidi la confusione sul suo volto leonino. «Per quanto tempo ha fatto effetto?»
«Mi sono svegliata che era già notte.»
Lui riaprì gli occhi. «Dannazione» imprecò. «Hai avuto davvero fortuna, Clara, saresti potuta morire. È un male essere fuori di notte! Te l'ho insegnato!»
«Non è stata colpa mia!» protestai. «E comunque non è finita qui» mi costrinsi ad aggiungere dopo pochi secondi, seppur riluttante, poiché non potevo ignorare quello che era successo.
«Cosa intendi?»
Stavolta fu il mio turno di chiudere gli occhi e sospirare. Non appena lo feci, però, l'immagine della ninfa impalata si palesò nel nero dietro alle mie palpebre, mozzandomi il respiro. Pargo dovette notarlo, ma non disse niente, né fece qualcosa, semplicemente rimase immobile con le mani sulle mie spalle in attesa che parlassi. Quando fui abbastanza sicura di non star tremando gli raccontai tutto, dall'inizio alla fine, scendendo nei particolari perché ero convinta che – se fossi stata precisa – lui avrebbe potuto riconoscere la creatura di cui si trattava.
Non appena la mia voce si spense e le mie parole svanirono nel silenzio di casa nostra, le mani di Pargo scivolarono via dalle mie spalle e lui si allontanò da me, osservandomi con gli occhi sgranati. Se non lo avessi conosciuto, avrei giurato che fosse terrorizzato da me: si muoveva piano, indietreggiando con gesti meccanici, senza staccare lo sguardo dal mio, come se un movimento troppo veloce avesse potuto ucciderlo. Alla fine scosse la testa, aprendo e chiudendo le labbra, e si lasciò cadere sulla sedia alle sue spalle.
«No, non può essere» mormorò flebilmente, o almeno credo abbia detto questo.
«Cosa, Pargo?» dissi, portandomi le mani al petto. Nel palmo ancora stringevo il biglietto che mi aveva dato Gizelle. «Cosa?» questa volta la voce mi tremò, portandomi a fare un passo avanti per riuscire a controllarmi dallo schiantarmi a terra. Pargo balzò indietro sulla sedia.
«Non avvicinarti!» mi gridò.
«Cosa...» La confusione mi fece girare la testa. Non ci stavo capendo più niente e la paura che da ore stavo tenendo appallottolata da qualche parte dentro di me stava adesso dimenandosi per essere lasciata libera.
«Hai incontrato la Morte, Clara, e ti ha marchiata.»
Le parole che avrei voluto pronunciare rimasero incastrate nella mia gola. Sono certa che i muscoli della mia faccia si mossero convulsi senza che io li controllassi, e che una lacrima mi cadde lungo la guancia, ma ero talmente presa da quello che aveva detto da non sentirmi più parte del mio corpo. «N-non capisco» mormorai. «C-conosci il ragazzo che ho incontrato?»
Pargo chinò il capo e distolse lo sguardo, come se osservarmi gli provocasse dolore. «Clara... ricordi come la zona in rovina è diventata tale, vero?»
«Io... sì» scossi il capo, perplessa. «Gli abitanti sono impazziti e hanno aperto porte e finestre, si sono letteralmente suicidati. Nessuno sa perché.»
Pargo negò con la testa. «Si chiamava Quartiere delle Sete, una volta. Il mio migliore amico ci viveva.» Fece una pausa, trattenendo quello che mi sembrò un singhiozzo, e riportò gli occhi su di me. «E loro non si sono suicidati, è stato quel ragazzo. Capelli rossi, corna da diavolo e volto nascosto nell'ombra. È stato lui a spingerli ad aprire le case alla notte e farsi uccidere.» A quella nuova scoperta il mio cuore saltò un battito e io dovetti appoggiarmi al bancone per non cadere. «Nessuno può sconfiggerlo, Clara. E se è tornato, un'altra strage incombe su di noi.»
«Ma io...»
«Non so perché non ti abbia ucciso, forse era già sazio... ma se ti ha promesso che verrà per te, allora lo farà.» Pargo chiuse le labbra in una linea sottile, quasi gustando quelle parole amare, poi le riaprì e disse: «E se è così... allora non posso permetterti di rimanere qui. Questa casa non lo fermerà e io non voglio avere nulla a che fare con questa storia. Non di nuovo.»
Con un brivido, lo shock lasciò il posto alla rabbia. «E cosa diavolo dovrei fare, io, secondo te?!» urlai. «Non ho un altro posto in cui andare!»
Lui inspirò profondamente, sollevò il mento e mi scrutò con l'espressione più gelida del suo repertorio. «Non è un mio problema. Qui non puoi restare. Hai un'ora per raccattare le tue cose e andartene.» Dopo aver parlato Mastro Pargo si alzò, fissò lo sguardo sul pavimento e mi superò con una spallata, diretto alle camere da letto, lasciandomi sola nel negozio deserto.
La mia vita a Mar-dröm si limitava al mio letto sfatto, al telaio su cui lavoravo e ai pochi abiti grigi o neri che Pargo aveva preso per me quando ero arrivata. La maggior parte di questi ultimi erano vestiti, che con la loro lunga gonna informe mi avrebbero solo intralciata, e che quindi avevo deciso di lasciare lì. Nello zaino dal tessuto rovinato che il vecchio mi aveva lanciato addosso dalla porta della sua stanza infilai una delle due paia di pantaloni neri, un maglione che avrei usato come coperta, alcune bende fatte con un vestito strappato, del cibo e dell'acqua.
Addosso misi una maglia, cui sopra indossai una camicia grigia, la meno leggera che avevo. Pargo mi diede un panciotto, alla vista parecchio usato, e un tabarro verde scuro dal tessuto spesso, che mi avrebbe protetto dal freddo. Ai piedi tenni i miei stivali.
A preparare tutto ci misi meno di dieci minuti e passai i restanti quaranta a fissare quella che non sarebbe più stata la mia stanza, seduta sul letto con la schiena curva e le mani strette fra le ginocchia. Posai lo sguardo sulla finestra, maledicendo la creatura che stava rovinando quel poco di vita che mi ero ricostruita, sull'armadio ancora pieno ma inutile, sulla lampada vecchia e, infine, sul telaio. Quando le mie iridi chiare vi si incollarono non fui più in grado di trattenere le lacrime.
Bollenti, sgorgarono come un fiume, percorrendomi il viso e cadendo sui vestiti. Ero terrorizzata, la Morte stava giocando con me, non avevo più un posto dove vivere e – la cosa che più mi faceva star male – non avrei più potuto creare sogni. Se Mar-dröm mi aveva dato qualcosa di buono, questo era il mio lavoro: avevo scoperto una passione che sulla Terra non poteva esistere, una capacità che mia sorella, Samuele o i miei amici non avrebbero potuto sperimentare. E con la stessa facilità con cui mi era stata data, mi era anche stata strappata via.
Era la specialità di Mar-dröm, riprendersi più di quanto ti aveva donato.
E mentre le ultime lacrime bruciavano il mio viso e le mie dita cercavano inutilmente di asciugarle, finendo solo per peggiorare la situazione, sperai che quel mondo malato bruciasse, che tutti coloro che erano stati crudeli nei miei confronti avessero quel che si meritavano, che il ragazzo con le corna decidesse di aggiungerli tutti alla sua collezione.
Se fossi morta, loro dovevano seguirmi.
Non so quanto tempo di preciso passai a piangere in camera, bramando qualcosa che non avrei più posseduto, prima che mi stancassi e decidessi di andarmene. Non so nemmeno che ora fosse, fatto sta che il negozio era ancora vuoto e Pargo sedeva silenzioso dietro al bancone, rigirandosi un oggetto fra le dita. Non gli diedi attenzione, dribblandolo senza guardarlo e dirigendomi all'uscita.
Tuttavia, Pargo non sembrava volermi lasciar andare via così e prima che potessi afferrare la maniglia mi bloccò. «Aspetta, Clara» mormorò, ma abbastanza alto perché io lo sentissi.
Non mi girai. «Che vuoi?»
Rimase in silenzio per qualche istante, tanto che pensai che non avrebbe più detto niente, ma dopo quasi un minuto sentii lo scricchiolio della sedia e lui tossire. «C'è una cosa che voglio che tu prenda.»
«Tienitela. Non la voglio.»
«È importante» replicò lui.
Lasciando la maniglia mi voltai verso di lui. «Non me ne frega un cazzo se è importante» sputai. «Vaffanculo tu, vaffanculo quel bastardo con le corna e vaffanculo pure a questo mondo di merda» a ogni parola alzai di più il tono della voce, fino a mettermi a strillare. «E soprattutto vaffanculo a quello stronzo del mio ex, ci sarebbe dovuto finire lui, qui, non io!» mi sbattei un indice sul petto per rinforzare il concetto. Mentre gridavo tenevo gli occhi fissi su Pargo, il quale sembrava invece estremamente triste. Meglio. Soffrire per quello che stava facendo era il minimo.
«Clara...»
«No, Clara un cazzo! Mi stai cacciando perché hai paura, ed è normale avere paura, guarda me, sono terrorizzata!» spalancai le braccia, sperando che la luce della lampada illuminasse il mio viso. «Ma la paura non è una scusa per comportarsi in questo modo, mi stai cacciando dall'unico posto sicuro che ho, costringendomi a dormire fuori di notte» sibilai, puntando lo stesso indice verso di lui. Avevo ancora la faccia umida, non ero stata capace di smettere di piangere e sentivo di stare per ricominciare, stavolta in modo ancor più violento perché queste non sarebbero state lacrime di tristezza, ma di rabbia, di odio.
«Restare qui non ti salverebbe» rispose con tono basso e abbattuto. «Condannerebbe solo me a seguire la tua fine.»
Non riuscii a trattenere una risatina amara a mezze labbra. «Dovevo immaginare che il karma sarebbe tornato indietro» bisbigliai, non così forte da essere sentita, ma lui udì comunque.
«Non avresti potuto fare niente per quella ninfa, come io non posso fare niente per te» si giustificò. «La Morte è una forza troppo grande per essere controllata o fermata. Quel mostro è qualcosa che nemmeno io mi so spiegare e sinceramente, per quanto possa tenere a te, Clara, tengo di più alla mia vita.» Mastro Pargo abbassò la testa e la scosse piano, prima di allungare il braccio e spingere verso di me l'oggetto che aveva in mano. «Prendilo. È il minimo che posso fare per te.»
Lo scrutai in silenzio, la vista annebbiata dal pianto, ferita e arrabbiata ma abbastanza lucida da essere razionale: Pargo non mi stava cacciando per farmi del male, era solo una creatura debole, spaventata ed egoista. Non potevo chiedere di più da lui.
Avanzai a passi pesanti, ma muovendomi come se il mio corpo fosse estremamente leggero. Mi piazzai davanti a lui, «Cos'è?»
«È un amuleto» mi spiegò senza distogliere lo sguardo dal mio, «santificato con la protezione del Dio Senza Occhi. Lo so perché gliel'ho fatto santificare io, quando ancora ero un ragazzino. È questo che mi ha protetto, in tutti gli anni in cui ho vissuto nella Mar-dröm notturna.»
Non credevo sarebbe stato possibile, ma con quelle poche parole mi spensi.
«Oh» mormorai abbassando gli occhi sull'oggetto, una collana dal cordino di cuoio e con un cioondolo grosso quanto il mio palmo. Aveva il colore del marmo, coperto di venature nere, e rappresentava un occhio aperto. L'iride mancava, come a simboleggiare la cecità del dio, e varie decorazioni nella lingua di Mar-dröm ricoprivano lo strato della palpebra. «Ma è...»
«Mi ha salvato la vita in più occasioni. Purtroppo non riuscirà a proteggerti da quell'entità, è troppo forte per essere scacciata da un ninnolo... ma ti renderà invisibile agli occhi delle creature della notte e potrai viaggiare sicura... ovunque deciderai di andare» mi spiegò.
Allungai le dita ma prima di toccare l'oggetto mi fermai e tirai indietro il braccio. «Perché vuoi darmelo?»
«Perché hai ragione, mi sto facendo controllare dalla paura e dall'egoismo, ma tu qui non puoi restare. E da parte mia, consegnarti questa collana è il minimo che posso fare. Spero che il Dio Senza Occhi possa salvarti, Clara, lo spero davvero.»
Con un respiro lento feci uscire uno sbuffo dal naso, poi chiusi le palpebre, tenendo dentro quello che provavo. La rabbia era scemata nello stesso modo in cui era giunta e adesso non mi restava che un grande vuoto, un'entropia che rischiava di inghiottirmi una seconda volta, ma che in passato mi aveva insegnato come proteggere me stessa. Non mi sarei fatta abbattere, stavolta, perché abbattersi avrebbe significato la morte, e almeno un tentativo per salvarmi dovevo farlo. Magari sarebbe stato vano, ma avrei reso il ricordo che avevo di Francesca fiero di me. Tempo per ricominciare a piangere lo avrei avuto non appena avessi trovato un luogo in cui dormire.
Sospirai, poi riaprii gli occhi. «Perché lo fai?» Pargo mi guardò confuso. «Perché mi hai preso sotto alla tua ala? Nessuno al tuo posto lo avrebbe fatto. Ma tu sembri... volermi bene.»
Lui mi sorrise triste, «Perché è così, Clara. Sei una ragazza di un altro mondo, ne ho visti tanti come te finire qui, alcuni anche per colpa mia, e nessuno è mai sopravvissuto a lungo.» Fece una pausa, «È vero, molti non lo avrebbero fatto, non senza chiederti nulla in cambio, ma io ho visto atrocità che ti auguro di non vedere mai, e non potevo lasciare che ti prendessero. Eri sola, senza conoscenze su Mar-dröm, e troppo buona per questo mondo. Dovevo aiutarti.» Tacque d'un tratto, deglutendo a fatica, poi aggiunse: «Ti voglio bene, Clara, sei una brava ragazza.»
Mi sentii dannatamente in colpa.
Feci un passo indietro, poi due in avanti. «Scusa per prima, Pargo, io...»
Lui mosse la mano per scacciare le mie parole, afferrò la collana e fece il giro del tavolo. «Non avevi tutti i torti, sono stato troppo duro» disse soltanto, nello stesso momento in cui mi metteva il ciondolo al collo. Prima che potessi reagire, però, annullò la distanza che c'era fra noi e mi strinse in un abbraccio. Per vari secondi non feci nulla, fissando con gli occhi aperti il vuoto, scioccata dal suo gesto. Non mi aveva mai dimostrato affetto in modo così esplicito.
Alla fine riuscii a muovermi e a ricambiare prima che si scostasse.
Una volta finito l'abbraccio, il mio vecchio Mastro mi guardò con espressione dolcemente triste e mi carezzò la guancia. Quello era il suo addio, lo sapevo. Io non dissi niente, mi limitai ad annuire a occhi bassi, gli diedi le spalle e aprii la porta. La luce del giorno, in contrasto con il buio del negozio, mi ferì gli occhi, ma non mi fermai. Tuttavia mi girai, prima di chiudermi l'uscio alle spalle, per guardare un'ultima volta il signor Pargo. Dopodiché, me ne andai.
Durante il tragitto non fui evitata come avrei voluto, magari per come vestivo o per la luce disperata nel mio sguardo, fatto sta che contai ben undici approcci. Quattro da ibridi, uno da una ragazza albero, due dalla stessa ninfa – che evitai come la peste –, un altro da un fauno, uno da uno gnomo e gli ultimi due da tre uomini-pianta (uno ricoperto di edera e gli altri due con le felci al posto dei capelli). Li cacciai tutti in malo modo, abbaiando furiosa di starmi lontano e che i loro doni potevano metterseli in posti ben precisi.
La collera era tornata sotto controllo, ma i loro tentativi mi facevano perdere le staffe, poiché l'unica cosa che volevo era un po' di calma e di silenzio per rimuginare su cosa fare ora, sul modo giusto per salvarmi la pelle.
Avevo deciso che restare in città era fuori discussione, sicché il ragazzo dai capelli rossi sembrava amare la capitale in modo parecchio compulsivo, e pensai che allontanarmi avrebbe potuto darmi un po' di vantaggio. L'unico problema era il fatto che non sapevo nulla del mondo esterno alla capitale e perciò la mia unica speranza era raggiungere Raka e Gizelle e viaggiare con loro. Sì, le avrei messe in pericolo, ma contavo di lasciarle allo scoccare della seconda alba, magari prima.
Come detto, però, trovare la locanda non fu affatto facile. Vagai per quelle che credo siano state due ore, sbagliando strada più volte ma rifiutandomi di chiedere indicazioni. Non volli usare il biglietto datomi da Gizelle, perché poteva tornarmi utile in futuro – senza contare che non sapevo dove trovarlo, un fuoco in cui bruciarlo.
Arrivata a destinazione, l'ora di pranzo era da poco passata. I più ritardatari stavano uscendo dalle case e dai ristoranti per tornare al lavoro e pregai che le due ragazze non fossero già partite.
Sgomitando fra la calca mormorante e tappandomi il naso alle zaffate di birra scadente mi trascinai fino al bancone, alto e di legno consunto, dove una signora in carne stava sparecchiando. La sua pelle era di un fucsia acceso, che alla luce soffusa del locale sembrava ancor più scura, e sulla fronte si alzavano due corna da cervo, che non raggiungevano i cinque centimetri di lunghezza, scheletriche come ramoscelli. Lunghi capelli neri le scendevano ai lati del volto.
«Salve» dissi, poggiandomi al banco.
«Se vuoi mangiare sei in ritardo.»
«Non sono qui per pranzare» replicai. «Sto cercando due amiche viaggiatrici, una donna cervo e un'ibrida dai modi molto freddi. Mi hanno detto che avrebbero pranzato qui e...»
«Le hai perse» intervenne la voce di un uomo, «sono già andate via.» Quando mi voltai, feci un balzo all'indietro, imprecando a bassa voce. Sul bancone, al mio fianco, c'era un topo. Aveva la stazza di un cane di taglia media, sguardo estremamente umano e un grembiule da macellaio. Mi scrutava dritto in faccia, con quegli occhietti vispi, le guance rotonde e il pelo marrone. Se notò il mio spavento non ci parve dare importanza.
«Da quanto?» domandai con voce forzata, deglutendo il mio disgusto.
«A dir la verità hanno mangiato prima rispetto agli altri, quando la locanda si è riempita loro erano già uscite.»
«Sapete dove erano dirette?» Entrambi scossero il capo. Li ringraziai comunque, poi uscii di nuovo alla luce del sole. Mi guardai attorno con le mani sui fianchi, sperando che in qualche modo fossero ancora lì. Ma come mi aspettavo non c'era quasi più nessuno nei paraggi.
Mi passai la lingua sull'arcata superiore e scuotendo il capo mi arresi a prendere il biglietto dalla tasca dei pantaloni. Lo osservai indecisa, scrutando la carta bianca come se potesse darmi qualche indizio. Dopodiché tornai dentro al locale e chiesi ai locandieri se potevo sedermi vicino al fuoco. Loro mi indicarono senza troppo interesse il camino in fondo alla sala, attorniato da tavoli, dove dei ciocchi ancora bruciavano scoppiettanti. Quando feci per avviarmi, il topo mi fermò. «Ehi, ehi, ragazzina! Non credere che sia gratuito!» con sguardo scocciato la creatura indicò il tabarro che indossavo. «Se tu vuoi il mio fuoco, io voglio quello.»
Emisi un verso sconvolto. «Scusate, ma questo mi serve.»
Il topo sbuffò e roteò gli occhietti. «Allora niente fuoco» commentò con tono acido.
Aprii la bocca per protestare, ma la richiusi quando capii che era inutile. La donna, ancora scrutandomi con quello sguardo duro, mi indicò la porta e mi fece cenno di uscire. Mi ci diressi senza riuscire a celare una certa rabbia e quando fui di nuovo fuori mi scrutai attorno una seconda volta; ma il paesaggio che mi aveva accolta prima non era cambiato, se non per l'aspetto ora ancor più deserto. Il cielo si stava rannuvolando pian piano e le mie possibilità si abbassavano proporzionalmente.
Voltando il capo verso l'entrata buia della locanda, ebbi un'idea tanto stupida quanto geniale. Tutto dipendeva dalle mie capacità furtive.
Tossii piano, rivolsi un saluto con la mano ai locandieri e feci finta di allontanarmi lungo la strada. In realtà mi fermai appena fui fuori portata d'occhio e, a passo leggero, mi accostai alla parete frontale dell'edificio, acquattata per evitare di essere vista dalla finestra. Contai minuto dopo minuto, scrutando di tanto in tanto dal vetro in attesa che i due locandieri si allontanassero.
Dopo un paio di minuti il topo scese dal bancone e lo vidi aprire e chiudere una porta secondaria. Rimaneva solo la donna, che purtroppo non sembrava decisa a schiodarsi di lì. Puliva bicchieri, piatti e posate con calma e concentrazione, mormorando una canzoncina sottovoce.
Dopo quelli che contai essere dieci minuti la porta secondaria si aprì e la voce del topo urlò qualcosa; non capii le parole, ma il tono era decisamente seccato. La donna smise di strofinare il bordo del bicchiere che stava pulendo e roteò gli occhi, prima di voltare le spalle all'entrata e rispondere urlando.
Senza pensare ne approfittai, scattando in avanti e, in qualche modo, riuscendo a non inciampare sul bordo del tabarro, rifugiandomi sotto al bancone. Solo un secondo dopo, la donna sbuffò e tornò al suo lavoro, borbottando delle lamentele.
Ero stupita dal fatto di essere riuscita nel mio intento, ma non mi lasciai sopraffare dal sollievo. Non era ancora finita.
Tornai a contare, stringendo la mano libera a pugno e con la convinzione che – se non avessi respirato più piano – mi avrebbero di certo scoperta. Tuttavia trascorsero altri quattro minuti, accompagnati da distanti tonf e i ding delle posate, e nessuno si accorse di me.
Fu allo scoccare del quinto minuto che, con un altro sbuffo, la donna sbatté di nuovo sul bancone e sussurrò: «Ma quanto ci sta mettendo?» Poco dopo sentii lo scalpiccio dei suoi passi che si allontanavano e la porta sbattere.
Ora!, urlai nella mia testa.
Facendo attenzione a non battere troppo i piedi corsi verso il camino acceso e con le mani sudate per l'ansia sollevai il biglietto fino al viso. Non mi lanciai un'occhiata alle spalle, quando sentii la porta riaprirsi, bensì allungai in fretta la mano e immersi la carta nel fuoco, quasi bruciandomi quando le fiamme attecchirono. Udii qualcuno urlare alle mie spalle, ma io lo ignorai e, portandomi in fretta il biglietto alle labbra urlai: «Gizelle!»
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Betaggio a cura di Octavia_Stokercrow e ElianaPi
Divisore commerciale creato da me, vietato rubare o riprodurre.
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