La mente e il pensiero
[DA CORREGGERE]
Albus non sapeva cosa rispondere.
Non l'aveva saputo quando Gellert gli aveva parlato della sua idea e non lo sapeva nemmeno adesso, mentre se ne stava seduto sul letto, appoggiato contro la parete, incapace di prendere sonno o di fare o pensare a qualsiasi altra cosa che non fossero i Doni della Morte e il controllo sui Babbani.
Se Gellert gli avesse chiesto di dargli una risposta sul momento, Albus aveva ragione di pensare che sarebbe semplicemente rimasto lì, a guardarlo senza rispondere.
Senza sapere come rispondere.
Non gli pareva possibile che davvero Gellert potesse aver pensato ad una cosa simile. Non per quanto riguardasse giusto o sbagliato, ma per il semplice motivo che ad Albus pareva impossibile a prescindere che lui, che non aveva avuto niente a che fare con la famiglia Silente fino circa ad una settimana prima, potesse davvero aver cominciato a maturare un'idea simile a causa di Ariana.
Albus si era detto questo finora, rifiutandosi di pensare ad una sua risposta, o semplicemente ad una considerazione da dare all'idea.
Ma prima o poi avrebbe dovuto farlo.
Avrebbe dovuto etichettare quel pensiero come buono o cattivo, e scegliere da che parte di questo progetto stare.
Questo pensiero lo turbava, rendendolo inquieto, sommandosi alla confusione che un'offerta simile gli aveva provocato in testa.
In tutto questo non una volta ad Albus venne in mente che Gellert potesse avergli mentito, che tutto quel discorso, così curato, così particolareggiato, potesse essere stato fatto per farlo cadere in trappola, per indirizzarlo in una via già scelta da Grindelwald in precedenza.
Potreste chiamarlo ingenuo, ma Albus si fidava di quel ragazzo tanto quanto si sarebbe fidato di se stesso.
Aveva mantenuto i suoi segreti, lo aveva sostenuto, gli aveva salvato la vita: aveva fatto per lui tutto ciò che si poteva fare, l'aveva aiutato in ogni modo possibile.
Albus aveva in testa così tanti pensieri che non sarebbe bastato un giorno intero a districarli tutti.
Pensò di avere tutta la notte, ma come sempre succede in questi casi, il sonno, che Albus aveva giudicato impossibilitato a venire da lui, arrivò, portandolo con se nel suo mondo, quello dei sogni, dove ogni realtà è finzione, e ogni finzione è realtà.
Scivolò lungo la parete, adagiandosi sul materasso del letto, senza poter impedire ai suoi occhi di chiudersi, e alla sua mente di acquietarsi.
Il mattino seguente, Albus fu svegliato da un raggio di sole, filtrato dalle tende della finestra, che ormai, sebbene Albus non riuscisse a vederlo, splendeva alto nel cielo del mattino, nel suo rosso bagliore.
Il momento in cui si svegliava, era l'unico nel quale non pensava, o almeno, era l'unico nel quale pensava a cose che non erano importanti.
Quella mattina, la prima cosa a cui il pensiero di Albus dedicò un attimo del suo tempo fu un piccolo dolore alla tempia. Albus detestava i mal di testa, perché gli impedivano di ragionare tranquillamente.
Ma ciò che aveva pensato Albus era errato.
Il piccolo dolore alla tempia non era affatto un mal di testa, era un piccolo segno rosso e doloroso lasciato dalla montatura degli occhiali, che non si era tolto prima di andare a dormire.
Albus prese la bacchetta dal comodino e si diede un colpetto sulla tempia, alleviando il dolore. Poi si rimise gli occhiali.
In tutto quel daffare, il cervello di Albus cominciò ad accendersi e a pensare.
Il ragazzo avrebbe preferito che restasse congelato al dolorino degli occhiali, piuttosto che spaziare, e andare di nuovo a pensare a quel che Gellert aveva detto.
Se il ragazzo aveva sperato che Albus pensasse al discorso della sera prima, allora aveva avuto ben più di una fortuna.
Non c'era speranza che Albus dimenticasse o liquidasse la conversazione della sera precedente. Gli aveva messo in testa troppi dubbi, lo aveva portato a porsi troppe domande.
Che lo volesse o no, Albus avrebbe dovuto dare a Gellert una risposta, prima o poi. Gellert gli aveva detto di prendersi tutto il tempo che voleva, ma più questo passava e più Albus cominciava a pensare che non sarebbe mai riuscito a dargli una risposta.
Pensò e ripensò a cosa scegliere, a cosa decidere.
Era passata una settimana dall'ultimo incontro tra Albus e Gellert, una settimana passata ad ascoltare Aberforth che gli raccontava di ciò che faceva con Ariana, una settimana passata a tirare sospiri di sollievo quando Albus vedeva il fratello tornare indietro, sano e salvo.
Albus non gli disse nulla di ciò che si erano detti lui e Grindelwald quella sera in cui sia lui che Ariana stavano dormendo, e nemmeno Aberforth gli fece domande, sebbene avesse inteso che probabilmente c'era qualcosa che non andava. Pensò che fosse semplicemente stanchezza, che i pensieri di Albus fossero rivolti a quando lui avrebbe dovuto occuparsi di Ariana da solo.
Non che Albus non pensasse anche a questo, certo, tuttavia le frasi che gli aveva detto Gellert...
A te sembra giusto doverci nascondere?
A noi è stato dato un potere che loro non hanno.
Sarebbe anche per loro. Per i Babbani, Albus.
Più si ripeteva queste parole, più aumentava la sua convinzione per una risposta.
Alla fine, nel cuore della notte, scrisse la sua risposta, in una lettera che sarebbe stata conservata per moltissimo tempo, fino poi ad arrivare nelle mani sbagliate.
Gellert,
la tua idea che la dominazione magica è per il bene stesso dei Babbani... credo che questo sia il punto cruciale. Certo, ci è stato dato un potere e certo, questo ci dà il diritto di governare, ma ci dà anche delle responsabilità sui governati. Dobbiamo porre l'accento su questo punto, sarà la pietra angolare sulla quale costruiremo. Là dove incontreremo opposizioni, come certo accadrà, questa dev'essere la base di tutte le nostre controargomentazioni. Noi prendiamo il controllo per il bene superiore. E da ciò discende che dove incontriamo resistenza, dobbiamo usare solo la forza necessaria e non di più. (Questo è stato il tuo errore a Durmstrang! Ma non me me dolgo, perché se non fossi stato espulso non ci saremmo mai incontrati.)
Albus
Disegnò, al posto della "A", un triangolo, un cerchio e una riga.
La sua risposta era chiara. Non c'erano tanti modi per interpretarla.
Mandò un gufo a consegnarla, poi si stese a letto e si mise a dormire.
Sognò molte cose diverse, ma nessuna arrivò alla mattina, rimanendo nel Mondo dei Sogni.
Nel frattempo, una casa più in là, un ragazzo riceveva un gufo, slegava la pergamena, ne leggeva il contenuto e rideva, di una risata maligna e divertita.
La risata di qualcuno che aveva vinto una partita prima ancora di cominciarla.
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