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Il ragazzo alla finestra

La bara era più grande di quanto Albus si aspettasse, di legno lucidissimo e scuro, con incise solo poche parole: Kendra Silente, nata Peverell.

Le aveva incise proprio Albus con la sua bacchetta, poco prima. Era ancora inginocchiato di fronte alla madre, al suo corpo senza vita.

Voleva piangere tutte le sue lacrime, ma no, non poteva farlo. Suo fratello gli stava accanto, in piedi, con gli occhi azzurri assenti. E Albus sapeva che l'unico modo per aiutare suo fratello - una sua responsabilità, ormai - era mostrarsi forte. Non doveva lasciarsi andare e, si disse, non l'avrebbe fatto.

Dunque, il ragazzo si impose di non piangere, raddrizzò le spalle. Strinse labbra e mani, che avevano preso a tremare. Quando rilassò il corpo, irrigiditosi per il dolore, niente lasciava pensare che fosse, in realtà, a pezzi. Guardò Aberforth.

«Ariana?» domandò.
Aberforth sembrò svegliarsi da un sogno. Sussultò, poi rispose: «È di sopra. Credo che stia dormendo».

Albus annuì. Una moltitudine di pensieri gli affollarono la mente. Aveva un fratello e una sorella di cui occuparsi: non se n'era mai reso conto, ma ciò che faceva sua madre era impegnativo, e più di quanto avesse pensato. E sperato.

C'erano così tante cose da fare, molte da nascondere, altre, invece, che potevano essere rivelate a tutti...

Come poco prima la voce di Albus aveva risvegliato il fratello dal flusso dei suoi pensieri, il ragazzo venne interrotto allo stesso modo.
«Albus?»
Il giovane si girò verso il fratello, rimanendo in ascolto.
«Non andrò a scuola, alla fine dell'estate. Rimarrò qui e ti aiuterò con Ariana.»
Silente scosse il capo. «Tu devi andare ad Hogwarts. Devi studiare, imparare a utilizzare la magia... Non puoi rimanere qui.»
«Posso. E voglio restare.»
«Ti prego, Aberforth. Hai quindici anni, non puoi abbandonare la scuola. In più, qui non saresti d'aiuto.»

Albus sapeva di essere duro con suo fratello, ma, d'altro canto, non vedeva altro modo di risolvere la situazione. Già sarebbe stato difficile nascondere tutto quel che succedeva nella casa fino alla fine dell'estate, e se poi suo fratello non fosse nemmeno andato a scuola... Non avrebbe avuto modo di giustificare un'assenza del genere. Sua sorella era debole, abbastanza per essere istruita in casa; questo il resto del mondo avrebbe potuto accettarlo. Ma un giovane sano come Aberforth? Impossibile che la gente non cominciasse a fare domande. E le domande - in quel momento Albus le temeva più di ogni altra cosa - erano solo una fonte di guai.

Ma Aberforth non avrebbe mai capito le sue ragioni, gli avrebbe detto che non gli importava di cosa pensasse la gente, che l'unica cosa che voleva era il bene di sua sorella. Non immaginava nemmeno cosa sarebbe potuto succedere ad Ariana, se si fosse scoperto ciò che nascondeva. La loro madre aveva sacrificato la sua vita - letteralmente, gli venne da pensare - per proteggere un segreto che tutti, in famiglia, avrebbero dovuto mantenere, con ogni mezzo possibile. Sapeva che suo fratello era in buona fede, ma non poteva rischiare così tanto.

Da parte sua, anche Aberforth pensava di fare la cosa migliore per tutti, in primo luogo per sua sorella. Suo fratello non era mai stato in grado di calmarla come lui sapeva fare, e nemmeno sua madre, purtroppo. Lui, invece, non aveva paura; o meglio, ce l'aveva, ma il suo amore per la sorella andava oltre questo, più di quanto Albus si sarebbe potuto anche solo sognare.

Quanto alla scuola, sebbene si trattasse di Hogwarts, un posto dove si sentiva praticamente a casa, Aberforth provava per essa gli stessi sentimenti che avrebbe potuto provare un quindicenne qualunque verso una scuola qualunque, di un paese qualunque. Per farla breve, l'avrebbe mollata su due piedi.

In più, Aberforth sentiva di non venire trattato nel modo giusto. Suo fratello gli aveva appena ricordato che aveva solo quindici anni: che, insomma, era ancora piccolo. Ma lui non lo era. Mentre Albus progettava un viaggio attorno al mondo con il suo amico Elphias Doge, mentre rideva e scherzava con i più illustri studiosi di Magia del suo secolo, Aberforth si occupava di sua sorella assieme alla madre.

E per lui non era un incarico fastidioso, non gli pesava stare con Ariana, prendersi cura di lei; lo faceva con un'abnegazione, un impegno tale da sorprendere persino sua madre, certe volte. Insomma, se avesse dovuto badare alla sorellina per tutta la vita, lo avrebbe fatto con piacere: Aberforth era fatto così.

Ma aveva anche assistito - non di persona, ma comunque abbastanza vicino alla vicenda - alla morte di sua madre per mano di Ariana. Per amor di sua sorella superava la paura, ma questo valeva solo per quella che lo riguardava in prima persona. Albus non era certo perfetto - cosa che lui era tra i pochi a sapere -, ma era suo fratello, e Aberforth gli voleva bene. Non avrebbe permesso che lui rischiasse la sua vita in quel modo, da solo, unicamente perché pensava che Aberforth non avesse l'età anagrafica per farlo.

«Pensi che io sia un bambino?» gli rispose, quindi, Aberforth. «Non puoi dirmi di andare ad Hogwarts, a studiare, quando nostro padre si trova ad Azkaban per aggressione a dei Babbani, nostra sorella non ha il minimo controllo sui suoi poteri e nostra madre è appena morta.» Il ragazzo riuscì a stento a frenare le lacrime, mentre continuava: «Non riuscirai a fare tutto da solo, sei pur sempre umano. So calmare Ariana, posso aiutarti, occuparmi di lei. Tu hai bisogno di aiuto, Albus, come tutti quanti. Sono tuo fratello, e so che devo rimanere.»
«Non urlare, Aberforth. Sono in grado di occuparmi di voi: è una mia responsabilità, non tua. Devi andare ad Hogwarts, là starai bene», concluse.

E così non dovrò badare anche a te.

«Albus, come posso andare ad Hogwarts sapendo la situazione? Come posso...»
«Non so come potrai, ma dovrai», lo interruppe il fratello, concitato. «È necessario che tu lo faccia, o la gente potrebbe insospettirsi e questo...»
«Metterebbe Ariana in pericolo, lo so! Ma io voglio...» Ormai Aberforth era arrivato all'esasperazione.
«So cosa vuoi, Aberforth, ma non è possibile ottenerlo. Non puoi rimanere, sarebbe troppo pericoloso: per Ariana, ma anche per te.»
«Albus, ti prego...»
«No, Aberforth. È troppo pericoloso. Tu andrai ad Hogwarts.»

A quel punto, Albus si alzò, appena in tempo per vedere suo fratello correre via, su per le scale. In camera sua, probabilmente, visto che la sorella stava dormendo.

Si abbandonò ad un sospiro, guardando prima le scale, poi la bara di sua madre.

Ma come diavolo era riuscita a tenere sotto controllo la situazione per così tanto tempo? Il povero Albus sentiva scoppiargli la testa dopo a malapena mezza giornata, figurarsi se avesse dovuto "resistere" per tutto quel tempo.
Tutto quel tempo... In confronto a quello passato da sua madre in quella situazione, il suo sarebbe stato molto, molto di più. Tutta la vita, probabilmente.

Sì lasciò cadere su una poltrona del salotto, il più lontano possibile dalla cassa di legno che ospitava i resti di sua madre. Si prese il volto tra le mani, pregando che quella situazione finisse, che dalla porta entrassero sua madre e suo padre, che lo abbracciassero e gli dicessero che no, non era certo una sua responsabilità, che era stato solo un brutto sogno, non era successo davvero. Che Elphias lo stava aspettando per partire, proprio fuori dalla porta di casa sua e Aberforth e Ariana sarebbero venuti a salutarlo prima di andare.
Che andava tutto bene.

Si sentì tremendamente spaventato, piccolo, fragile. Non gli sembrava di essere adulto, per niente. E ripensava alle parole di Aberforth, a come fossero vicine a quel che pensava. Non sarebbe stato in grado di gestire quella situazione, proprio come aveva detto il fratello. Quella era la sua più grande paura, rovinare tutto.

Da quel giorno, avrebbe dovuto mentire, nascondere la situazione di Ariana, e non farsi scoprire. Non sarebbe stato facile, anzi. Avrebbe dovuto avere sempre una scusa pronta, una scappatoia, qualcosa che lo giustificasse. Avrebbe dovuto trovare un modo per sapere, in ogni momento, la situazione di sua sorella. Perché non poteva certo rinchiudersi in casa: sarebbe impazzito, e poi anche il fatto di non potersi allontanare nemmeno per un po' da lei - senza volerla portare in ospedale - avrebbe animato la curiosità del resto della comunità magica.

E poi c'era anche la sua curiosità da soddisfare. Non era partito per un viaggio attorno al mondo: questo poteva accettarlo. Ma non voleva smettere di ricercare quella conoscenza che tanto lo affascinava; sarebbe stato come rinunciare alla sua vita. E, alla sua età, sentirsi rinchiuso in quella casa come in una prigione era l'ultima cosa che voleva. Era disposto a fare sacrifici: ma disposto, non felice di farli. Cercava di anteporre il benessere di Ariana al suo, ma non sapeva per quanto ne sarebbe stato in grado. In fondo, lui voleva vivere.

E ancora, se Aberforth si fosse davvero rifiutato di andare ad Hogwarts? Che cosa avrebbe dovuto fare? Costringerlo non gli sembrava una buona cosa, e la sua natura non era violenta. Avrebbe preferito che suo fratello - e dire che avrebbe dovuto assomigliargli, almeno un po' - si fosse seduto a parlare con lui, che non fosse così cocciuto. Forse, in quel caso, lui e Albus avrebbero potuto trovare insieme una soluzione, possibilmente senza urlarsi contro. Ma sapeva che non sarebbe successo: non perché, come pensava Aberforth, lui lo considerasse alla stregua di un bambino (alla sua età, Albus era già finito su varie riviste magiche per meriti personali e, più in generale, non riteneva che l'età andasse misurata in base agli anni passati sulla Terra), quanto, piuttosto, a causa del temperamento di suo fratello.

«Non lo capirà mai.»

Albus si girò di scatto, sobbalzando.
Era rimasto così assorto nei suoi pensieri da non ricordarsi nemmeno a causa di cosa avesse cominciato a formularli e quella voce - sconosciuta, e con un accento piuttosto curioso, forse tedesco - era stata una vera sorpresa. Dunque, voltandosi, si ritrovò a guardare un ragazzo alto, appoggiato al davanzale della sua finestra, con capelli biondissimi e occhi azzurri, del colore del cielo. Ragazzo che ora lo stava guardando, con un misto di curiosità e quella che doveva essere compassione.

«A cosa ti riferisci? Chi sei?» gli chiese Albus, pensando che, molto probabilmente, avrebbe dovuto fare la seconda domanda per prima, e la prima per seconda.
«A tuo fratello. Non sembra capire che, se fai quello che fai, è per cercare di favorire la tua intera famiglia, e non il contrario.»
Albus aggrottò la fronte.«Da quanto stavi ascoltando? E come hai fatto a farlo senza che io ti vedessi?»
«Oh, ho ascoltato il discorso più o meno dall'inizio. E, per quanto riguarda il come, be', è stato abbastanza facile: sono salito sull'albero che c'è qua fuori.»
«Sull'albero?»
«Sull'albero. Prima eri così immerso nei tuoi pensieri da non accorgerti nemmeno che stavo scendendo. Ah, la prossima volta... chiudi la finestra.»
Scrollò le spalle.

Albus lo guardò più attentamente.
Il colore dei loro occhi era molto simile, e sembravano avere la sua stessa età, più o meno, ma le somiglianze si fermavano lì. Il modo in cui era vestito avvalorava la tesi di Albus: non era del luogo e sembrava, piuttosto, fuori posto. La sua pelle era chiara - più di quella della maggior parte degli inglesi - e faceva pensare a chi abitava ambienti più freddi, come la Germania, o addirittura la Norvegia.

Inoltre, quella mattina aveva piovuto, anche se era estate. In Inghilterra non è certo strano, anzi: chi ci abita è abituato a questi improvvisi movimenti nel cielo, e così lo era anche Albus. Perciò, quel pomeriggio indossava un vestito né troppo leggero, né troppo pesante, scuro, perfetto ciò che aveva dovuto fare quel giorno, e per il meteo che si prospettava in quella funesta giornata..

Ora, dicevamo, l'abbigliamento del tipo alla finestra lasciava pensare che lui,al contrario, non fosse proprio di quelle parti: la camicia che portava pareva di lino, o di un qualunque altro materiale che tenesse incredibilmente freschi, i pantaloni - sarebbe meglio dire calzoni - non superavano il ginocchio (cosa che Albus, però, da quella posizione, non poteva notare); per giunta, portava le bretelle (che gli occhi di Albus, più che stupiti, stavolta, notavano benissimo).

Silente si chiese se non fosse Babbano, oltre che straniero.

«Sta' tranquillo», gli disse il ragazzo, «dalla mia bocca non uscirà una parola di questa conversazione, lo giuro.»
Albus sollevò entrambi i sopraccigli: «E dovrei fidarmi? Non ti conosco nemmeno.»
L'altro si strinse nelle spalle.
«Non penso che tu abbia molta scelta... Albus.»

Questi lo fissò, sospirando.
«Non mi hai ancora detto come ti chiami.»
Il ragazzo sorrise dalla finestra, per la prima volta da quando era apparso; la scavalcò, passò accanto alla bara di Kendra e la sfiorò dicendo qualche parola, forse una preghiera. Strinse un poco gli occhi, incuriosito, leggendo il nome dalla morta, poi andò oltre.

Sì fermò davanti ad Albus, inclinò la testa da un lato, sorrise di nuovo, tese una mano e disse: «Il mio nome è Gellert Grindelwald».

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