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Suonano alla porta

Dopo quella pessima giornata, venne la notte, e poi il mattino.

Ne vennero tanti, in realtà, e non molto diversi tra loro. Albus e Aberforth che si occupavano di Ariana (miracolosamente tranquilla da quando Albus era giunto là). Il maggiore dei due fratelli cercava ancora una soluzione insperata tra libri e ricerche, il secondo non riusciva proprio a capire perché diavolo lo facesse.

Suo fratello doveva decisamente rassegnarsi, si diceva Aberforth, non sarebbe stato così difficile, dopo. E, magari, anche smettere di sparire per delle ore intere avrebbe fatto comodo.

Quello che Aberforth non sapeva era che Albus non viveva che per quelle ore da "disperso", dove aveva la possibilità di rilassarsi, leggere un libro, magari, o chiacchierare amabilmente con l'unica persona che, almeno in parte, era a conoscenza del suo terribile segreto.

Le mattine si susseguivano, identiche, ma una di quelle le cose cambiarono un po' rispetto al solito, sebbene fossero iniziate allo stesso modo.

Difatti, appena sveglio, Albus si rizzò lentamente a sedere sul letto e si vestì in fretta: non aveva la minima intenzione di uscire, quindi, pensò, poteva anche permetterselo.

Entrò in cucina (ancora leggermente assonnato), e si mise a preparare la colazione. Impiegò un attimo a capire che il latte che stava cercando di versare aveva il tappo sigillato e che, molto probabilmente, avrebbe fatto decisamente meglio ad aprirlo.

Era stata una lunga notte, da quando aveva chiuso la porta della sua camera, dopo la cena. Si era rigirato così tanto nel sonno che, ad un certo punto, per non saper che fare, si era alzato e aveva fatto un giro per la casa. Suo fratello, spalle rivolte contro la porta della sua camera, dormiva nel suo letto. Sua sorella, tranquilla, anche.

Sembrava quasi che quella fosse una casa normale, di gente normale (magari i genitori erano usciti per lavoro e sarebbero tornati la mattian), di Babbani, quasi. E forse, si era detto Albus con un sospiro, sarebbe stato meglio se lo fosse stata davvero. Tornando nella sua stanza, non aveva potuto fare a meno di sospirare di nuovo, però, dicendosi che, probabilmente, anche le famiglie babbane avevano i loro problemi, in fin dei conti, e che forse erano persino peggiori dei loro.

Seduto al tavolo della cucina, con forse due ore di sonno in un'intera nottata, Albus non ne era più tanto convinto.

Si era rimesso a rimuginare come i giorni precedenti e, sebbene ora fosse più calmo di quando si era messo a scagliare libri per la stanza, sentiva che non sarebbe arrivato comunque ad una soluzione.

Sempre che di soluzione si dovesse parlare, certo. Perché, dopotutto, lui aveva cercato una cura a quella che considerava una malattia, una maledizione, al limite, ma non era davvero sicuro che si trattasse di questo.

Le uniche cose che sapeva erano due.

Primo: Ariana non poteva controllarsi e, quando aveva uno dei suoi "attacchi", o la si calmava, o lei doveva in qualche modo liberarsi della magia, prima o poi, dell'energia che aveva accumulato. Come la accumulasse, in realtà, sfuggiva ancora alla comprensione di Albus, ma sospettava che quello fosse il problema minore.

Secondo: quando Ariana doveva espellere tutta quella Magia dal suo corpo, ella stessa diventava una sorta di bomba, e, perciò, estremamente pericolosa.

Ora, la bambina - in realtà, non era poi così piccola, ma Albus l'aveva sempre chiamata così - poteva muoversi e parlare, così come qualsiasi altro essere umano, ma bastava un minimo di stress o che si sentisse minacciata per... esplodere, appunto. E non potevano farci niente, né lui, né Aberforth, né la stessa Ariana, quando succedeva.

Non appena Albus aveva saputo della sua morte, non aveva fatto fatica ad immaginare sua madre sopraffatta dagli spaventosi poteri di sua sorella, fuori controllo e pressoché inarrestabili.

Doveva essersi distratta, per chissà quale motivo, e Ariana essersi spaventata. Kendra aveva capito quanto fosse grave la situazione troppo tardi, quando ormai avrebbe dovuto usare la sua magia contro Ariana, per fermarla.

Ma una madre non farebbe mai del male a sua figlia. Un'esitazione che gli era costata molto cara.

Ma ora non era il momento per chiedersi cosa fosse successo e suo fratello, contrariamente a quanto la signora Bagshot avesse creduto e scritto nella sua lettera, non aveva potuto aiutarlo affatto a far luce sulla vicenda, poiché non in casa, in quel momento.

Lui non riusciva davvero a capire che cosa avesse sua sorella, e questo era ciò su cui si doveva concentrare: il resto era superfluo. Aveva già concluso che non si poteva davvero definire una malattia, meno che mai una maledizione, visto come se l'era "procurata".

Ma, allora, che cos'era?

Sto ragionando nel modo sbagliato. Una malattia ha una causa scatenante, una cosa che non è un malattia no, non per forza... Dunque, il motivo potrebbe essere stato semplicemente l'aggressione, lo spavento, la paura, l'impotenza... o qualunque altra cosa. O niente. Devo smetterla di concentrarmi sulla causa, non mi serve. Allora... allora su cosa? Su che cosa dovrei...

Nel frattempo, Aberforth era entrato nella stanza e, senza degnare di uno sguardo Albus - che invece, da parte sua, lo aveva fissato per tutto il tempo -, si era messo a tavola.

Il ragazzo decise di buttarsi. Sperava solo che ad aspettarlo ci fosse una piscina, e non il pavimento.

«Aberforth?»
«Mh. Sì?»
«Hai... dormito bene?»

Era sicuro di una risposta affermativa, poiché l'aveva visto di notte, e sperava che farci caso mettesse suo fratello di buon umore. Ovviamente, non poteva esserne sicuro, perché con Aberforth non si poteva mai sapere.

«Sì, abbastanza», gli rispose il fratello, senza - con grande dispiacere di Albus - cambiare espressione o mostrarsi minimamente più felice di prima.
«È buona la colazione?»
«Come al solito.»
«Stai bene?»
«No.»
«Aberforth, non... potresti rispondere con qualcosa di più di un semplice monosillabo, per favore?»
«No.»
«Aberforth, ti prego. Se sei arrabbiato, parliamone, ma non fare così.»
Albus era sul punto di mettersi a piangere, mentre suo fratello stava per rispondergli (che cosa non lo sapeva nemmeno lui), quando il campanello suonò, e ad Aberforth parve più sensato smarcarsi da quella conversazione andando ad aprire la porta.

Quando ebbe fatto ciò, si ritrovò viso a viso con un ragazzo alto e biondo, la cui pelle, cerea, ricordava quasi una distesa innevata, e che Aberfort non poteva conoscere.

Gellert Grindelwald fu il primo a parlare.
«Buongiorno. Sto cercando Albus, pensavo che sarebbe stato lui ad aprire la porta, sinceramente. Tu sei suo fratello?», disse, con un sorriso cordiale.
Aberforth alzò un sopracciglio.
«No, il suo Elfo domestico», rispose, sarcastico.
«Ah, chiedo scusa. Avrei dovuto capirlo guardandoti, in effetti. Sì... Sei decisamente troppo basso per essere un umano, certo.»
«Io non sono un Elfo!» sibilò Aberforth, perdendo velocemente la pazienza.
«Credevo che avessi detto...»
«Oh, sta' zitto. Chi diavolo sei?»
«Mi chiamo Gellert, ma non credo che importi. Il tuo padrone è in casa? Perché, a dire la verità, se non c'è», scrollò le spalle, «Io qua non ci faccio niente.»

Aberforth voleva tirar fuori la sua bacchetta, e l'avrebbe anche fatto, se non fosse arrivato suo fratello alla porta, che ormai aveva capito chi si fosse presentato all'uscio di casa sua.

«Vieni con me, Gellert. E grazie per aver aperto, Aberforth. È meglio se vai a finire la tua colazione, adesso: sono certo che senza di me non avrai problemi a mangiare in pace.»

Fece cenno a Grindelwald di seguirlo, e si avviò verso le scale. Arrivato al primo piano si fermò. Sollevò entrambe le sopracciglia.
«Il tuo padrone?» domandò.
«Chiedo scusa, ma quel moccioso ha bisogno di imparare che cosa sia il rispetto», rispose l'altro.
Albus sospirò. «Purtroppo, non posso darti torto.»

Albus si fermò davanti ad una porta di legno scuro.
«Vieni, entra», disse all'amico, facendogli segno di accomodarsi.

La stanza era un vero disastro.
C'erano libri sparsi ovunque: sulle mensole, accatastati in un angolo, appoggiati in bilico sul tavolo.

Pile e pile di riviste "scientifiche" si vedevano sbucare da ogni dove, insieme a penne, fogli, strumenti per calcolo, cartine geografiche e mappamondi. Uno, in particolare, relegato in un angolino della stanza, tra una cassapanca e una pila di abiti, recava dei segni rossi, alcuni cancellati, altri di un colore molto acceso, che collegavano i puntini di varie città nel mondo. Quelle prettamente magiche erano anche riquadrate. Si trattava del progetto - interrotto, come sappiamo - di un viaggio attorno al mondo, assieme ad un caro amico.

Appesi ad un attaccapanni c'erano vari vestiti, uno più stravagante dell'altro, dei colori più disparati. Rosso fuoco, giallo senape, acquamarina.

Attaccato alla spalliera della sedia c'era, isolato da tutti gli altri, un abito molto particolare, che sarebbe stato interamente nero, non fosse stato per una sorta di fermaglio argentato che si intravedeva dalla porta. Lì accanto una sciarpa rossa e oro, dei pantaloni neri e un mantello sembravano abbandonati lì, ma con un certo non so che di curato, quasi di studiato.

Il pavimento era colorato di azzurro, con due cerchi che si aprivano, toccandosi al centro: erano le due "facce" del mondo. Sopra vi erano disegnati, ovviamente, i continenti, come in qualsiasi mappa normale; e, tuttavia, vi erano indicate - a volte persino con disegni - molte cose che un Babbano qualsiasi non avrebbe mai studiato sui suoi libri di geografia.

Ma la cosa più stupefacente, in quella stanza, era il soffitto: una distesa nera, scura, puntellata di un centinaio di stelle. Stelle che sembravano vere, ma che, in realtà, non lo erano: comunque, sembrava di alzare gli occhi e guardare verso il cielo, attraverso un vetro, e di osservare l'intera volta stellata.
Da far trattenere il fiato.

La stanza non sembrava di Albus Silente: piuttosto, si poteva dire che quella camera era Albus Silente.

Era l'Albus di un tempo, con gli stendardi di Hogwarts appesi ai muri, che gli ricordavano un luogo dove era stato profondamente felice, dove era diventato uno dei Maghi migliori della sua generazione, forse persino dell'intera Gran Bretagna; era l'Albus di adesso, maturo e pronto per partire alla scoperta della vita e del mondo, ma anche disordinato, con libri sparpagliati ovunque, con la stanza intera sottosopra; era l'Albus del futuro, quello che ancora non c'era, ma che già si percepiva in quell'uniforme messa da una parte come fosse una reliquia, in quel soffitto dipinto di luce, la cui fonte di ispirazione tanto mancava al pittore che l'aveva creato.

«Meraviglioso», sussurrò Gellert, rapito, guardando in alto.
«Già. Pensa che ad Hogwarts il soffitto è praticamente vivo, le stelle che vedi sono quelle che ci sono fuori», gli rispose Albus, con gli occhi che scintillavano. «Questa è una replica, e anche piuttosto grossolana. Di giorno, le stelle non si possono vedere a Hogwarts, perché, in effetti... non ci sono. Qui ho un po' cambiato le regole.»
Rise, poi si sedette sul letto, facendo cenno a Gellert di fare lo stesso.

«Sarà anche una copia, ma è stupendo. Non esiste niente del genere a Durmstrang, ma anche noi abbiamo molto di cui vantarci. Sapevi che, ormeggiata in un lago, c'è un'enorme imbarcazione nera, vecchia di secoli?»
«Davvero? Mi piacerebbe vederla, un giorno... Credi che me lo lascerebbero fare? Se facessi richiesta, intendo. Secondo te, mi farebbero visitare la scuola?»
«Ti direi di no, ma... tu sei Albus Silente», gli rispose, ammiccando, «Chissà che porte sprangate non si spalanchino, per un Mago come te».
«Non sono poi così famoso, né, tantomeno, importante. Dovrò dimenticarmi la nave, temo.»
«Forse sarà davvero come dici, ma io non ne sono così sicuro. Tu diventerai grande, me lo sento.»

«Meglio passare a cose più serie», lo interruppe Albus. «Suppongo che tu non sia venuto qui solo per insegnare l'educazione a mio fratello, o per predire un futuro molto fantasioso, giusto?»

«In effetti, no. Ho qualcosa da dirti, e speravo che anche tu avessi qualcosa da confidarmi, sinceramente.»
«Ariana?» chiese Albus, sicuro di centrare l'obiettivo.
«Sì.»
«Gellert...»
«Sta' tranquillo, non voglio sapere più di tanto. Specialmente se non vuoi dirmelo. Mi basta poco», terminò.

«Poco», fece Albus, con un sospiro. «Quanto?»
Gellert lo guardò negli occhi, serio.
«Quanto basta per aiutarti.»

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