22. The storm inside me
Canzone nei media:
When the dark falls - The Never Ending
"Battere le ali contro la tempesta
avendo fede che dietro questo tumulto
splenda il sole."
(Virginia Woolf)
❇
Erano le quattro e mezzo del pomeriggio quando mi allontanai dalla serra.
Victor, ancora ridendo, mi aveva congedata a lasciato la giornata libera, e io me n'ero andata senza rivolgergli la parola. Mentre camminavo pensavo alla scusa migliore da usare per evitare di presentarmi a cena, poco propensa a rivedere il suo ghigno così presto. Dovevo ideare un piano per vendicarmi, un modo per trarlo in inganno, e per farlo mi serviva che restasse lontano per un po'.
Attorno a me il corridoio del primo piano era deserto, gli unici suoni quello dello scalpiccio dei miei passi e delle gocce di pioggia contro le finestre. Alla mia destra si stagliava una grande porta a vetri, la quale dava su un ampio balcone in stile georgiano. Rallentai fino a fermarmi e mi avvicinai per affacciarmi; lasciando scorrere lo sguardo sul giardino, in parte nascosto dal terrazzo, mi trovai a fantasticare: gli eventi stavano prendendo una piega del tutto inaspettata e non ero sicura di sapere come rapportarmici. Non era previsto che io e Victor ci avvicinassimo, né che il suo comportamento mi toccasse tanto.
Mi lasciai scappare un sospiro e lasciai vagare lo sguardo sul paesaggio. Nel cielo plumbeo le nubi sembravano aver sviluppato un peso e apparivano come grossi lividi. Lampi rischiaravano ogni tanto l'atmosfera cupa, che si andava a scurire man mano che il tempo passava, assumendo una colorazione violacea.
La pioggia scendeva forte, le gocce zampilli di ghiaccio che si schiantavano in tic tic tic sui vetri, quasi sul punto di romperli. Il vento le trascinava con sé e scuoteva le fronde dei salici, che ammassati gli uni agli altri al limitare del giardino creavano una sorta di barriera invalicabile: alla magione pareva di trovarsi su un altro pianeta, uno che la realtà umana e lo scorrere del tempo non avrebbe potuto scalfire. E io non sapevo più da quale parte avrei preferito stare, se con i demoni o con gli umani. Di certo non appartenevo a nessuna delle due.
Mi passai la mano dietro al collo, la pelle bollente, e massaggiai i muscoli tesi. Era in quei momenti che la tanto inflazionata normalità mi mancava come l'acqua in un incendio. Se mi fossi trovata ancora a Grimlanes avrei trascorso quel pomeriggio a casa, probabilmente ad aiutare mia madre a rassettare le stanze, a passare l'aspirapolvere in salotto ballando mentre lei cantava a squarciagola dal piano superiore. Potevo figurarmi la scena nella mente come fossi stata presente, la musica a tutto volume che faceva tremare le pareti, io che volteggiavo sopra il tappeto con il sorriso dipinto in volto e la voce di mia madre che arrivava dal bagno, la sua testa che ogni tanto spuntava dalla tromba delle scale, i capelli raccolti in uno chignon e la camicia in jeans mal abbottonata e mezza incastrata nei leggings.
Un sorriso triste mi tirò l'angolo delle labbra e la malinconia mi arrivò agli occhi. Non avrei mai pensato, prima di Victor, prima della magione, che casa mi sarebbe potuta mancare così, che potessi rimpiangere tutti i giorni trascorsi a sognare a occhi aperti di trovarmi da qualunque altra parte. Mi mancava il mio lavoro, banale e pieno di bile, mi mancava la mia stanza, mi mancavano le mie cose e soprattutto mi mancavano i miei genitori. Mi mancavano i commenti di mio padre mentre guardava il telegiornale, le ciabatte di mia madre lasciate esattamente sul penultimo gradino, che ogni volta mi facevano inciampare, e le cene insieme, parlando di come erano andate le nostre giornate, o le serate con i giochi da tavola.
Mi sentivo in colpa per non aver sfruttato l'occasione di tornare a casa o almeno avvertirli che stavo bene, che era tutto okay, che mi trovavo al sicuro e stavo facendo qualcosa di buono. Sapevo quanto dovessero essere preoccupati e il terrore che mia madre doveva star provando. Avrei potuto agire, sarei potuta tornare, eppure avevo deciso di restare al fianco di Victor e di prodigarmi per quella causa che, nonostante la mia natura, non mi apparteneva. A conti fatti, non sapevo nemmeno io per cosa stessi combattendo.
E più di tutto, mi sentivo in colpa perché non rimpiangevo la notte in cui avevo dato le spalle alla porta. Non mi ero pentita di non essermene andata, non la prima volta né la seconda. Perché, per ogni scusa che potessi trovare, a me non dispiaceva trovarmi alla magione. Non mi dispiaceva trovarmi in Estonia, nel bel mezzo del nulla, insieme a Victor.
Era una sensazione strana e non ero ancora riuscita a districarla, ma una parte di me era felice di aver avuto quell'occasione, di essermi potuta allontanare per capire l'importanza della famiglia e di ciò a cui questo mi aveva condotta. Se fossi rimasta a Grimlanes non avrei mai scoperto la mia vera natura, né l'esistenza di quel mondo incredibile e complesso... e non avrei conosciuto Victor.
Lui era così diverso da Richard che, prima di trovarmi in quel luogo, non avrei immaginato potesse anche solo esistere. Non ero mai stata interessata a quel tipo di ragazzo e avevo sempre classificato l'amore secondo schemi precisi e rigidi confini: dolce, gentile, romantico. Non avevo mai pensato di poter apprezzare un rapporto fatto di frecciatine e prese in giro, eppure ero lì, indecisa su cosa stesse accadendo e su che piega avesse imboccato la mia vita.
Quando sarei tornata a Grimlanes nulla sarebbe stato lo stesso, di certo non con Richard. Da lui non sarei tornata e avrei troncato senza dargli la chance di vedermi in faccia mentre lo facevo. Non avevo più intenzione di dargli occasioni che non meritava e probabilmente lo avrei denunciato, per evitare che quello che mi aveva fatto si ripetesse. Victor mi aveva reso chiare molte cose, forse nemmeno volutamente, e l'unica cosa che restava ora a me da capire era lui.
Inspirai a fondo, allargando il petto. «Sono un caso perso» mormorai al vetro.
Stavo per voltarmi e incamminarmi quando, con la coda dell'occhio, vidi un movimento al limitare del mio campo visivo. Mi immobilizzai. Qualcuno mi stava osservando.
Schiusi le labbra ma non mi mossi, le braccia tese lungo i fianchi e gli occhi aperti che si spostavano convulsi da una parte all'altra del parapetto di pietra. Non sapevo cosa fare, se rimanere ferma per non far scappare il misterioso spione o se voltarmi e prenderlo nel sacco.
Pensa pensa pensa.
Ancora pietrificata udii dei passi leggeri e, riportando lo sguardo alla mia sinistra, vidi una testa sporgersi oltre l'angolo del corridoio. Non fui in grado di distinguerle i lineamenti, vedendo solo una zazzera di capelli color sabbia e una carnagione pallida. Allora non riuscii più a trattenermi e mi voltai di scatto. Tuttavia, la spia dovette intuire le mie intenzioni, perché tutto quello che vidi fu l'orlo di un vestito sparire e uno scalpiccio sordo allontanarsi.
Stavolta non lasciai perdere e inseguii il mio inseguitore, imprecando fra me e me per quelle stupide ballerine. Quando svoltai l'angolo feci in tempo a vedere la spia lanciarsi oltre una porta del dedalo interno.
«Aspetta!»
I miei occhi – già spalancati – si aprirono ancora di più quando, osservando la schiena della ragazza, avvolta in un vestito grigio, compresi di essermi sbagliata su tutta la linea: né i Demonai né Móreen c'entravano nulla. Ringraziai di non aver detto niente a Victor.
Scattai in avanti e mi buttai quasi addosso alla porta, afferrando la maniglia e tirandola così forte da sentire le ossa scricchiolarmi. Ero convinta di avere la spia in pugno, di poter finalmente mettere fine a quel valzer frustrante, ma quando mi affacciai sulla soglia e scrutai l'ambiente in penombra, dentro non c'era già più nessuno.
* * *
In quella settimana, qualcuno si era preso la briga di riparare il bagno del primo piano.
Erano appena scattate le sette di sera e io, appoggiata al lavandino, tenevo la testa china e gli occhi chiusi, inspirando a fondo come ne valesse della mia vita. Avevo trascorso il pomeriggio seduta sul divano in camera, osservando il temporale. Avevo tentato di dare una spiegazione a quel che era successo in corridoio, di dare un nome alla ragazza che mi stava alle calcagna come un'ombra, ma invano. Non ricordavo di averla mai incontrata e da quel momento le mie priorità per quella giornata si erano ribaltate: non mi interessava più vendicarmi su Victor, o meglio, non era più al centro dei miei pensieri. Ciò che avrei dovuto fare ora era indagare, porre quante più domande possibile ai Demonai e agli altri ospiti senza far trapelare le mie intenzioni. Per questo, controvoglia, avevo deciso di recarmi a cena e mettere da parte i miei bisticci personali.
Qualcosa non quadrava e avevo la forte impressione di essere tornata agli inizi, quando nulla sembrava potermi convincere. Io ero certa di non aver mai visto quella ragazza e mi chiedevo perché, allora, una delle voci nella mia testa mi diceva che così non era, che non avevo capito niente. E stavo iniziando a pensare che in quella magione ci fossero ancor più segreti di quanto immaginato. Per svelarli tutti non mi sarebbe bastata una vita.
Sollevai il capo e scambiai uno sguardo con il mio riflesso. Nonostante la stanchezza ero tornata quella di sempre, i capelli rossi pettinati e pieni di boccoli invece che nodi, gli occhi verdi vigili e contornati di nero, le labbra dipinte di bordeaux. Era confortante guardarmi e trovare ciò che ero abituata a trovare, mi dava sicurezza e rendeva le cose difficili più facili. Sapevo che era una considerazione superficiale, ma vedermi nel modo in cui ero abituata, con quel trucco scuro che mi dava un aspetto duro, mi faceva sentire tale.
Speravo solo che anche chi mi guardava dall'esterno vedesse lo stesso.
Inclinai la testa di lato, studiando il mio aspetto e soffermandomi sul colletto del vestito. Áshildur mi aveva portato un cambio d'abito, ma avevo deciso di tenere quello che avevo indossato anche durante il giorno. Trovavo che fosse di una rara bellezza: tutto nero, con il colletto bianco e due gemelli a forma di ala. Il tessuto aveva due strati, quello superiore di pizzo decorato a forma di roselline. Sul davanti la gonna arrivava appena oltre il ginocchio, mentre dietro scendeva fino alle caviglie, e le maniche erano a metà braccio. Ciò che più mi piaceva era che la parte superiore non fosse un corpetto, ma una semplice maglia, resa elegante dalla presenza del pizzo. Per la prima volta indossavo un vestito che mi permetteva di respirare e muovermi senza problemi. Ne ero innamorata.
«Okay» dissi annuendo a me stessa. «Domande semplici, vaghe, mai dirette.» Puntai l'indice verso la Zoë nello specchio. «Quanti domestici ci sono? Ci sono altri immortali? No, sono solo curiosa di saperne di più.»
Ero ridicola.
Mi passai una mano sul viso. Non sapevo perché, ma non volevo rivelare a nessuno il fatto che una sconosciuta mi stesse seguendo. Più a lungo sarei riuscita a tenere per me quell'informazione più a lungo avrei avuto occasione di svelare quel mistero. C'era sotto qualcosa, ci avrei messo la mano sul fuoco, e non volevo che i Demonai – specialmente Dimitar – si mettessero in mezzo. Avevo la forte impressione che quella ragazza mi stesse seguendo in segreto. Il perché mi sfuggiva e ciò non mi piaceva.
Scossi il capo e mi diressi alla porta, spegnendo la luce. Una volta fuori scoprii che Áshildur era sparita. Mi guardai attorno, spaesata. C'era qualcuno di normale, in quel posto?
Voltandomi vidi che sulla porta c'era un post-it rosa, in cui una calligrafia dolce e piena di curve diceva: "Io dovuta andare, problema con lavori. Tu da sola andare a salone? Scusa". Nel vedere il cuoricino disegnato alla fine del messaggio non riuscii a trattenere un sorriso.
Mi avviai lungo il corridoio. Fuori stava ancora piovendo, forse persino più forte di prima, e i lampadari erano le uniche fonti di luce nell'oscurità del temporale, rischiarato solo dai lampi.
Camminare da sola in quella casa aveva sempre un certo effetto su di me, per questo avevo iniziato a farlo regolarmente, per tentare di abituarmi alla vastità di quei corridoi, all'infinità di stanze e all'altezza di quei soffitti. E alla sensazione di solitudine.
Tuttavia, quando con passo tranquillo svoltai l'angolo, trovai Aušrius poggiato alla parete con il capo chino. In mano aveva un telefono e sembrava concentrato, ma non appena pensai di salutarlo lui alzò la tesa e mi guardò.
«Ciao, Aušrius!»
«Zoë» rispose, sorridendomi a sua volta mentre metteva il telefono in tasca. «Sei diretta al salone?» Io annuii e il suo sorriso si allargò. «Ci stavo andando anche io, mi terresti compagnia?»
Inspirai, «Perché no?» Gli tesi la mano e lui mi prese sottobraccio, mettendosi in marcia ritto e apparentemente di buonumore. Il silenzio cadde fra noi, mentre l'uno vicino all'altra procedevamo con andatura lenta. Gli unici suoni erano quelli della pioggia che, violenta, batteva sui vetri, e dei tuoni che sembravano spaccare in due il cielo.
«Allora...» esordii, «come ti è andata la giornata?»
«È stata abbastanza normale, a dir la verità» replicò svogliato. «Ho fatto una passeggiata e ho trascorso il pomeriggio a leggere. E tu? Ho saputo che hai aiutato Victor nella serra.»
«Oh, sì, lo aiuto da qualche giorno.»
«Vi siete riappacificati?»
Rimasi spiazzata, chiedendomi come facesse a saperlo, solo per rendermi conto che con ogni probabilità era stato Victor a raccontargli tutto. Mi diede fastidio, ma tentai di non soffermarmici; dopotutto erano fratelli, era normale che si sfogassero a vicenda. «Sì» commentai. «O almeno credo. Non lo so, non è facile capire Victor. A volte sembra sia arrabbiato e invece è solo pensieroso. Altre sembra calmo e invece è offeso...» lasciai morire la frase nell'aria, tastando il sapore che quelle parole avevano nella mia bocca. Era la prima volta che esprimevo il mio parere su di lui con qualcuno.
«Oh, lo so.» Aušrius scoppiò a ridere. «Spesso vorrei prenderlo per i capelli e piantargli la faccia nel muro.»
Deglutii, facendo uscire una risatina nervosa. «Sì, a volte dà veramente sui nervi.»
«E per il resto?» domandò, cambiando argomento. «Ti trovi bene, qui?» La stretta della sua mano sul mio braccio aumentò. Provai una sorta di confusa perplessità ma lo nascosi: quello era il momento adatto per indagare sulla spia.
«Sì, abbastanza... Ehm, potrei però chiederti una cosa riguardo la magione?»
«Sì?» rispose continuando a guardare avanti, imperterrito.
«Quanti domestici ci sono?»
«Oh» sbuffò, «circa una ventina, fra cui Áshildur, Håvard e Heilgard.»
«Oh, sono tanti. E anche fra loro ci sono immortali?»
A quelle parole Aušrius si voltò verso di me. «Perché questa domanda?»
Percepii delle spine affondarmi nella carne all'altezza dei reni. «Oh, nulla.» Mi costrinsi a scuotere la testa e sorridere. «Sono solo curiosa di conoscere altri immortali. Mi... incuriosite.» Beh, non era una menzogna.
I suoi occhi acquamarina scrutarono il mio viso come potesse leggermi nelle ossa, mentre le sue gambe ancora camminavano. Il suo sguardo era viscerale, non solo per l'espressione sul suo viso, che faceva sembrare stesse guardando un esperimento da laboratorio, ma anche per la tinta chiara delle sue iridi, in contrasto con la pelle scura. Pareva starmi leggendo l'anima.
Alla fine parve non trovare quello che stava cercando e proprio mentre ci apprestavamo a scendere il primo scalino distolse l'attenzione da me. «No» disse, «siamo in pochi.»
E chiuse la conversazione.
Sentii un sapore aspro sotto alla lingua per come il mio tentativo fosse miseramente fallito. Per quella sera avevo esaurito le mosse, di certo non potevo porre le stesse domande a tavola senza che Aušrius si insospettisse.
Una febbre fatta di ansia e terrore mi travolse: ora non avevo più alcuna ragione di andare a cena e sedere lì come una bambola, dovendo sopportare lo sguardo di Victor addosso e quel suo sorrisetto ghignante. Ma non potevo più tirarmi indietro.
Dunque deglutii tutto quel che provavo e seguii Aušrius, scendendo gli ultimi scalini ed entrando nella sala sulla sinistra. Lì c'era già Balveer, ma le altre sedie erano vuote. Fu il demono a chiedere: «Dove sono tutti?»
«Dimitar e Victor sono in ufficio e ceneranno lì.» L'uomo si guardò attorno. «Móreen non ho la minima idea di dove sia, ma se non è già qui è probabile non verrà.»
«È una mia impressione o ultimamente molti snobbano la cena?» commentai, ancora appesa al braccio di Aušrius.
«No, non è una tua impressione» replicò, lasciandomi e scostando la sedia per me. Solo quando ebbi preso posto, come sempre a capotavola, lui si sedette, alla mia destra come al solito. Sulla sinistra, Balveer ci guardava in silenzio, con una mano poggiata alla tempia, fra i folti capelli neri. Aveva tipici tratti orientali e una tonalità di pelle molto scura. Dovevo ammettere che era un bell'uomo.
Presto i domestici portarono le pietanze e la cena procedette veloce, con pochi scambi e per lo più fatta dei tintinnii delle posate contro i piatti e di sorsi di vino. Dal canto mio ne presi un po', per distrarmi dai pensieri.
Balveer se ne andò dopo la seconda portata, dicendo di volersi recare all'ufficio di Dimitar per vedere se lui e Victor avevano bisogno di aiuto, e restammo solo io e Aušrius. Io fui l'ultima ad andarmene, lasciata sola anche dal ragazzo, che con una scusa si congedò. Mangiai con calma la fetta di torta ai lamponi e, alcuni minuti dopo aver ingoiato anche l'ultima forchettata, mi alzai. Mi sentivo appesantita e con la testa annebbiata. Solitamente avevo una buona resistenza agli alcolici, ma non ero solita bere vino e avevo alzato un po' il gomito; tutto sommato, però, non mi dispiacque la sensazione di leggerezza: dopo quello che stavo vivendo, ne avevo bisogno.
Meno di malumore ma ancora lucida mi diressi alle scale e salii tutte e sei le rampe, fino al secondo piano. Quando arrivai alla mia stanza, un brivido gelido mi percorse la schiena come una carezza: la porta era socchiusa e dentro le luci erano spente.
Mi lanciai un'occhiata attorno, preoccupata, prima di riportare l'attenzione sulla maniglia. Qualcuno era entrato in camera mentre non c'ero? Che si trattasse di Áshildur, non sicura che mi fossi recata a cena? Era possibile, ma non mi convinceva.
Deglutii i strinsi la mano destra a pugno, prima di allungare il braccio sinistro e dare una spinta alla porta per farla spalancare. L'oscurità dentro la stanza sembrava densa, viva, e dovetti fare un respiro profondo prima di trovare il coraggio di fare un passo avanti e far scattare l'interruttore.
Mi misi in posizione di difesa mentre le lampadine si accendevano, ma quando la luce rischiarò la stanza, ero da sola. Studiai quel che mi circondava, cercando di capire se qualche oggetto era stato preso o spostato, ma tutto era come l'avevo lasciato. Solo quando misi le braccia a riposo e mi avvicinai al letto trovai qualcosa fuori posto: sopra le coperte era stato poggiato un piccolo foglietto bianco, ripiegato su se stesso. Titubante lo afferrai e lo dispiegai. Fra la carta segnata dalle pieghe c'era scritta un'unica frase, tre parole che sul momento non capii: "I mostri mentono".
La rilessi circa dieci volte, tentando di comprendere cosa volesse dire, se si riferisse a qualcosa che avrei dovuto ricordare o a qualcuno in particolare. Ma di mostri lì non ce n'erano, non nel vero senso della parola, solo creature immortali che volevano salvare il proprio mondo.
Scossi la testa, perplessa,prima di accartocciare il foglio e lanciarmi un'occhiata attorno. Alla fine lolanciai sopra al comodino e mi diressi alla porta. Affacciandomi in corridoio,dove le luci erano ancora accese, mi assicurai di essere sola, dopodiché sbatteil'uscio e girai la chiave nella toppa per accertarmi che nessuno entrassementre dormivo.
Betaggio di Sayami98
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