24. Something lost
Canzone nei media:
Stranger - SKYLR
"Nel tuo giro inquieto
ormai lo stesso sapore
han miele e assenzio."
(Eugenio Montale)
❇
Battei le palpebre.
Poggiavo su un cuscino e sotto il mio collo c'era un braccio dalla pelle olivastra. Lenzuola verdi mi coprivano appena sopra il seno e una mano era abbandonata sul mio fianco sinistro.
Chiusi e riaprii ancora una volta gli occhi e portai lo sguardo sul mio avambraccio, pallido contro il copriletto nero. Mi soffermai sul tatuaggio, una rosa circondata da foglie e rovi, che mi attorcigliava attorno al braccio. Lo avevo fatto a sedici anni, senza che i miei genitori lo sapessero, perché volevo qualcosa che mi ricordasse che ero più forte di quanto la gente credesse. Era buffo, adesso, pensare a dove mi trovassi e che in quel luogo erano ovunque: nell'aria, sugli abiti, sulle persone. Forse ero sempre stata destinata a trovarmi lì.
La
verità
ribolle.
La mia mano, poco più in alto, era intrecciata a quella dell'uomo che - appena dietro di me - ancora dormiva. Quando mi ero svegliata ero rimasta spaesata: la mia mente assonnata ci aveva messo un attimo per collegare gli eventi della notte prima al luogo in cui mi trovavo e alla persona che riposava al mio fianco.
A dir la verità ero ancora un po' smarrita, incredula che fosse successo davvero: non avrei mai immaginato che le cose potessero evolversi così rapidamente.
Il solitario raggio di sole che entrava dalla finestra dietro di noi illuminava il mobilio. Non avevo mai visto la sua stanza e non pensavo sarebbe mai accaduto - non che, per l'appunto, la cosa mi premesse più di tanto -, ma trovarmi lì dava alla situazione un altro sapore. Non mi aveva riportata alla mia camera, ci aveva portati nella sua. E conoscendolo questo significava qualcosa.
Le pareti erano spoglie e se non fosse stato per l'arredamento neo-classico la stanza sarebbe stata vuota- per quel che ero in grado di scorgere, senza muovermi e rischiare di svegliarlo, non c'erano oggetti personali in bella vista, e persino il comodino era vuoto, se non per un piccolo centrino bianco. L'unica cosa che mi faceva riconoscere la camera come sua era l'odore che permeava aria e coperte - così forte da farmi girare la testa. Rose selvatiche. Dolci. Delicate. Inebrianti.
Dietro di me sentii Victor inspirare a fondo, allargando il petto e schiacciandosi contro di me. Temetti si stesse per svegliare, ma un minuto dopo ancora dormiva.
Non avevo idea di dove fossero finiti i miei vestiti e, seppure lo avessi visto nudo solo poche ore prima, il fatto che il suo corpo fosse premuto contro di me mi faceva mancare il respiro. Il ricordo di quello che avevamo fatto tra quelle lenzuola mi mandava nel pallone: ogni volta che mi soffermavo su quei fotogrammi, su un centimetro casuale della sua pelle, sulle sue mani che percorrevano il mio corpo, sulla sua bocca contro la mia e sulla sensazione di appagamento, la mia faccia andava a fuoco. Per poche ore lui aveva cancellato il vuoto che c'era dentro di me e, ora che era tutto finito, mi chiedevo come fosse potuto succedere, cosa mi avesse spinto a lasciarmi andare.
Il ricordo del desiderio che mi aveva mosso era forte, nonostante la fame si fosse spenta e quello che ne restava non fosse che una copia blanda che ancora tuonava - da qualche parte - in profondità. Il sole, come predetto, aveva cambiato tutto, tanto che ero certa che - se la situazione si fosse riproposta - le cose sarebbero andare diversamente. Non ero pentita, quello no, ero solo cosciente che sotto alla luce della luna e dietro a un inconsistente velo azzurro, tutto poteva assumere un altro aspetto: rischiarata dalla luna, nella penombra, anche una rosa può sembrare senza spine.
Era stato meraviglioso, su questo non potevo contestare: per la prima volta dopo un sacco di tempo mi ero sentita libera e bellissima e - sotto alle sue dita e spinta contro la sua pelle rovente - normale, accettata. A casa, con i miei genitori, con Richard, al lavoro, ero sempre Zoë, la ragazza con un problema nella gestione della rabbia, che percepiva cose che non esistevano e doveva ingerire delle pillole per dormire e scappare a incubi febbrili. Per quanto mi amassero, le persone che mi stavano vicine mi ricordavano quanto fossi sbagliata, che dovevo seguire una terapia e che al mercoledì pomeriggio avevo la seduta da Mr. Cooper... Ma alla magione era diverso: lì potevo essere un'altra Zoë. Con Victor non ero pazza, a Victor non interessava chi ero stata prima, quello era il passato, un'altra vita. Con lui avrei potuto essere Marie. E forse era stato questo a portarmi a cercarlo, a baciarlo, e a seguirlo nella sua camera, a togliermi i vestiti e a permettergli di invadere ogni parte di me.
E ora che sapevo com'era glielo avrei permesso di nuovo.
L'idea che fosse stato un errore non mi aveva nemmeno lontanamente sfiorata.
Sistemai meglio la testa sul cuscino. Non volevo alzarmi, non volevo abbandonare il calore di quel letto e tornare alla freddezza di ogni giorno, in cui non sapevo cosa aspettarmi da lui. Finché restavo stesa e Victor mi abbracciava la notte non era finita e il sole non poteva raggiungerci.
La notte non era mai stata il mio posto, non con le cose che vedevo nel buio... ma forse le cose stavano iniziando a cambiare.
Qualche secondo dopo, Victor sospirò, facendo scivolare il braccio sinistro attorno al mio fianco e posando la mano aperta sul mio ventre. Strofinò il mento contro la mia spalla sinistra e sentii le sue labbra tirarsi. «Buongiorno» mormorò con voce ruvida.
Abbassai lo sguardo, non riuscendo a trattenere un sorriso. «Buongiorno.»
«Che ore sono?»
«Non ne ho idea.»
Si avvicinò di più e aumentò la presa, come temesse potessi sgusciare via.
Fuggi.
No,
lei non
lo farà.
«Bene, perché tanto non mi interessa.»
Risi piano, «Non avremmo delle cose da fare, stamattina?»
«Ad esempio?» Lo sentii carezzarmi il fianco e il cuore rischiò di esplodermi nel petto. Non riuscivo a capacitarmi della posizione in cui eravamo stesi e che nonostante questo stessimo discutendo normalmente, come se non fossimo andati a letto insieme.
«Non saprei... lezione in biblioteca?»
«Non c'è alcuna regola a imporcelo» rispose. Si accostò alla mia guancia. «Possiamo fare lezione qui» sussurrò.
La saliva mi si incastrò in gola, al significato implicito della frase: nessuno ci costringeva a uscire da quella stanza, potevamo restare lì e ripetere l'esperienza. Una parte di me diceva di no, che abbandonarsi di nuovo a lui era sbagliato, che per quanto la magione fosse una nebbia morbida e occludente la mia vita era fuori da quella foschia... ma come ho detto, ero già pronta a dargli qualsiasi cosa di nuovo. L'altra parte di me, quella che aveva fame e, infida, sussurrava che nessuno poteva giudicarmi e che avevo bisogno di quella sensazione, del vuoto che solo Victor sembrava capace di riempire... portava argomentazioni davvero logiche. Ero stata bene, perché non stare bene ancora?
Stavo iniziando a ideare come scollegare quelle parti di me: una era Zoë, la voce della ragione, quella che voleva delle regole da seguire, e Marie. Marie era la voce della disperazione, un sussurro che era sempre stato dentro di me, ma che avevo sempre respinto. Lei era la fame, un crepaccio profondo in cui, se avessi messo male il piede, sarei caduta. Era un vortice pronto a investirmi, come l'Æternae, e questo mi faceva pensare che forse non ero così diversa dalle creature con cui vivevo ora. E forse Marie non aveva tutti i torti.
Girai la testa, per portare gli occhi in quelli di Victor. Non so cos'avessi in mente, se fossi sicura che, quando i nostri sguardi si sarebbero incontrati, le cose avrebbero mantenuto quella fragile parvenza di normalità, che non mi sarei sentita stupida. Fatto sta che, invece, quando il verde slavato delle sue iridi fu la sola cosa chiara nel mio campo visivo, il senso delle parole che volevo dire sparì e le lettere si mescolarono: sotto al magnetismo dei suoi occhi non riuscivo a parlare.
Boccheggiai, brividi di freddo che correvano sulle porzioni di pelle esposta. La sua mano mi ancorava a quel letto come una catena: non sarei stata in grado di andarmene nemmeno se avessi voluto. Il fatto era che... non volevo.
Vidi l'angolo delle sue labbra tirarsi leggermente. «Che c'è, enkelin?»
Mandai giù un grumo di saliva, respirando a scatti. Com'era successo? Come, una creatura pericolosa e bellissima come Victor, mi aveva notata? Cosa ci trovava in me? Io ero solo Miss Madness.
No.
No, non lo ero.
Senza dire nulla ruotai sul fianco sinistro, così da essere rivolta verso di lui. Portai le mani sotto alla testa, indifferente se le lenzuola mi coprissero o meno, e lo studiai per un po', osservando il suo viso come se fosse la mia ultima occasione. Volevo imparare a memoria i suoi lineamenti, così da poterli riportare alla mente quando mi avrebbe di nuovo voltato le spalle.
Comico come passassi dalla padella alla brace.
«Penso di averti sognato» dissi, interrompendo il silenzio.
Lui, ancora guardandomi, scosse il capo ridendo. «Ho fatto una così buona impressione?»
«Non parlo di stanotte.»
La sua risata si spense e il suo sorriso si gelò. «... Cosa intendi?» Vidi i suoi occhi farsi distanti e sentii il ghiaccio tornare fra di noi. No, non doveva succedere, non poteva finire tutto così.
«Prima di incontrarti» mi affrettai a spiegare, con tono neutro. «Penso di averti sognato.»
La confusione sostituì la brina. Meglio, quella potevo gestirla. «Di... di che stai parlando?»
«Circa una settimana prima che tu mi portassi qui... ho iniziato a fare dei sogni strani. Per la maggior parte della mia vita sono stata scossa da incubi veramente terrificanti, ogni notte. Ma poco prima di conoscerti ho iniziato a... sognare. Vedevo una casa fra i boschi, un sentiero, e un uomo.» Feci una paura, osservandolo per carpire qualcosa di quello che pensava. «Non l'ho mai visto in faccia, sentivo solo la sua voce e vedevo i suoi occhi e, beh... tu sei praticamente uguale.» Sollevai le spalle, con un sorriso vago. Non ero sicura del perché glielo stessi raccontando, pareva un buon momento.
Victor deglutì a fatica, chiaramente scosso. «E lo sogni ancora?»
«A dir la verità no, i sogni sono finiti il giorno stesso in cui sono arrivata qui.»
«E gli incubi?» domandò, da qualche parte fra perplessità e preoccupazione. «Di che genere di incubi si tratta?»
«Oh, è un po' difficile da spiegare. Dipende da notte a notte, ma la maggior parte del tempo sono...» abbassai lo sguardo, alla ricerca del termine adatto. Feci scorrere gli occhi sul suo petto e mi distrassi.
Come sarebbe
passarci di nuovo
le mani?
Mi leccai le labbra. «Terribili?» intervenne lui.
«Sì» non rialzai il capo. «In quegli incubi sono me stessa, almeno credo, e mi trovo in luoghi che non ho mai visto. Non saprei descriverteli, se non per un elemento ricorrente: l'assenza totale di luce. Io non ho paura del buio in sé, ma negli incubi... non è un'oscurità normale, è viva. E mi ingoia.»
«Da quanto va avanti?»
«Da quando mi sono trasferita in Inghilterra, o appena dopo. Da quando avevo nove anni.»
Victor portò la mano al mio mento e mi costrinse con delicatezza a sollevarlo. Cercai di non guardarlo negli occhi, ma quando si accorse che li evitavo mi sussurrò un «ehi» che fece spandere un fuoco dentro le mie vene. Non era divampante o disperato, era solo caldo, dolce, come un camino acceso in una sera d'inverno. Mi ricordava casa mia, non quella in Cornovaglia, quella a Kajaani. Perciò lo guardai e Victor chinò la testa verso di me. «Ed è solo il buio che vedi?»
«No, o almeno non sempre. La maggior parte delle volte ci sono cose, nel buio. Io cerco di evitarle, di nascondermi, ma loro mi sentono sempre. E mi trovano.» Tacqui, facendo pesare quelle parole. «A volte sono in gruppo e mi danno la caccia... ma quando sono da sole è peggio, perché sono le più spaventose.
«E quando ti trovano cosa succede?»
Non sapevo definire se la sua fosse semplice curiosità o se sotto ci fosse di più. Ero sicura solo di una cosa: non mi stava deridendo né giudicando; non si stava comportando come mi sarei aspettata, né come facevano tutti gli altri, i quali mi squadravano con pietà - come Richard - o ridevano alle mie spalle - come Charlotte Garrett e le sue arpie. Victor voleva solo sapere, il suo era un interesse genuino, e non avevo motivo di nascondere tutto, stavolta la maschera non serviva.
«Dipende. Ci sono incubi in cui mi uccidono, in alcuni mi fanno del male ripetutamente e in altri mi divorano. A volte mi sveglio semplicemente prima che mi tocchino. E spesso i mostri che ho già visto ritornano.»
«E...»
Lo interruppi: «Ma ora gli incubi sono spariti.»
«Cosa... in che senso?»
«Da quando sono alla magione non ho più avuto incubi.»
Victor mi scrutò sorpreso, con le labbra serrate, prima di sbattere le palpebre. Dopo, i suoi occhi diventarono vitrei. «Mi hai sognato di nuovo, da quando sei qui?»
«No. Hai delle idee sul perché?»
Lui non replicò, limitandosi a fissarmi come volesse leggermi la mente, ma alla fine si diede una scrollata. «No.» Una voce, un sussurro ai confini della mia coscienza, diceva che non era del tutto sincero, ma non ascoltai. Perché avrebbe dovuto mentire? «Però ritengo vi sia una ragione, ai tuoi incubi.»
Le sue parole mi colpirono come acqua gelata. «Cioè?»
«Credo sia l'enkelin in te.» Quando lo scrutai confusa, si affrettò ad aggiungere: «Tu non hai mai eseguito il rituale per diventare immortale, quindi l'enkelin non è stato liberato. Lo hai tenuto sopito e vivere tra gli umani, come gli umani, ha peggiorato la sua condizione.»
«Ma mia madre non ha mai avuto questo problema.»
«Probabilmente perché è meno forte di te.» Mi afferrò dolcemente per le spalle. «Il sangue che ti scorre nelle vene è potente, Zoë. Per questo facevi quegli incubi: l'enkelin stava impazzendo, aveva bisogno dei suoi simili.»
«Lo credi davvero?»
«Sì.»
«Quindi... è per questo che ora non li faccio più.»
«Esatto.» Il sorriso che si aprì sul suo volto avrebbe potuto rischiarare la stanza e la sua gioia strisciò fino a me. Fu quella a spingermi ad azzerare la distanza fra noi. Portai le braccia alle sue spalle e gli affondai le mani fra i capelli. Intuii che voleva parlare, ma la domanda rimase sulla punta della sua lingua quando lo baciai. Lo sentii irrigidirsi, prima di ricambiare. Alla luce del giorno le sue labbra avevano un sapore diverso, non più fuoco liquido ma un miele dolce che scendeva fino al mio cuore e lo avvolgeva. Cos'avrei dato per provare in eterno quella sensazione, cos'avrei dato perché Richard fosse anche solo un terzo di ciò ce era Victor.
Con un sospiro lui si scostò, poggiando la fronte contro la mia. «Non credevo ne saresti stata capace» disse, respirandomi sulle labbra.
«Di cosa?»
«Di cedere così in fretta.»
Inarcai un sopracciglio e un moto di risa mi esplose di gola. «Cedere?» Risi ancora, «Non ti è venuto in mente che, forse, è stata una mia decisione?»
«Non intendevo questo. Credevo... non so, che non mi volessi abbastanza, che il ricordo del tuo ex fosse ancora troppo fresco.»
«No, aspetta» lo fermai, posando una mano sul suo petto. «Tu, l'infallibile Victor Demonai, diva tra le dive, temevi che io non ti volessi abbastanza?»
Lui distolse lo sguardo, tentennando. «Non che mi importasse realmente, sia chiaro.»
«Ah, beh, ovviamente» lo presi in giro.
Victor sorrise piano e scosse il capo. «Non ti montare la testa, enkelin.»
Quando la sua voce si spense non riuscimmo a fare altro che guardarci negli occhi. Da oltre la porta d'entrata, alle mie spalle, non provenivano suoni, come se nessun altro fosse sveglio. O come se fossimo gli unici presenti, in una casa fatta di mistero e stanze segrete, pregna di un'epoca passata e ferma in una frazione immobile d'eternità. Victor aveva ragione: nessuno poteva costringerci a rivestirci, a riaffiorare nel mondo reale e tornare a non sopportarci come sempre. Avremmo potuto rimanere lì e ignorare tutto il resto. Ma poi lui schiuse le labbra e mi chiese: «Ti va di andare a fare colazione?» e ogni castello crollò.
L'idea di alzarmi dal letto e infilarmi di nuovo i vestiti mi parve spaventosa. Immaginavo me stessa sedermi, dargli le spalle e avviarmi alla porta; appena saremmo usciti lui mi avrebbe voltato la schiena allo stesso modo, solo per non guardarmi mai più e farmi capire di essere stata una stupida, di essermi concessa alla persona sbagliata. Victor poteva essere un miele dolcissimo, se lo voleva, ma ero consapevole che - dietro quella facciata e nemmeno tanto in profondità - era assenzio. Era la serpe nascosta fra le rose. E io stavo giocando con il fuoco.
«Me lo stai chiedendo davvero? Oppure è un modo carino di dirmi di andarmene?»
La presa dei suoi polpastrelli sul mio fianco si fece più forte. «Se avessi voluto te ne andassi non saresti ancora qui.»
«Diretto» replicai, soffocando il desiderio di baciarlo di nuovo.
Probabilmente ero pazza.
Seguilo
fino
all'inferno.
«Mi sembrava ti fosse piaciuto» fu la sua risposta.
Mi lasciai scappare un sorriso. «Forse.»
Lui ridacchiò. «Comunque no, parlavo sul serio. Vuoi fare colazione con me?»
Lo osservai. Non avevo idea di quale fosse la scelta giusta, in quella situazione: andare a letto con lui non era stata una decisione saggia, ma non me ne ero pentita, quindi che male avrebbe potuto fare una colazione insieme? Dopotutto già condividevamo pranzi e cene. Avevo la sensazione che la mia risposta avessi un'importanza cruciale, ma il dubbio che lui sarebbe tornato a ignorarmi, non appena la sensazione di novità sarebbe sparita, non se ne andava.
«Perché no» dissi con un sorriso a trentadue denti. «Sempre meglio che farla da sola.»
«Felice di sapere che la mia presenza funga solo da tappabuchi.»
Non risposi, limitandomi a ridere. Mi misi a sedere e scostai le lenzuola. Lì a terra, in una massa informe, c'era il mio pigiama, mischiato con alcuni dei suoi, precedenti alla notte trascorsa. La sua camera poteva essere impersonale allo strenuo, ma di certo non si poteva dire che fosse ordinato: alcuni pantaloni, maglie e calzini spaiati giacevano abbandonati sul legno, a prendere polvere. Questo lo fece sembrare meno surreale.
Mentre raccoglievo le mie cose sentii Victor alzarsi con uno sbuffo e stiracchiarsi. «Sai» esordì d'un tratto, nell'istante stesso in cui a fatica mi rimettevo la biancheria, «non credevo saresti rimasta. Ti immaginavo diversa.»
«Cosa intendi?»
«Ero convinto che non ti avrei trovata, quando mi sarei svegliato. Che te ne saresti andata non appena mi sarei addormentato o ti fossi svegliata.» Fece una pausa e udii il frusciare di un paio di jeans. Dove li aveva trovati? Era così tanto disordinato? «Ma non credevo nemmeno avresti avuto tutta questa nonchalance nel restare nuda davanti a me.»
Iniziai a infilarmi i pantaloni. «Non capisco se questa tua idea di me sia positiva o negativa.»
«Se devo essere sincero non lo so nemmeno io. Semplicemente ti ritenevo più... pudica.»
«Cadi male» replicai, digrignando i denti nel dare uno strattone ai leggings. «Non mi sono mai posta problemi a riguardo.» Pensai se dirlo o meno, ma alla fine decisi che non poteva fare alcun male: «Non sei certo il primo con cui passo una notte senza pensarci troppo. E non sarai nemmeno l'ultimo.»
Victor non rispose subito, ma quando lo fece era accanto al mio orecchio. «Non so bene come questa cosa mi faccia sentire.» Fece un'altra pausa. «E ti sei svegliata accanto a ognuno dei miei predecessori?»
Ebbi l'impulso di sorridere, ma mi trattenni. «Assolutamente no.»
Anche se non potevo vederlo seppi che lui, al contrario, sorrise. «Devo sentirmi speciale?»
«Se ti fa stare meglio» scossi le spalle, allacciando il reggiseno.
Lui non disse nulla, ma un brivido interruppe i miei movimenti. Senza fiatare, Victor stava facendo scivolare un dito sulle linee del tatuaggio che copriva la mia scapola sinistra. Il suo tocco era gentile, quasi a fior di pelle, e mandava scosse lungo tutta la mia schiena, che mi facevano mancare il respiro.
«Folle Cappellaio, bevi il mio amore» lesse l'inchiostro sulla mia pelle, «e se hai fame divora la mia anima.» Attese qualche istante. «Coraggioso.»
«Mi sentivo in vena quando l'ho fatto.»
Lo sentii immobilizzarsi e lo immaginai fissare quelle stesse linee su cui aveva fatto passare le dita: le carte, il viso di Alice e il suo vestito dalla gonna gonfia, il cilindro che teneva in mano e il fumo che la circondava - e la figura oscura che incombeva su di lei. Era sciocco, ma una parte di me sperò che gli piacesse.
«Perché Alice nel Paese delle Meraviglie?» chiese allontanandosi da me.
«È la mia fiaba preferita» risposi serenamente, come se non avessi un magone bloccato nella trachea. «Ho visto ogni film eletto ogni libro che ne parlasse.»
«Pensavo che la tua fiaba preferita fosse qualcosa di più ovvio.»
Mi voltai verso di lui. «Tipo?»
«La Bella e la Bestia» disse con un ghigno.
Sbuffai e risi di gusto. «Mi spiace deluderti» dissi tornando a vestirmi, «ma la mia preferita è quella di Alice, subito seguita da Raperonzolo e Cappuccetto Rosso.»
«Continui a stupirmi, enkelin» fu il suo responso.
Una volta che fummo entrambi vestiti lui mi offrì una mano per aiutarmi ad alzarmi. Prima di uscire dalla stanza, senza che se ne accorgesse, lanciai un'ultima occhiata alla sua camera. Ero sicura che non l'avrei rivista molto presto, se non mai, e volevo imprimermi ogni tratto nella mente, nella sua entropia e nel suo caos.
Poi Victor mi trascinò fuori, chiuse l'uscio e dovetti rassegnarmi che il mattino era arrivato.
Il corridoio era vuoto e dalle ampie vetrate entrava la luce dorata del sole. Ero abituata alle giornate grigie, ma questa volta la luce era riuscita a oltrepassare la coltre di nubi.
I nostri passi erano attutiti sicché eravamo scalzi e nel seguire il corridoio ci trovammo alla parete davanti cui avevo transitato milioni di volte nelle ultime settimane. E milioni di volte lì mi ero fermata, studiando i volti dipinti appesi alla parete, nel tentativo di carpire qualcosa di più di coloro che rappresentavano.
Victor mi teneva la mano, proprio come la sera prima, e quando comprese cosa aveva attirato la mia attenzione si fermò. Nel portare gli occhi al suo ritratto ebbi una fitta allo stomaco: sostavo in quella parte del corridoio solo quando ero sicura di essere da sola, per questo era strano essere lì con lui. Era strano che fosse alla mia sinistra in carne e ossa, che mi fissasse, mentre la sua versione di tela, alla mia destra, guardava nel nulla.
Studiai tutti e tre i dipinti, i loro vestiti inamidati e i loro sguardi puntati verso l'infinito. I tre fratelli indossavano abiti diversi, ma dello stesso stampo: proprio come durante le cene, sembravano usciti da un'altra epoca. I colori di panciotto e camicia variavano. A Dimitar, sulla sinistra, erano stati assegnati un grigio metallizzato e una tonalità persa fra l'azzurrognolo e il cinereo, e fra le mani stringeva un bastone da passeggio nero con il pomolo a forma di cuore umano. Aušrius, sulla destra, era vestito di nero, l'unica variazione le stampe dorate a voluta del panciotto, e aveva le braccia stese lungo i fianchi. Victor, invece, situato al centro, era stato ritratto con un panciotto rosso cremisi decorato da rose scure e una camicia più nera di quella del fratello. Aveva una mano allungata verso l'osservatore e l'altra sollevata nell'aria, le dita che sfioravano la tesa di un cilindro scuro. Entrambe erano coperte da un paio di guanti neri. Con i suoi capelli chiari e lo sguardo algido sembrava un dandy senza cuore, oppure il presentatore di un circo maledetto.
«Ti piacciono?»
Mi ero talmente concentrata sui dipinti che, quando parlò, sussultai: mi ero dimenticata fosse lì con me. «Sì» mi costrinsi a rispondere, anche se con voce rauca. «Credo che, chiunque sia l'autore, sia stato capace di afferrarti appieno.»
«In che senso?»
Con la mano libera indicai il suo ritratto. «Ha dipinto la tua essenza, quella parte sfuggente di te che ti rimprovero ogni tanto.» Feci una pausa e mi passai la lingua sulle labbra. «Il tuo sguardo è gelido, il tuo viso inespressivo, ma inviti chi ti sta guardando a prendere la tua mano.» Mi fermai, tentennando, ma alla fine mi decisi a finire il discorso. «Ha l'aria ingannevole, come te. E credo che anche i colori scelti siano perfetti.» Mi girai a guardarlo. «Cremisi e nero, i colori che mi verrebbero in mente pensando a te.»
Lui mi fissò, senza dire niente, fino a quando un sorrisetto gli tirò le labbra. «Quel ritratto risale a molto tempo fa» spiegò posando gli occhi sulla sua immagine.
Lo imitai. «Sembri un dandy.»
Sbuffò. «Lo ero.»
«Lo sei ancora un po'.»
«Forse.»
Feci scorrere lo sguardo sui dipinti, uno dopo l'altro, avida. Poi abbassai gli occhi, e notai una cosa su cui non mi ero mai soffermata, troppo attirata dai quadri in sé: sotto ogni cornice c'era una targhetta dorata che riportava il nome completo di ogni fratello. Ma una era diversa dalle altre.
Dimitar Kornelijus Demonai.
Il ritratto del disprezzo, della superiorità, espresso sai suoi occhi azzurri come ghiaccio.
Aušrius Baltazaras Demonai.
Il ritratto del dolore, della solitudine, espresso dai lineamenti tesi.
Victor Demonai.
Il ritratto di un vortice affamato, divoratore di ogni cosa.
La sua targhetta era più chiara delle altre, come fosse stata cambiata in un secondo momento, e l'elemento stonante che notai fu il fatto che sia Dimitar che Aušrius avevano un secondo nome. Ma Victor no. Probabilmente era una cosa da nulla, niente su cui mi sarei dovuta soffermare... ma la sensazione che provai mi disse tutt'altro. Era un tuffo al cuore, i polmoni senz'aria, un bruciore agli occhi. Era la sensazione che avevo provato davanti alla bara di zia Eeva. La sensazione che proveresti pensando a qualcosa che è andato perso.
Lui
lo ha
nascosto.
«Victor?» esordii. Lui ancora mi stringeva la mano.
«Sì?»
«Tu non hai un secondo nome?» mi voltai verso di lui con tono sorpreso, fingendo che la fitta che mi attraversava le costole non ci fosse. Mentire per anni mi aveva insegnato qualcosa, alla fine.
Il suo sguardo si indurì e sentii il suo corpo farsi teso. La sua stretta sulla mia mano si fece più forte, ma non mi lasciò né si allontanò. «È... una storia lunga. I miei genitori non me ne hanno dato uno.»
No.
Non è
vero.
«Perché non a te ma ad Aušrius sì?» chiesi, perplessa, e nello stesso momento, in sottofondo, nel silenzio del corridoio si udì una porta sbattere.
«Ritenevano meglio così» replicò con una scrollata. Ci guardammo e vidi un'ombra passare nei suoi occhi. Non gli credevo, sapevo che stava mentendo, ma decisi che per stavolta potevo passarci sopra. Avevo la sensazione che non volesse parlarne e io non volevo rovinare la nostra tregua con domande che lo avrebbero ferito o alterato. Avrei conosciuto un piccolo pezzo alla volta. Anche se questo significava fingere di credere alle sue bugie.
«Va bene» annuii, aprendo le labbra in un sorriso. Strinsi anche io la presa sulla sua mano e indicai il corridoio. «Allora, andiamo a fare colazione? Il tempo passa e finirà per arrivare ora di pranzo. Tic-toc.»
L'ombra si dissolse e anche lui sorrise. «Certamente, sua maestà» esclamò ridendo, prima di avviarsi di tutta fretta e trascinarmi con sé.
Betaggio di Sayami98
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