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01. Come and dance with me

Canzone nei media:
"Suckerpunch" - Delain

A Mar-dröm le strade non seguivano una fisica terrestre. Composte di grandi pietre non livellate, potevano procedere piane, inerpicarsi su pendii o inclinarsi nell'aria. Alcune si addentravano nella terra e chi le percorreva poteva passare attraverso l'erba come un fantasma.

Non avevo mai capito come ciò fosse possibile e finché avevo potuto mi ero tenuta lontana dal cielo, timorosa della possibilità di cadere. Samuele mi aveva fornito informazioni inutili, prima di spingermi dentro al vortice che mi aveva risucchiata lì.

Quel regno non sembrava avere nulla del pianeta che mi ero lasciata alle spalle e presto avevo capito di trovarmi molto, molto lontana da casa. Senza possibilità di ritorno. Il timore di essere morta e che quello fosse l'inferno tentava di turbarmi giorno dopo giorno, ma io preferivo non soffermarmici: già le notti erano difficili, quando nell'oscurità mi svegliavo di scatto, con le orecchie piene di pianti e la gola piena di urla. Non avevo bisogno di complicare anche le ore diurne.

Dal mio arrivo, secondo i calcoli, erano trascorsi circa due mesi. Di questo però non ero certa, dato che in quel luogo nemmeno le leggi del tempo sembravano seguire regole logiche. I giorni erano molto più lunghi di quelli sulla Terra e le notti potevano durare fino a settantadue ore. Una volta, il buio era calato su Mar-dröm ed era durato quasi una settimana.

Ciò che avevo appurato, però, da quando avevo iniziato a lavorare come Ritira-Sogni per il signor Pargo, lo smilzo e scheletrico vecchio che mi aveva offerto un posto dove dormire in cambio delle mie ore di veglia, era di doversi attenere a poche e semplici regole. Se fatto, potevi tenerti stretta la vita ancora un altro giorno.

La prima regola era di non uscire durante la notte. A Mar-dröm c'erano due tipi di esistenza: quella diurna, dove le stesse strane e crudeli creature che avevano accolto il mio arrivo gestivano le più disparate attività commerciali – c'erano Crea-Schiavi, Ossallieri, Cambia-paure, Cucitori di Facce e mille più –, e quella notturna. Durante la notte il regno si tramutava in qualcosa di ancor più oscuro e pericoloso e, se avessi avuto la sfortuna di trovarti all'esterno, era probabile non saresti arrivato all'alba seguente. Avvoltoi Neri, Ombre dall'Abisso, Invoca-Incubi e Ladri di vite erano solo alcuni esempi di ciò che si svegliava con l'oscurità, e nemmeno i peggiori.

La seconda regola era di non accettare favori. Questo l'avevo imparato a mie spese quando, appena arrivata, affamata e ricoperta di sangue, avevo accettato un tozzo di pane da una donna cervo, la quale mi aveva sorriso prima di svanire. Ero rimasta commossa dalla sua gentilezza, ferita dal tradimento di Samuele e rabbiosa all'idea che non mi avesse dato alcuna informazione su come rapportarmi al mondo in cui aveva deciso di spingermi al suo posto. Ma poi la donna cervo era tornata, qualche giorno dopo, e aveva preteso che le dessi i miei capelli. Tutti i miei capelli. E se mi fossi rifiutata, avrei dovuto cederle anche la voce. E così, mi ero trovata senza le mie lunghe ciocche nere, l'unica cosa a essermi rimasta, senza la possibilità di protestare. Dopo allora, ero sempre stata attenta ai doni che accettavo, prendendoli solo se necessario e non senza aver prima contrattato sul prezzo. Era stato il signor Pargo a farmelo capire, accogliendomi a patto che lo servissi senza essere pagata.

La terza regola era di non ostentare bellezza. A Mar-dröm tutto era bellissimo e crudele. Le creature che vi si trovavano spesso avevano un aspetto tutto fuorché umano, con lunghe orecchie dalle punte acuminate, pelle cangiante alla luce, bianca come il latte o nera pece, code animali o demoniache, spuntoni di ossa che uscivano dalla carne e corpi dalle forme spesso bestiali. Ma tutti, tutti loro, erano di una bellezza feroce e dolorosa. Io non ero mai stata una ragazza modello: mi impegnavo in ciò che facevo, studiavo quando dovevo studiare, ma non seguivo le regole dei miei genitori; non rientravo mai a casa prima delle tre del mattino, arrampicandomi sulla grondaia per non farmi scoprire, non mi piaceva restare sobria e soprattutto non ero pudica. Mi piaceva divertirmi con i ragazzi, ma nessun ragazzo umano che avessi mai baciato o toccato era bello come quelli di Mar-dröm, né irraggiungibile come loro, a meno che non volessi rischiare di trovarmi invischiata con il Quartiere delle Lanterne. Tutti lì erano coscienti della propria bellezza, nessuno che si trovasse a Mar-dröm non lo era – persino il signor Pargo aveva qualcosa di carismatico –, e anche io sapevo di essere bella. Ma più bello eri e più te ne vantavi, più doni ricevevi e più ti veniva portato via. Un giorno erano i capelli. Un giorno la voce. Un altro le gambe. E un altro ancora la faccia.

La quarta e ultima regola, ma la più importante di tutte, era di non incrociare la strada degli Artisti. Immortali e perfetti, gli Artisti avevano donato la propria anima alla sempre affamata divinità di Mar-dröm, il Dio Senza Occhi, che l'aveva divorata e dato loro in cambio poteri tanto terribili quanto maestosi. Le tipologie di Artisti erano tante, troppe da ricordare, e si distinguevano solo grazie al colore del mantello sotto cui si nascondevano, lo stesso del loro Peccato di appartenenza. Rosso per l'Ira, verde per l'Invida, bianco per l'Accidia, oro per l'Avarizia, viola per la Superbia, marrone per la Gola e nero per la Lussuria. Parlare a un Artista era vietato, a meno che questi non ti parlasse per primo, intralciargli la strada punibile con venti frustate e toccarlo era sinonimo di morte. Nessuno poteva interagire con loro né soprattutto guardare sotto il cappuccio, a meno di non voler mettere alla prova le dicerie sugli Artisti e certi cuori strappati. Personalmente ne ero affascinata, ma in una sorta di reverente terrore.

Per questo, quando un Artista del Sangue era venuto a chiedermi di creare un sogno per lui, avevo rischiato di infrangere ogni regola e fuggire dal negozio a gambe levate.

Mi aveva detto di chiamarsi Arko e mi aveva confessato che da tempo non riusciva a dormire a causa di ricordi tormentosi. Per questo, aveva preferito affidarsi al Ritira-Sogni più in voga di Mar-dröm.

«Si vocifera che nel regno sia arrivata la migliore Ritira-Sogni degli ultimi duecento anni» aveva detto, la bocca tirata in un sorriso appena oltre il bordo del cappuccio rosso. «E ho voluto recarmi da Mastro Pargo per conoscerla di persona e farle creare un sogno per me.»

Non avevo creduto alle mie orecchie, prima sorpresa nello scoprire di essere ritenuta la migliore del regno e poi estasiata dalle lusinghe dell'Artista. Ma alla fine, quando Arko se n'era andato e i clienti dai volti inespressivi lo avevano sostituito, il sorriso mi si era spento e un terrore strisciante mi era risalito lungo le giunture, fino ad annidarsi sotto all'orecchio destro. Se io ero la migliore, se tutti parlavano di me, allora mi stavo mettendo in mostra, stavo ostentando bellezza, e prima o poi qualcuno sarebbe venuto a portarmela via, forse con qualche dito come souvenir, per essere certo che non potessi più usare il mio talento. Ma abbassare la qualità dei miei servizi non era possibile, non se non volevo rischiare che Pargo mi buttasse fuori a calci nel bel mezzo della notte. Come avessi fatto a non rendermi conto prima della mia popolarità ancora mi sfuggiva.

E così, da quasi sei giorni, stavo lavorando al sogno di Arko.

Non avevo mai trascorso così tanto tempo su un sogno, solitamente li finivo in due o tre giorni al massimo, ma il destinatario non era un cliente comune e una vocina insidiosa mi diceva che, se avessi creato qualcosa che non fosse di suo gradimento, vi sarebbero state gravi conseguenze.

Alcune notti, quando i ricordi erano troppo forti e sembrava che Samuele potesse toccarmi oltre le fragili pareti dell'oscurità, mi svegliavo e mi sedevo a filare, per distrarmi con la dolce idea di compiacere Arko.

Questa era una di quelle notti.

Piegata in avanti, ero seduta sulla scomoda sedia di legno della mia camera da letto. Quando mi muovevo, le gambe e lo schienale emettevano cigolii sinistri, che riempivano il silenzio della stanza e si accompagnavano alle risate sfuggenti, ai sussurri lussuriosi di impalpabili fanciulle e ai graffi sul vetro della mia finestra. Con mio grande dispiacere non avevo mai visto la luna di Mar-dröm e la mia unica luce nelle cupe notti del regno era quella della mia lampada a olio arrugginita, ora poggiata sul comò dietro alla tela.

Le dita dolevano, rosse e gonfie, ma lì accartocciata con la gamba sinistra piegata continuavo a infilare perline negli aghi e a spostare fili e assi del telaio. Stavo rielaborando, forse per la quarta volta, lo sfondo. Arko mi aveva chiesto di dipingere la riva di un lago e seppure fossi cosciente che il mio lavoro era ottimo, avevo la forte impressione di star sbagliando tutto. Pochi a Mar-dröm avevano avuto l'onore di vedere laghi, mari o paesaggi diversi dalla foresta e dal sottosuolo. Io ne avevo visti tanti, sulla Terra, e ricordavo con perfezione fotografica ognuno di essi: era proprio questo a rendere i miei sogni tanto speciali. Eppure, mentre con le perline blu coloravo ancora una volta le acque del lago, aggiustando le ombreggiature, togliendo un'onda qui e aggiungendone una lì, accompagnate da sbuffi di vento di perline bianche, sentivo di star sbagliando ogni cosa. Se Arko si fosse accorto, mentre dormiva, che si trattava di un sogno? E se avessi reso i lineamenti della donna elfo più duri di quanto lo fossero nell'immagine fornita? Avrebbe potuto vendicarsi e farmi ribollire il sangue nelle vene perché avevo fatto dire alla donna elfo una parola fuori luogo? O al contrario non averle fatto dire una parola fondamentale?

Due perline mi sfuggirono di mano, schiantandosi a terra con un tic! e io feci un grugnito, portando le mani fredde al volto, che vi nascosi. Sotto due strati di vestiti, stavo tremando, mentre la tela emanava il dolce tepore che stava rubando alla mia pelle.

«Devo smetterla» dissi fra me e me, ancora grugnendo. Percepivo un pulsare sordo proprio al centro del petto, dove il cuore doleva per l'ansia e il timore. Sotto la lingua, un grumo amaro mi rendeva la saliva difficile da ingoiare, ma non sarei uscita dalla camera per bere, così da rischiare di svegliare Pargo. Ero terrorizzata all'idea di non compiacere un Artista, ma ero anche conscia che rielaborare un sogno troppe volte era controproducente.

Con braccia tremanti scattai in piedi, spingendo indietro la sedia. Questa stridette e, graffiando la pietra fredda del pavimento, come fosse stata un richiamo, attirò un Avvoltoio Nero. L'animale rispose gracchiando e immaginai le sue lunghe zampe nodose posarsi sul davanzale oscurato, gli artigli stringersi attorno ai mattoni sbrecciati, le piume vibrare ai soffi del vento e gli occhi tentare di scrutare attraverso le imposte serrate. Qualcosa di gelido mi scese lungo la spina dorsale, spingendomi ad allargare il petto e a prendere una grossa inalata. L'Avvoltoio Nero non poteva farmi niente, fintanto che restavo in casa, ma era ugualmente difficile convincersi di essere al sicuro in un luogo come quello.

Mi chiedevo come avesse fatto, Pargo, a lavorare tanto a lungo di notte e ad affrontare a viso aperto quei mostri.

Dopo un po' si udì un fruscio d'ali e l'Avvoltoio allontanarsi, ancora gracchiando in cerca di qualcosa che potevo solo sperare di non vedere mai. Allora mi permisi di muovermi, espellendo l'aria trattenuta nei polmoni e curvandomi in avanti. Scossi la testa e lanciando un'ultima fugace occhiata alla tela mai perennemente pronta, schioccai le dita. La luce si spense e mi diressi a letto.

Le coperte, al contrario del mio corpo, erano calde, impregnate della magia degli incubi che i clienti ci consegnavano e che Pargo trascorreva intere giornate a tagliuzzare e rimodellare. Non ero ancora arrivata a quel livello, anche se a detta sua non mancava molto, e ne ero affascinata. Prima di Mar-dröm la mia vita consisteva in rave party, messe la domenica mattina e libri di lingue. Il disegno e l'arte non erano mai stati il mio forte, se non quando a cinque anni disegnavo casette con una geometria poco terrestre e fiori dotati di occhi e denti. Ma in quel regno dove l'assurdo era all'ordine del giorno, avevo scoperto di possedere il talento innato di regalare sogni. All'effettivo, i clienti pagavano, ma io non avevo un salario, quindi lo facevo gratuitamente, e mi piaceva. Mi piaceva figurare nella mente l'immagine di un paesaggio che molte di quelle creature mai avrebbero visto e renderlo quanto più vero possibile; così davo delle ore di sonno tranquillo a chi soffriva e potevo riavere con me – anche se per poco – casa mia.

Imparare non era stato difficile e dare vita ai sogni mi distraeva dal mio dolore. All'inizio era stato un po' strano, non lo nascondo, ma mi ero abituata quando avevo capito che, dopotutto, era un po' come usare Photoshop. In un certo qual senso... ero un'Artista anche io.

Fissando il soffitto mi sfuggì un risolino nervoso, che tappai prontamente con la mano. Se qualcuno avesse percepito quei pensieri mi avrebbero tagliato la testa.

Coricandomi di lato, sollevai le coperte e le portai fino al mento, che strofinai contro il tessuto liscio. La magia che le impregnava, estrapolata dalle abili mani di Pargo dagli incubi che i clienti ci davano in cambio dei sogni, mi permetteva di decorarle come preferivo: le avevo dipinte di nero e sopra vi avevo impresso in rosso le parole di una delle mie canzoni preferite; a rotazione le cambiavo con quelle di un'altra canzone ancora, per ricordarle quando non potevo più ascoltarle.

Avrei potuto fare un patto, farmi portare il mio telefono dalla Terra, ma come favore da chiedere a qualcuno era grande e avevo troppa paura di cosa avrebbero potuto chiedermi in cambio. Avevo sentito delle voci su un ragazzo albero che, malinconico della propria musica, aveva chiesto di riavere il suo violino, e chi glielo aveva portato in cambio aveva voluto le sue mani.

Io volevo tornare casa, più di qualunque altra cosa volessi al mondo, più di quanto volessi vendicarmi di Samuele, ma ero conscia di non poterlo fare. Non sapevo più nemmeno che anno fosse, a casa mia! Forse i miei genitori erano persino già morti ed erano trascorse centinaia di anni. O magari erano passati solo cinque secondi e Samuele restava impunito, felice nella vita che mi aveva rubato. Non potevo chiedere quel favore a nessuno, perché come per il ragazzo albero, chi se ne fosse preso in carico avrebbe potuto rispedirmi a casa... prendendosi però il mio volto, la mia memoria, la mia giovinezza... o facendomi tornare da morta.

Forse lo ero già, e tutti questi affanni erano inutili.

Scossi il capo, per distogliere la mente dai brutti pensieri, e stringendomi fra le braccia inalai una grande boccata del profumo che impregnava le coperte. Ne avevo scelto uno in particolare, l'unico che da una settimana ero smaniosa e terrorizzata di sentire di nuovo: quello di Arko. Era stato arduo da definire, la magia dell'incubo ci aveva messo un po' per imitarlo: sapeva di lavanda, del ferroso del sangue e di pomeriggi di pioggia autunnale.

Nel buio delle ore notturne, ripensavo a lui e alla sua voce calda e baritonale, al mento glabro e al sorriso che gli aveva tirato le labbra sottili. Era l'unica cosa di lui che avevo potuto vedere, ma non mi impediva di fantasticare su quanto dovesse essere bello. Me lo immaginavo biondo, con dei grandi occhi azzurri e un piercing al naso, come tanti dei ragazzi di strada di Mar-dröm. E poi doveva per forza avere braccia forti e muscolose, sotto quel mantello cremisi, capaci di stringermi e farmi sentire il calore che tanto mi mancava.

Potevo percepire il suo peso schiacciarmi, il suo odore penetrante circondarmi e la sua presenza far erodere la solitudine. Immaginavo che mi strappasse da quel gelo e mi facesse provare qualcosa di familiare, come la pelle bollente contro altra pelle bollente, le bocche affamate che si divorano a vicenda e il fuoco divampante nelle viscere. Mi mancava il tocco di un uomo, non potevo negarlo, ed era sfibrante la vita solitaria a cui Mar-dröm mi costringeva. Io ero una mortale, una semplice umana finita nel regno dei lupi per gli errori di qualcun altro, e non avrei mai potuto arrecarmi il diritto di trovare qualcuno con cui vivere il resto dei miei giorni.

La realtà era che probabilmente avrei vissuto nella casa di Pargo e avrei lavorato per lui fino a che non sarei morta. Ma a questo mi sforzavo di non pensare, a quelle idee tristi e oscure che si aggiravano ai confini del mio mondo, proprio come gli Avvoltoi Neri e le Ombre dall'Abisso si aggiravano fuori dalla mia finestra. Per questo preferivo concentrarmi su immagini più accattivanti, come quelle di Arko che slacciava il lungo mantello rosso e si chinava su di me, alle gocce sulla sua pelle sudata e al suo sorriso mentre mi guardava come fossi più bella di qualunque donna cervo o ninfa vestita di veli. Magari Arko nemmeno ce li aveva, gli occhi, ma una fantasia sfuggente nella notte era tutto ciò che mi restava.

Sotto le coperte cominciai a sentire caldo e mi sfilai di dosso la vestaglia morbida, facendo scorrere le mani sulle mie forme. Ero felice di aver trovato Pargo, lavorando per lui avevo cibo in abbondanza e un tetto sulla testa. E così ero potuta rimanere quella di sempre, senza sfiorire. Poco importava che dovessi nasconderle, quelle curve, l'importante era possederle.

Sentii le mani impalpabili di Arko carezzarmi la pelle sotto la maglia e chiusi le palpebre, lasciandomi andare a un sorriso. I suoi polpastrelli erano ruvidi, graffiavano la mia epidermide bronzea, e in quei punti lampi di desiderio mi accendevano la carne, per poi dirigersi al basso ventre.

La sua voce, accostata all'orecchio, mi sussurrava di volermi, che ero bellissima e che ero forte, che potevo permettermi di ostentare bellezza.

Ero consapevole che fosse sciocco immaginare sotto quelle vesti un Artista. Essi si erano votati al Dio Senza Occhi e nessuno sapeva come conducessero la propria vita, cosa succedesse loro quando donavano l'anima o dove vivessero. Una densa coltre di nebbia li attorniava e l'unico modo per scoprire qualcosa su di loro era diventare a propria volta un Artista. E io non avevo intenzione di farlo, non avevo intenzione di legarmi ulteriormente a quella terra e permettere a un dio senza occhi di divorare la mia anima.

La situazione era ancor più bizzarra se si prendeva in considerazione l'idea che Arko era un Artista del Sangue, votato all'Ira, il più violento dei Peccati. Se lui avesse voluto, avrebbe potuto farmi morire in modi orribili: farmi esplodere gli occhi, farmi annegare nel mio sangue, rivoltare la mia carne da dentro a fuori o mutare lo stato del mio sangue stesso, rendendolo solido nelle mie vene. Chissà se erano gli Artisti a scegliere la propria vocazione o se la vocazione sceglieva loro.

Gli Artisti del Sangue erano fra i più pericolosi, insieme a quelli del Veleno e delle Ombre. E ne io stavo immaginando uno sopra di me, nudo, che mi bloccava le braccia sopra la testa e affondava i denti nel mio collo, posando la punta della lingua sulle gocce di sangue. Dirmi che il mio era il più buono che avesse mai assaggiato.

Una risata mi sfuggì di labbra, mentre sognavo a occhi aperti. Era la mia specialità, sognare da sveglia.

Buttai indietro la testa, portando le lenzuola al naso e inspirando profondamente. Poi scossi il capo e il sorriso si allargò. Quei momenti, quelle fantasie di essere amata, e i ringraziamenti calorosi dei clienti soddisfatti erano ormai le mie uniche fonti di gioia.

Stavo per voltarmi a pancia in giù per continuare a immaginare Arko quando un colpo improvviso mi fece sobbalzare. Mi girai sotto le coperte e scattai a sedere, i piedi nudi poggiati sulla pietra liscia. La persiana ancora tremava per il pugno che qualcuno vi aveva tirato contro e l'oscurità era ancora totale, ma il silenzio era interrotto dal mio cuore pompante, che sembrava sul punto di esplodere dal petto.

Non sentendo più nulla, feci scorrere lo sguardo sulle tenebre attorno a me e mi alzai. Le gambe tremavano, sentivo le ginocchia piene di latte. Forse Arko aveva sentito le mie fantasie ed era venuto a punirmi. Era possibile?

Con le braccia aperte, indecisa su cosa fosse più giusto fare, avanzai lenta di qualche passo, aprendo e stringendo il pugno sinistro. Mi leccai le labbra. Stavo cercando con gli occhi un'arma, qualcosa da poter usare contro qualunque cosa ci fosse lì fuori.

Il silenzio però persistette: oltre la finestra c'era nulla se non il vuoto abissale della notte di Mar-dröm. Forse era stato un caso, forse era stato un Avvoltoio Nero: aveva perso l'equilibrio e si era schiantato contro il vetro. O un Ladro di Vite che si divertiva a infastidire i diurni. Sì, poteva essere.

Ancora tremante annuii in un cenno quasi impercettibile, pronta a tornare a letto. Fu allora che il colpo si ripeté e stavolta al fracasso seguì una risata sguaiata. Una risata maschile, sibillina, che non somigliava a nessuna che avessi mai udito prima e che sembrava rinchiudere tutta la crudeltà del mondo, di ogni mondo.

«Vieniii!» sussurrava, ancora ghignando. «Vieni fuori a giocare. Ci stiamo divertendo, qui!»

Mi pietrificai, mentre lingue fredde mi strisciavano addosso e mi gelavano il sangue.

«Vieni, piccola, sul mio trono ho spazio per tutti...» aggiunse, stavolta ancor più vicino al vetro. Sembrava che a dividerci ci fosse un muro di nebbia, era come se fosse già entrato nella camera. Pargo l'aveva sentito? Se sì, perché non era già alla mia porta a bussare inacidito?

«Ho tutte le carezze che desideri» continuò la creatura, stavolta meno vicina. La sua voce appariva soffocata, come se si fosse allontanata, ma non per questo meno affascinante. C'era qualcosa, nel suo tono, nel suo modo di parlare, che spingeva le mie difese ad abbassarsi. Ero quasi sul punto di avanzare di un passo quando riprese: «E braccia calde a cui aggrapparsi, fanciulla!»

Il mio respiro accelerò, incontrollato, terrorizzata all'idea che quell'essere potesse aver sentito i miei pensieri e che le pareti della casa non potessero tenerlo fuori. Ma questi scoppiò a ridere e iniziò ad allontanarsi davvero. Un misto di sollievo e delusione mi attanagliò lo stomaco. La sua voce era ovattata e difficile da distinguere dai gracchi degli Avvoltoi Neri, quando canticchiò: «Vieni a danzare, la mia pelle baciare. Balliamo insieme, per notti intere. Mie piccole prede, la morte incede!» E poi altre risa sguaiate.

Solo quando il cantilenare si spense, sostituito dal vento, mi mossi, gettandomi nel letto e portando le coperte calde fin sopra la testa.

Se mi addormentai, non me ne resi conto.

Buon pomeriggio, miei adorati lettori!
Eccoci qui con il primo capitolo di questa storia, una di quelle che più ho a cuore fra le mille bozze che infestano il mio pc.
A gloom in the bones rappresenta una piccola parte di me che non so bene definire, ma da quando l'idea mi è saltata in mente me ne sono innamorata alla follia.
I personaggi di quest'opera saranno a dir poco particolari, come vedrete, e avremo scene tanto hot quanto macabre (esattamente come piace a noi, no? 😂).

Clara e Vicious sono due fra i miei protagonisti preferiti di sempre, e spero che con il tempo riusciranno a coinvolgere anche voi quanto coinvolgono me.

E niente, per ora questo è tutto, vi ringrazio per essere qui e spero di avervi colpito in qualche modo!
Non dimenticatevi di lasciarmi il vostro parere! ❤

A presto con il prossimo capitolo,
baci baci!

Betaggio di Octavia_Stokercrow
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