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25. Empire of the sun

Canzone nei media:
Empire of the sun - Solence

"Nell'oscurità invece di parole
scorsi un sorriso di donna
e una chioma svolazzante nel vento.
Fu il mio destino."
(Jaroslav Seifert)

❇️

Quello che stava facendo era sbagliato e lo sapeva.

Non avrebbe dovuto, lei era migliore di così. Non avrebbe dovuto stare nascosta dietro a una porta a osservarli con sguardo ferito, ma non riusciva ad andarsene. Il cuore pulsava sordo e, a ogni fitta, sembrava affondare sempre di più, fino a un luogo remoto da cui non sarebbe tornato.

Dimitar
ha
ragione, lo sai?

Si augurava che quello che Victor stava facendo fosse solo mettere in atto una trappola ben congegnata, una gabbia nella quale l'enkelin sarebbe caduta e rimasta impigliata. Qualcosa le diceva che c'era sotto di più, ma che fosse istinto o gelosia non contava, quella visione martoriava la sua povera anima.

La domanda sul perché non si fosse lasciata i sentimenti alle spalle era costante.

La verità era che era stata debole, aveva avuto paura... e si era attaccata all'ultima goccia di umanità rimasta in lei, come una sanguisuga su un ventre caldo. Erano passati settecentossant'anni dalla sua nascita e nei secoli aveva attraversato alti e bassi, momenti di pura gioia e di profonda disperazione, che l'avevano condotta solo in disgrazia.

Si era lanciata in avventure lunghe decenni, aveva viaggiato per i mari con pericolosi pirati, aveva combattuto corsari nemici e vissuto su isole paradisiache. Aveva provato amore e aveva provato odio, aveva rischiato di morire nel fare ciò che amava, solo per essere libera... ma tutto quello che aveva vissuto, tutto il tempo trascorso a correre, pareva ora inutile.

Ormai era sola, odiata da sua madre, aveva voltato le spalle a suo padre, disprezzando quello che era diventato... e si era unita a una combriccola di demoni. Ironico, no? Tutto per un uomo, lo stesso uomo che ora stringeva la mano di un'altra donna.

Non si era mai sentita così, nemmeno quando Sciath l'aveva tradita.

Non era la prima volta che Victor andava a letto con un qualcuno. Aveva sopportato di peggio per decenni, ma non aveva tenuto vicino nessuno dei suoi amanti, non come stava tenendo ora Zoë. E se anche fosse stato un piano, la sofferenza non sarebbe stata meno tangibile.

Odiava quella ragazza. La odiava perché poteva avere qualcosa a cui lei aveva dovuto rinunciare, ma che non aveva mai smesso di desiderare. Le faceva male, pensarci, ma non voleva smettere. Ragionare, quella era l'unica cosa che la manteneva lucida e migliore di suo padre.

Forse era un po' masochista, quanti dolori vani si sarebbe già altrimenti risparmiata.

Doloreee.
Lui
non è
tuo.

Eppure provava rispetto per Zoë, perché era una brava persona e le aveva mostrato solidarietà senza essere costretta. Si era resa conto, quella notte in cucina, che non erano poi tanto diverse. Il carattere dell'enkelin era focoso, un vulcano intrappolato in una teca, e lei vi si rispecchiava, una giovane dal temperamento irascibile e una propensione al sarcasmo, forte e pronta a sfidare il mondo da sola. Zoë era tutto ciò che lei aveva smesso di essere molto tempo addietro.

Impri-gionata.
Domata.
Traditrice!

Com'era finita domata? Com'era arrivata fin lì? Come aveva potuto votare la propria lealtà a tre demono? Sua madre sarebbe stata disgustata nel vedere cos'era diventata: beveva sangue perché Dimitar era convinto di averle insegnato ad amarlo e uccideva umani solo per avere una scusa per passare del tempo con Victor. Costretta a scappare senza dire nulla a nessuno per potersi trasformare e sentire il vento frusciare sul suo manto. Era patetica.

Fuori, il sole splendeva sempre di più. Doveva essere una bella giornata, per Britta. Ma lei sentiva l'estremo bisogno di correre sotto alla furia degli elementi e lasciare libero il lupo, voleva correre tra la pioggia sferzante e le folate gelide. L'unica sfuggente gioia a esserle rimasta.

Strinse la presa sulla porta, fredda contro la sua pelle accaldata. Mentre scrutava la scena, le mani dei due ancora intrecciate, il sangue iniziò a pompare impetuoso.

Ignorata.

Tradita.

Traditrice.

Lei era tutto questo.

Mamma... dove sei?

Le sembrava di essere tornata bambina, quando usciva dalla sua stanza nel mezzo della notte e si perdeva nel buio e chiamava, urlava e piangeva... ma nessuno veniva mai a salvarla. Era sempre stata sola. Ed era stanca di mostrarsi cattiva, di impersonare quel ruolo crudele che le avevano affibbiato. Era comico il fatto che potesse avere un attimo di tregua solo quando era in presenza di Zoë, quando tutti credevano che fingesse ma in realtà toglieva davvero la maschera.

È colpa
tua.

Ma non poteva incolpare nessuno se non se stessa. Si era cacciata in quella situazione con le proprie mani e ora ne pagava le conseguenze, lontana dall'Ungheria e dalle persone che avevano davvero tenuto a lei.

La sua vita era un disastro.

Aveva rovinato tutto.

Mentre rincorreva questi pensieri cupi – ed essi rincorrevano lei –, un rumore interruppe il silenzio della stanza in cui era nascosta. Senza pensarci si voltò e sbatté l'uscio alle proprie spalle. I suoi occhi si accesero nell'oscurità e un ringhio le crebbe in gola.

«Oh, Móreen!» squittì Áshildur dall'altra parte della camera, chinando il capo mortificata. «Chiedo scusa. Non credevo fossi qui, non era mia intenzione disturbarti» disse in islandese.

Móreen rimase immobile, pur sollevando il mento. La figlia dell'inverno portava un cesto bianco sotto al braccio, pieno di panni piegati che avevano tutta l'aria di appartenere ad Aušrius, fra camicie a quadri, jeans rovinati e una giacca.

Dopo qualche secondo la donna calmò il respiro e tornò ad assumere sembianze umane. Sollevando un sopracciglio scrutò la serva, che teneva ancora la testa bassa. «Alza la testa, Veturinn» replicò. «Non morirai quest'oggi.»

La ragazza fece come ordinato e puntò gli occhi cremisi nei suoi, prima di accennare a un inchino. Móreen mosse la mano in un gesto vago e sibilò un «va' pure». Áshildur non se lo fece ripetere e in poco meno di tre secondi si volatilizzò, uscendo da dove era entrata.

Non appena fu di nuovo sola, la donna rilasciò la tensione trattenuta e si fece scappare un sospiro. Poi si girò di nuovo verso l'uscio, aprendolo senza fare rumore, e mettendo fuori la testa riportò lo sguardo sul corridoio. Nel punto dove c'erano stati Victor e Zoë ora c'era solo un sentore di rose e narcisi.

* * *

Erano appena scattate le tre e Victor camminava lungo il corridoio nord del primo piano. Aveva trascorso l'intera mattina con Zoë e le ultime tre ore chiuso in camera con lei; non ricordava di aver passato un pomeriggio migliore negli ultimi duecento anni.

Quando si era dovuto congedare, un malessere si era diffuso nel suo petto. Nelle ultime due settimane aveva tentato di evitarla, senza dare nell'occhio per non insospettire Dimitar, seppur tenendola sempre sotto controllo. I sogni, dalla notte in cui lo aveva rifiutato e lui aveva quasi ucciso Richard, erano peggiorati. Ci aveva rimuginato sopra un bel po', per trovare un senso alla situazione, ma niente era stato in grado di dargli una risposta.

I libri che consultava, dimenticati nelle sezioni più buie della biblioteca, non sembravano contenere alcuna spiegazione. Ma più i giorni si protraevano e più Victor seguiva le direttive del fratello, più le notti si facevano oscure e soffocanti. I sogni si erano tramutati in incubi: la voce della donna misteriosa cresceva sempre più pressante, ansiosa, e lui poteva udire una nota di rabbia sotto alle sue parole dolci. L'atmosfera che all'inizio era stata magica e leggera ora era cupa, e risate maligne accompagnavano i pianti di Zoë. E man mano diventavano sempre più vividi.

Neppure i tomi più antichi degli Auctores o dei narratori perduti riuscivano a dargli qualche idea. L'unica cosa che si avvicinava a quello che stava vivendo l'aveva trovata nella cripta del fratello.

Dimitar, da che Victor ne aveva ricordi, era sempre stato affascinato dalle profezie e dalle poesie dei Tåkete, come lo era stato loro padre prima di lui. La dinastia dei velati era una delle più antiche, quasi contemporanea a quella dei Farkas, e per secoli l'intera corte si era rivolta a loro per conoscere il futuro. Tuttavia la loro capacità di preveggenza poteva essere tanto precisa quanto terribile, poiché una volta che un tåket annunciava un evento futuro, questo si avverava, sia nel bene che nel male.

Ma interpretarli non era mai facile. I giochi di parole che coinvolgevano le loro profezie erano quantomeno contorti, e per questa ragione Victor aveva sempre preferito tenersene alla larga. Molti erano disposti a pagare qualunque prezzo pur di essere illuminati da un tåket, ma non lui; sua madre lo aveva messo in guardia dall'ossessione di suo padre, spaventandolo abbastanza per il resto della vita.

E quando aveva deciso di recarsi alla cripta lo aveva fatto in piena notte, per essere sicuro di non venire scoperto.

Negli anni la collezione di Dimitar aveva continuato a espandersi, in una ricerca disperata, fino a quando, circa centocinquant'anni prima, Mitrej non si era fermato e aveva dato fuoco alla maggior parte dei tomi raccolti. I superstiti, quelli che ora riempivano gli scaffali polverosi nella stanza chiusa a chiave, erano circa una quindicina. Victor non li aveva mai letti, si era sempre rifiutato nonostante il fascino che instillavano in lui, ma la stanchezza che lo sfibrava lo aveva spinto a superare quel limite. Se ne sarebbe pentito per il resto della vita? Sì. Avrebbe tradito la memoria della madre rompendo quella promessa? Sì. Ma avrebbe potuto scoprire qualcosa sul tormento che non gli dava pace. In ogni caso sua madre non era più lì per rattristarsi.

Perciò, in una notte d'insonnia, aveva forzato la serratura con una delle forcine di Móreen, non senza imprecare per la fatica e resistendo all'impulso di chiamare Aušrius, e chiudendosi dentro aveva letto fino all'alba.

La maggior parte delle profezie erano inutili e riguardavano dei soggetti in particolare che lui non conosceva, ma fra di esse ce n'erano state due ad attirare la sua attenzione. Erano antiche, questo era certo, e nel momento in cui i suoi occhi vi si erano posati era successa una cosa che – a giorni di distanza – ancora non sapeva spiegarsi: un soffio gelido gli aveva percorso la schiena nuda e le fiamme delle candele si erano spente. Quando, dopo essere tornato in camera, si era guardato allo specchio, aveva trovato un graffio rosso che andava dalle scapole ai fianchi.

E forse non avrebbe dovuto, ma aveva strappato le profezie dai tomi prima di rimetterli a posto.

Mentre ora avanzava, diretto dal fratello, l'immagine dei fogli piegati con cura e nascosti sotto al suo letto pesava nella sua mente quanto i suoi incubi notturni. Non osava pensare a cosa sarebbe successo se Dimitar avesse scoperto cos'aveva fatto.

Negli ultimi cinque giorni aveva letto e riletto quelle righe ordinate, scritte su carta porosa e giallognola, per imprimersele nella mente e riuscire in qualche modo a decifrarle. Ma nessuna ora spesa alla finestra a guardare la pioggia o corsa solitaria nel bosco lo aveva aiutato. Sapeva che qualcosa gli stava sfuggendo.

Victor non era uno sciocco, era cosciente che la sua stava diventando un'ossessione, uno spettro di quello che secoli prima aveva distrutto suo padre, prima che la guerra se lo portasse definitivamente via, ed era cosciente che più s'incaponiva più dava potere a qualunque cosa lo stesse tallonando. Più pensava alle lacrime di Zoë e il fischio di quel pugnale nell'aria più sentiva il bisogno di averla vicino, per essere sicuro che fosse ancora viva.

Qualcosa nei piani stava andando molto, molto storto, e sperava che nessuno fosse stato testimone degli eventi della notte prima. Andare da Zoë non era stata una scelta volontaria, si era distratto e i suoi piedi avevano preso il controllo, portandolo alla sua porta. Perché era stato difficile non baciarla, nella serra, seppure vederla in difficoltà lo avesse divertito, e il suo cuore, ogni volta che parlava con Mitrej, s'infervorava di sprezzo. Zoë pareva un sole nel suo ammasso di oscurità, l'unica cosa capace di distrarlo. La causa e la soluzione allo stesso problema.

Quello che era successo dopo non era stata sua intenzione: il senso di colpa gli attanagliava le viscere, ma Victor non si era fermato, aveva assecondato la fame che aveva visto nei suoi occhi.

Aveva avuto molti amanti, nel corso dei secoli, divertimenti casuali e che non si ripetevano mai con la stessa persona, ma svegliarsi al loro fianco non era mai stata un'opzione contemplabile. O cacciava loro o se ne andava lui nel cuore della notte, mentre dormivano. Per la seconda volta nella sua vita, però, si era trovato dall'altra parte, quando prima di crollare nel sonno aveva avuto paura di svegliarsi da solo.

E quella notte non aveva sognato.

Stava ancora cerca di capire cosa ciò volesse significare.

Stringendo e rilasciando il pugno, Victor alzò lo sguardo. A qualche passo da lui, poggiato allo stipite di una porta, Aušrius premeva due dita su una pallina da tennis, lanciandola e riprendendola al volo. Il suo sguardo era rivolto al pavimento, ma sembrava osservare qualcosa che si trovava oltre esso, qualcosa che lui non avrebbe mai potuto vedere.

Tuttavia, quando Victor si avvicinò circospetto, sospirò e schiuse le labbra: «Immagino che anche questo pomeriggio andrà a puttane.»

Lui, mettendo da parte i pensieri su Zoë per impedirgli di leggerli, inarcò un sopracciglio. «Ha convocato anche te?»

«Esattamente.» Aušrius afferrò la pallina mentre cadeva e si girò verso di lui. I suoi occhi erano contornati da un alone scuro, che faceva apparire la carnagione più emaciata. Suo fratello sembrava scomparire un po' alla volta ogni anno.

Aušrius lo scrutò in silenzio, le iridi acquamarina che sondavano il suo viso e la sua mente; in passato gli aveva fatto giurare di non farlo, di non leggere i suoi pensieri, e seppure lui glielo avesse promesso Victor sapeva che non avrebbe rispettato quel giuramento. Le labbra del ragazzo si tirarono in un sorriso triste e così flebile da poter essere notato a fatica. «Non ti crucciare per me» intervenne, «preoccupati piuttosto di tenere fuori Dimitar da quello che non vuoi che sappia.»

Una fitta gli attraversò il costato e si lasciò scappare un soffio fra le labbra. «Di cosa diavolo stai parlando?» Si costrinse a mantenersi neutro, un accenno di confusione appena poggiato sulla lingua.

Il fratello si staccò dalla parete con una spinta e inclinò la testa. «Andiamo» portò indietro il capo, «sai che dormo di rado. Secondo te cosa faccio di notte? Ricamo?»

La saliva che stava deglutendo assunse il sapore aspro della paura.

Spia.
Il
fratello
giusto.

«Cosa...»

«... so?» replicò l'altro, strisciando la suola dell'anfibio rosso a terra. Alzò la mano destra in aria, quella che teneva la pallina, e puntellò l'oggetto con indice e medio. «Che sei andato in un luogo in cui non saresti dovuto andare.»

Victor socchiuse gli occhi e fece scattare il braccio sinistro in avanti per afferrargli la camicia, ma Aušrius fu più furbo e indietreggiò. «Come accidenti fai a saperlo?» sibilò, lanciando un'occhiata al corridoio.

Il giovane scosse le spalle e si chinò: «Stai tranquillo, non dirò niente. Anch'io vado in luoghi da cui dovrei stare alla larga e non sono così stupido da tradirmi da solo.» Fece una pausa, in cui si studiarono reciprocamente. «Ma non capisco perché la cripta.»

Victor allungò di nuovo la mano, stavolta abbastanza veloce da posarla sulla sua bocca. Si guardò attorno, sussurrandogli uno «shhh». «Devo ricordarti io che qui le pareti hanno le orecchie?»

Aušrius gli colpì il polso con la mano libera, spostandoglielo. «Non c'è nessuno. Altrimenti lo saprei.»

«Fa' comunque attenzione. Se Dimitar scopre che sono stato nella cripta mi uccide. E se scopre che tu lo sapevi e non glielo hai detto uccide anche te.»

Aušrius scoppiò in una risatina amara. «Non ha bisogno di quella scusa.»

Aveva ragione, suo fratello sapeva meglio di lui cosa comportava far arrabbiare Mitrej. «Hai ragione... scusa.»

«Non capisco comunque perché tu ci sia andato.»

«Lascia stare.» Il ragazzo inarcò un sopracciglio, prima di incrociare le braccia al petto. Victor sbuffò. «Piantala, non sono cose che ti riguardano.»

Lui lo studiò ancora per qualche secondo, prima di scuotere il capo e riportare le braccia lungo i fianchi. «Come vuoi.» Poi, senza aggiungere altro, gli diede le spalle e si incamminò. «Comunque ti stavo aspettando.»

Victor, ignorando il malumore che grattava dietro al suo orecchio come un diavolo sulla spalla, si affrettò a seguirlo. «Indovino: non hai le palle di entrare senza di me?» usò un tono più acido di quanto avrebbe voluto, ma non fece nulla per apparire meno scocciato.

«Ora non fare lo stronzo.»

«E tu piantala di seguirmi. Sei inquietante.»

Aušrius sorrise, tirando l'angolo delle labbra in un ghigno. «Ti sei divertito ieri notte?»

«Vaffanculo.»

Il ragazzo scoppiò a ridere, ma lui lo ignorò: ormai ci era abituato, aveva trascorso più tempo con lui e a guardargli le spalle di quanto ne avesse speso per se stesso o chiunque altro.

Mentre camminavano fianco a fianco, Victor pensò di nuovo a Zoë, a cosa poteva star facendo, se anche lei stava pensando a lui. Sapeva che era sbagliato, che l'unica cosa a cui lo avrebbe portato sarebbe stata l'eresia, ma questo non lo fermò. Se Aušrius lo notò, tuttavia, non lo diede a vedere.

Quando pochi minuti dopo si fermarono di fronte alla porta chiusa dell'ufficio, fu Victor a bussare, mentre Aušrius teneva la testa china e si guardava le unghie. Nel momento in cui la voce soffocata di Dimitar disse loro di entrare, Victor poggiò la mano sinistra fra le scapole del fratello, guardandolo prima di dargli una pacca d'incoraggiamento. Poteva immaginare cosa stesse provando, anche lui era stato il fratello più piccolo, un tempo. Il ragazzo annuì, dopodiché entrarono.

Dimitar sedeva sulla sedia di pelle, l'attenzione catturata dallo schermo luminoso di un portatile, poggiato di traverso davanti a lui e in precario equilibrio su un angolo della scrivania. Portava gli occhiali a cavallo del naso e i capelli sciolti, che in liscissime ciocche nere gli ricadevano sulle spalle. Victor aveva faticato ad abituarsi al suo nuovo aspetto: Mitrej aveva avuto l'abitudine, un tempo, di cambiare corpo una volta ogni due anni. Ogni volta che prendeva un nuovo aspetto, però, le caratteristiche fisiche erano sempre le stesse: capelli biondi e occhi azzurri, come a riportare in vita il corpo che aveva abbandonato e dimenticato secoli prima.

Ma attorno al 1760 Dimitar aveva deciso di fermarsi e da allora non aveva più avuto altro volto che quello: capelli scuri, carnagione pallida e lineamenti tutto tranne che nordici.

«Siete in ritardo» disse, digitando sulla tastiera.

Victor lo scrutò, la camicia bianca stropicciata e la cravatta sciolta, ma non rispose. L'altro sollevò lo sguardo per portarlo su di loro. «Beh?» inarcò un sopracciglio, togliendo gli occhiali. Quando vide che i due erano ancora impalati sull'entrata raddrizzò la schiena e si poggiò allo schienale. «Avete intenzione di restare lì in piedi per tutto il tempo?» sibilò. «Ci aspetta una lunga riunione.»

Betaggio di Sayami98
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