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17. Miss Madness

"C'è una crepa nella mia visione,
e la follia l'attraverserà sempre."
(Anaïs Nin)

«Allora, sei pronta?»

Mi strinsi nella giacca di pelle marrone, mentre il vento mattutino mi soffiava tra i capelli. Erano circa le undici e trenta ed ero in piedi in mezzo al giardino, la suola degli anfibi a picchiettare sui sassolini di ghiaia.

Heilgard mi aveva svegliata un'ora prima, spalancando la finestra e lanciandomi addosso dei vestiti. Non era stato piacevole, ma avevo imparato a non aspettarmi nulla di meno da parte sua: l'aspetto gracile e il carattere schivo celavano modi duri e affettati.

Mi ero vestita di malumore e arcigna ero scesa in cucina. La colazione era stata insipida e fin troppo rapida: avevo lasciato più della metà dei cereali ad affondare nel latte, non premurandomi di buttarli e lavare la ciotola. La gestione dell'ansia non era mai stata tra le mie poche virtù.

«Devo essere sincera?» replicai aggrottando le sopracciglia.

Quel giorno non era iniziato in modo idilliaco e mi stavo sforzando di mantenere la calma per non rovinare la gita. Tenevo la mente occupata con il ricordo della sera precedente: la discussione con Móreen mi era rimasta impressa e per la maggior parte della notte avevo rimuginato sul suo conto, chiedendomi se non l'avessi mal etichettata. Le sue parole mi avevano colpito: oltre quella perfezione di plastica e i sorrisi sardonici avevo intravisto qualcosa di profondo, un aspetto che fino ad allora era passato inosservato. Forse avevo sbagliato a cedere alla prima impressione.

Era trascorsa una settimana, ma avevo più domande di quando ero arrivata.

«Non ricominciare. È l'unico modo» sbottò Victor a pochi passi da me. Indossava una camicia bianca, dei jeans e un chiodo da motociclista.

«La Dematerializacija è terrificante.»

«Se vuoi restiamo alla magione» ribatté. «Per me non c'è problema, torniamo in biblioteca e finiamo il capitolo.»

Volsi il capo. «D'accordo» sbuffai, «che Dematerializacija sia» e allungai la mano nella sua direzione. Evitai accuratamente di guardarlo, mentre afferrava il mio palmo e intrecciava le dita alle mie. Avrei preferito non toccarlo, cose strane accadevano quando lo facevo, ma sapevo di non potermi tirare indietro. In realtà, l'unica cosa che mi infastidiva era sentire la sua pelle sulla mia, le nostre falangi strette le une alle altre; me lo aveva spiegato il secondo giorno di permanenza voluta: perché la dematerializzazione coinvolgesse due o più persone doveva esserci un contatto, e dato che abbracciarsi non era un'opzione l'unica possibilità perché non venissi sbalzata via era tenerlo per mano. Ovviamente, non appena ci sfiorammo le voci impazzirono.

«Tieniti forte, okay?»

Uccidilo.
Sssaaangueee.
Marie!
Zitte.

Non risposi, limitandomi a una smorfia. L'esatto funzionamento di quelle voci o cosa fossero davvero era ancora un mistero: avevo avuto l'impulso di farne parola con Victor, ma non appena il pensiero di dovergli raccontare cosa quelle voci mi dicessero aveva fatto capolino nella mia testa avevo cambiato idea. Come spiegargli le grida? Come spiegargli il desiderio di provocare dolore? Come spiegare a qualcuno di volergli far del male?

Quando ci avvicinavamo esplodevano in un'accozzaglia confusa, ma più tempo passavamo insieme più si quietavano, come se la causa fosse anche il placebo. Ma se io e Victor ci toccavamo, allora ecco che il caos tornava più forte che mai. Ciò non accadeva con gli altri immortali: quando avevo sfiorato per sbaglio Aušrius qualche giorno prima non era successo nulla, né quando avevo stretto la mano a Balveer il primo giorno. Eppure, quando parlavo con loro, le voci non smettevano di sussurrarmi cosa fare.

Mai come allora avevo temuto di essere pazza.

Era possibile che fossi io l'unico mostro? Nessuno dei miei nuovi compagni aveva accennato a delle voci. E se mi fossi aperta con loro, mi avrebbero giudicato? Avrebbero avuto paura di me?

«Sarà più intenso dell'altra volta, poiché il movimento nello spazio che stiamo per compiere è molto più esteso.» Victor tacque e io mi preparai alla dematerializzazione, ma quando dopo alcuni secondi scoprii di essere ancora ferma mi voltai. Le sue labbra erano strette, il suo sguardo perso in un punto infinito, fisso sui lunghi steli verdi. Stavo per chiedergli se stesse bene, quando sottovoce disse: «Se ti senti male per una qualsiasi ragione, fermami.» Si girò verso di me, «Ci siamo capiti?»

Annuii lentamente e lui fece un impercettibile cenno. Fu allora che accadde: il giardino svanì sotto il mio sguardo, sostituito da un tunnel cinereo. I nostri corpi erano gli unici oggetti concreti in quella nebbia confusa, immobili e circondati da lunghe linee di colore. Attorno a noi lampi di luce e tuoni incostanti riempivano l'aria, creando una cappa che c'impediva di udire o vedere altro. La corrente che infuriava contro i nostri volti era calda, s'insinuava fra i capelli e bruciava gli occhi.

Il mio stomaco era in subbuglio, sentivo i cereali risalire e premere sotto al mento. Non potevo vomitare durante la Bėgimas, se non volevo rischiare che i resti della mia colazione uscissero dalle sottili pareti del tunnel e finissero in testa a qualcuno. Ma non volevo nemmeno far fermare Victor, nonostante quel che mi aveva detto. Era una questione di orgoglio.

Fiducia.
No, lui
mente.
Perché
mentire,
MARIE?!

Bruscamente il movimento s'interruppe, accompagnato da un risucchio che mi stappò le orecchie, e la mia mano scivolò dalla presa di Victor. Allungai le braccia nell'esatto momento in cui il mio piede destro si incastrava di qualcosa e prima ancora di inciampare capii di essere spacciata: tentai di raddrizzarmi ma la punta dello stivale me lo impedì, e così mi trovai a cadere in avanti. Non so in che modo ma feci una giravolta su me stessa e mi fermai solo quando battei la schiena contro il terreno. Il respiro mi si mozzò. «Dannazione» mugolai poi, la bocca aperta. Sopra di me c'era una distesa azzurra illuminata da raggi dorati.

Una figura mise in ombra il sole. «Ammirabile» commentò. «Ti avevo detto di tenerti e sei caduta comunque.» Misi a fuoco il volto al contrario di Victor, che chinato con le mani nelle tasche mi fissava senza emozione. A volte era persino difficile ricordare che anche lui le provava.

«Mi sono tenuta» sibilai.

«A me non sembra» replicò. «Avanti» si spostò, privandomi dell'ombra, «alzati.» Poi si allontanò.

Dopo qualche istante d'incredulità, ancora stesa a terra, mi sollevai borbottando un: «Sì, Victor, ti ringrazio. Sto bene!» Passai i palmi sudati sui jeans bianchi, controllando che non si fossero sporcati, e quando fui certa di essere ancora intera mi guardai attorno: mi trovavo in un vicolo chiuso fra due muri di mattoni rossi, su cui erano incollati vecchi volantini rovinati dal tempo.

Oltre l'imboccatura del vicolo si apriva un molo, affacciato su una superficie d'acqua, sui cui la luce del mezzodì si rifletteva in baluginii bianchi. Attraccate a pali di legno v'erano imbarcazioni dai colori più disparati e frotte di persone camminavano avanti e indietro in una massa disordinata.

Cercai Victor con lo sguardo, ma non lo trovai, e in me si espanse il terrore di averlo perso. Spaziai sulla folla con un tuffo al cuore, avanzando di qualche passo e scrutando chiunque mi capitasse a tiro, alla ricerca di una zazzera bionda e una giacca di pelle, ma lui non c'era.

«Vittu» imprecai, oltrepassando l'accesso tra i due edifici, pronta a mettermi a correre. Proprio allora una voce fin troppo familiare parlò vicino al mio orecchio: «Ce ne hai messo di tempo.»

Mi voltai di scatto, spalancando le labbra. Appoggiato al muro alla mia sinistra, Victor se ne stava a braccia incrociate, con un sorrisetto sotto ai baffi. Quando vide la mia espressione scoppiò a ridere dal profondo della gola: «Che c'è, pensavi che ti avessi abbandonato?»

Qualunque traccia di preoccupazione potessi aver provato svanì e la mia bocca si serrò. Incassando la testa nelle spalle inspirai rabbiosa e allungai il braccio nella sua direzione. Dovette rendersi conto troppo tardi di cosa stava per succedere, perché come previsto le nocche della mia mano colpirono il suo naso con un sonoro crack.

Quando mi resi conto di cosa avevo appena fatto, mi immobilizzai. Victor invece teneva il viso nascosto dietro alle mani, sciorinando una sequela infinita di bestemmie. «Dannazione, enkelin!» gridò, stringendosi il naso.

Rimasi imbambolata per alcuni istanti, prima di riuscire a riprendere il controllo di me e mormorare un: «La prossima volta resta zitto, cretino» che lo fece tacere definitivamente.

Ci guardammo in silenzio per alcuni istanti, prima che lui esclamasse un'ultima imprecazione e allontanando la mano inspirasse prima da una narice e poi dall'altra. «Per fortuna sono immortale, o a quanto punto non avrei più un naso» borbottò. «Bel ringraziamento, stronza.» Socchiusi gli occhi, seccati, ma non dissi nulla. «Avanti, Rocky, andiamo» sibilò infine, raddrizzandosi e avviandosi di nuovo senza aspettarmi.

* * *

Era la prima volta dopo una settimana che vedevo il sole splendere così, senza nubi o sentori di pioggia. Era come se, uscita dalla proprietà, fossi tornata nel mondo reale: lì erano ancora i primi di settembre, l'aria non era fredda e l'etere non era plumbeo.

Trovarmi fra gli umani, però, era strano. Non so in che modo fosse successo, ma mi sentivo diversa, come se avessi subito una transizione: guardavo le persone ma non le vedevo davvero. Mi chiedevo come fosse la loro vita, nell'osservare gruppi di amici ridere insieme o coppie felici tenersi per mano e scambiarsi effusioni, e automaticamente li comparavo a me, a quello che avevo vissuto e a come la mia esistenza era implosa. Perché non potevo essere come loro?

Mi mancavano gli abbracci di mia madre, le freddure di mio padre e il tocco delle dita di Richard sul viso, in quel modo di fare tutto suo, il sapore salato dei suoi baci... No, in realtà, lui non mi mancava affatto, quello di cui sentivo malinconia era ciò che rappresentava.

Sei triste, Zoë?
Ascolta- ascolta!
È vicino!

Le risate nella mia testa mi facevano stare male.

Il paesaggio era bellissimo: ci trovavamo sulla cima di una collina a strapiombo sul lago, davanti a noi marasmi di gente seduta su teli da picnic e alle nostre spalle la statua di una donna velata, ma non riuscivo ad apprezzarne davvero la magnificenza.

Victor sedeva accanto a me con le gambe accavallate e stese in avanti, protesto all'indietro e poggiato sui gomiti. Contro di noi soffiava una dolce brezza profumata, che portava tracce d'odore salmastro, e nell'aria si alzavano le risa delle altre persone, turisti come noi. Da quando lo avevo colpito non ci eravamo più rivolti parola.

Con la schiena curvata in avanti e le braccia strette attorno alle gambe, lasciavo vagare lo sguardo sulla superficie blu del lago. Cosa stavo facendo, dov'ero? Perché?

«Ti sei mai trovato nella situazione di dover fare una scelta importante e non sapere se hai preso la decisione giusta?» mormorai. Non ero sicura se stessi parlando con lui o con il vento. Victor rimase in silenzio per un po', tenendo gli occhi verdi fissi sulle acque del lago.

«Sì» rispose laconicamente.

«E cos'hai fatto?»

«Sono rimasto coerente e ne ho subito le conseguenze.»

Chiusi la bocca e deglutii, un blocco nella gola accaldata. «E poi cos'è successo?»

«Non voglio parlarne» ribatté.

Gli lanciai uno sguardo con la coda dell'occhio. La sua attenzione era dispersa da qualche parte nell'orizzonte, ma mi stupii di non trovare tracce di rabbia sul suo volto: la sua espressione era, forse per la prima volta da quando l'avevo conosciuto, rilassata. Sembrava tranquillo, disteso su quel letto d'erba, in mia compagnia, fra persone che non potevano essere più diverse da lui, da noi. Lo invidiai.

Sofferenza,
è condivisa.
Non credergli.
Diversi, diversi.
U g u a l i!

Distolsi gli occhi e li portai anch'io sul lago. «Victor?» bisbigliai, quasi inudibile.

«Che c'è?»

«Potresti portarmi a casa?» Non ebbi il coraggio di girarmi.

Passò qualche momento di quiete, prima che sussurrasse: «Non intendi la magione, vero?»

«No.»

«Vuoi andartene?»

Mi voltai di scatto, «No!»

Lui girò il capo con lentezza, prima di portare lo sguardo nel mio. Mi osservò per un po', con viso severo, e giurai di poter vedere l'abisso che avevo nel petto riflesso nelle sue iridi bicolore. «Perché no?» disse, spiazzandomi. «Perché vuoi restare? Cosa ci trovi in noi?»

«Io...» deglutii inutilmente, fissando il vuoto sul suo viso. Dentro di me provavo un grande contrasto, divisa tra il desiderio di condividere con qualcuno i miei pensieri e il terrore di venire ripudiata persino da lui, che di umano non sembrava avere quasi nulla. Se glielo avessi detto, se avessi risposto, lui mi avrebbe riso in faccia? Mi avrebbe guardata con disprezzo e abbandonata lì? Victor non mi piaceva, questo ormai era più che palese, ma era qualcuno, qualcuno che avrebbe potuto ascoltarmi sul serio, per la prima volta dopo anni. a tratti lo odiavo, ma non volevo che fosse disgustato da me, e per questo mi sentivo patetica.

Ero sul punto di raffazzonare una risposta quando lui intervenne di nuovo, raddrizzandosi a sedere. «Non devi rispondere per forza, se non vuoi. Sono solo stupito.»

«Da... cosa?»

«Dal fatto che non hai avuto paura un singolo istante. Non hai avuto paura quando ti ho mostrato la Bestia e non hai avuto paura quando hai capito in che mondo vivo.»

Lo studiai in silenzio per un po', prima di scuotere la testa e sospirare. «Te lo dirò, prima o poi, ti spiegherò perché non sono scappata. Ma non oggi. Non ancora.»

Victor parve capire, intuire che sotto c'era di più di quel che mostravo, e l'angolo delle sue labbra ebbe un guizzo, nel fantasma di uno sghembo sorriso. «Andiamo» alzò il palmo, rivolto verso l'alto, in attesa che lo afferrassi. Non ebbi esitazione.

* * *

Forse era stata la prolungata distanza, ma quando ci materializzammo nel bel mezzo di Wintry Garden mi parve di trovarmi su un altro pianeta. Impiegai qualche istante a riconoscere la via poco trafficata, le grandi case ai lati della strada circondate dai loro bellissimi giardini privati, divise solo da cancelli grigi, decorati da ghirigori di ferro che ricordavano vagamente dei fiori.

Gli alberi che si alzavano dalla linea d'erba che divideva il cemento dai marciapiedi erano ancora pieni di foglie, erti verso un cielo grigio che non poteva essere più diverso da quello che avevamo appena lasciato. Provai una sorta di malinconia, non sicura se per il luogo da cui eravamo fuggiti o se per la confusione che essere tornata mi provocava. Guardavo le facciate delle proprietà che per tanto tempo avevo osservato con fascino e non riuscivo a impedirmi di compararle alla magnificenza della magione di Victor.

Così a lungo avevo sognato di poter vivere in una di quelle case, di perdermi tra i giardini che le circondavano, da quando accompagnando la madre di Winston in uno dei suoi turni di lavoro ero entrata in una delle più belle ville che avessi mai visto: rammentavo il soffitto altissimo, le scale di mogano, i quadri appesi alle pareti e il mobilio costoso, nascosto sotto teli bianchi in attesa che i proprietari tornassero dalla loro vacanza; allora me ne ero innamorata, rattristata dal fatto che la mia famiglia non potesse permetterselo... e poi ero approdata alla magione. Rivedere ora quelle case non aveva più lo stesso effetto, sembravano anzi così piccole.

«Stai bene?» lo sentii dire, immobile alle mie spalle. Il suo tono era incolore e io non seppi cosa rispondere, mentre rigida mi guardavo attorno con gli occhi lucidi e le labbra spalancate. Ero tornata a casa, eppure non mi sembrava così.

«Non lo so» mormorai. «Credo di no...» Scossi piano la testa, ancora in mezzo alla strada ma del tutto incurante: le uniche auto presenti erano quelle parcheggiate davanti alle proprietà e oltre i cancelli automatici. Presi un respiro con la bocca aperta, allargando il petto, cercando di raccogliere i pensieri, quando sentii una pressione sulla spalla sinistra. Impiegai qualche istante per rendermi conto che si trattava della mano di Victor.

«Fai un respiro» sussurrò. Sentivo la sua presenza a pochi passi da me, il suo tipico odore di rose selvatiche circondarmi, spodestando il profumo che non mi ero mai accorta caratterizzasse le strade di Grimlanes. Era strano averlo così vicino, in un ambiente che da più di dieci anni era l'emblema della consuetudine, della sicurezza. Lui non c'entrava nulla con quella parte di me. Lui non c'entrava nulla con me, ma ero contenta che fosse lì.

«È solo casa tua» aggiunse dopo un po', premendo un po' di più con le dita. «Solo casa.»

Allontana.
Ferisci.

«Potrai tornarci quando lo vorrai... seppur non sia molto sicuro.»

«Perché?» chiesi, quasi imbambolata nel fissare una delle case.

«Perché gli enkelin possono sentirci. Se ci sentono ci trovano. E se ci trovano ci uccidono.»

Deglutii fiamme. «Allora sbrighiamoci. Voglio vedere casa mia, voglio vedere mia madre.»

La sua mano scivolò via dalla mia spalla, ma ebbi l'impressione non volesse farlo «Come vuoi, ma sappi che non possiamo incontrarla direttamente. Non deve vederci, o fine dei giochi.»

Mi voltai di scatto verso di lui, le sopracciglia corrucciate e uno sguardo tagliente. «È mia madre.»

«E una Enkelit. Vuoi che mi catturino e mi taglino la gola?» replicò con schiettezza, freddo come solo lui era capace di essere. «E credimi, tagliarmi la gola è il minimo che potrebbero farmi degli enkelin se mi catturassero. Non ci vanno per il leggero.»

«Mia madre non è un mostro» ringhiai.

«Ma ti ha mentito» rispose, stavolta con più calma. Non sembrava arrabbiato, né sull'attenti. «Non lo dico per ferirti, ma sto rischiando un sacco nel riportarti qui, e vorrei che non dessi per scontato che io sia uno stronzo.»

«Non sto dando per scontato tu lo sia, ma conosco mia madre. È un'infermiera, dannazione! Lei le salva, le persone, non le uccide!»

Vidi un'ombra di dolore passare nei suoi occhi. «Tu dimentichi sempre che per un enkelin noi non siamo persone.» Udire il suo sottotono affranto mi bloccò il boccone di saliva in gola e non fui abbastanza coraggiosa per insistere ulteriormente. Nessuno dei due aveva né torto né ragione.

«Va bene» bisbigliai. «Non resteremo a lungo e non la incontrerò, ma voglio che tu mi prometta una cosa, fintanto che avrai a che fare con me.»

«Cosa?»

«Non parlare mai più di mia madre» sibilai.

Lui assottigliò lo sguardo ma non rispose, annuendo soltanto, prima che gli dessi le spalle e mi avviassi lungo il marciapiede di Wintry Garden. Ci impiegammo svariati minuti a percorrerla tutta, durante i quali Victor rimase costantemente dietro di me e in cui io non mi azzardai a rivolgergli un'occhiata. Non credo fossi arrabbiata, solo indispettita. Avevo abbastanza cognizione di causa da riconoscere di non aver diritto di contestare le sue credenze, non quando non avevo idea di cosa avesse passato: Móreen aveva reso lampante il morbo che affliggeva l'Æternae, e se tutto quello che mi era stato raccontato era vero, allora i miei simili non erano degni del nome che portavano. Enkelit, avevano il fegato di chiamarsi, angeli, ma strappavano la vita a creature loro complementari, solo perché una dea lo aveva ordinato secoli orsono. Provavo una sorta di vergogna per avere il loro stesso sangue, ma in fin dei conti non eravamo così diversi: più vote avevo desiderato fare del male agli altri, solo perché in collera, solo perché avevano osato dire la cosa sbagliata al momento sbagliato, e con l'arrivo delle voci la situazione era peggiorata. Forse ero davvero un mostro, ma se c'era una cosa di cui ero sicura, era che mia madre non aveva nulla a che fare con quello scempio. Non mia madre, non mia nonna. No.

Non dissi una parola quando all'incrocio mi immisi in Rawtale Gate, indifferente se Victor riuscisse a starmi dietro o meno, né quando qualche momento dopo spuntammo nel traffico di Helgate Lane, la strada gemella di Sanctuary Lane, quella in cui per tutta l'estate mi ero fermata per andare al lavoro. Quante cose erano cambiate in così poco tempo.

Qualche svolta dopo riuscimmo a raggiungere Tinge Bank e rasentando i cancelli delle casette la percorsi tutta, con un crescente senso di angoscia nel petto. Quelle strade avevano rappresentato la normalità ogni giorno della mia vita negli ultimi quattordici anni e ora che mi ero allontana da una sola settimana sembravano del tutto aliene.

Alla fine sbucammo nell'incrocio di Roseblade Grove e non appena i miei occhi si fissarono sull'edificio al numero 25 un tuffo al cuore mi tolse il respiro. Dall'altra parte della strada, accanto allo svincolo, c'era casa mia.

Inspirai con un singhiozzo incastrato in gola.

«Tutto bene?» mormorò Victor, a un centimetro da me, tanto vicino da sentire il suo petto contro la mia spalla destra. Le sue parole furono una scintilla nel vento e se fosse stato appena più distante non sarei stata in grado di sentirlo.

Vicino!
Lontano.
No, vicino
vicino!

Sentii gli occhi pizzicare. «No. Stammi vicino» risposi, seguendo forse per la prima volta quello che le voci mi consigliavano. Non seppi perché lo dissi, probabilmente avevo solo bisogno di sostegno, e lui era l'unico a cui avrei potuto chiederlo.

«Sono qui.» Fece una pausa, prima di aggiungere: «Ricorda per cosa ci stai aiutando. Se vuoi andare a casa sei libera di farlo, ma una volta che avrai oltrepassato quel cancello... non potrai più tornare.»

La sua figura imponente era tesa verso di me, vedevo la sua ombra allungarsi sopra la mia, e la pressione del suo petto contro l'osso della mia spalla scatenava sensazioni contrastanti. Una parte di me desiderava che restasse immobile, che mi tenesse in piedi con la sua semplice presenza, mentre l'altra strepitava folle, quasi isterica, di correre e mettere quanti più chilometri possibili fra me e quel mostro.

Ma alla fine cos'eravamo se non entrambi mostri?

«Perché mi dici questo?»

«Perché voglio essere sicuro che, quando prenderai la tua decisione, saprai quello che stai scegliendo.»

Rispondergli con tono neutro mi costò più di qualsiasi altra cosa nella vita: «Io ho già preso la mia scelta una settimana fa.»

Sentii Victor espirare a fondo sui miei capelli, prima che posasse con delicatezza le dita sulla mia schiena e mi spingesse in avanti. Obbedii, posando un piede dopo l'altro, fino ad attraversare l'incrocio e giungere di fronte al cancello socchiuso di casa mia.

Osservai stoicamente il giardinetto curato, l'edera che si arrampicava sulla facciata fino alla finestra del primo piano, e il vialetto di pietra che conduceva alla porta. Avrei dato qualunque cosa per poter spingere le inferriate e correre alla porta, suonare il campanello e lanciarmi al collo di mia madre, stringerla come mai prima di allora avevo fatto. Non le avevo detto che le volevo bene, quel giorno, e ora me ne pentivo.

Il mio piede spingeva per fare quel passo in avanti, il mio sistema nervoso era sul punto di implodere e il mio cuore pareva tremare. Sentivo gli occhi gonfi, le tempie attraversate da dardi affilati, e l'unica cosa che fui in grado di fare per non compiere un balzo in avanti e mandare in frantumi ogni cosa fu allungare la mano e intrecciare le dita a quelle di Victor. Al mio gesto lo percepii irrigidirsi, ma non ebbi il fegato di guardarlo in faccia.

Nel caos che avevo dentro mi chiedevo perché lo stessi facendo, perché stessi resistendo al desiderio di tornare a casa. Quel luogo non lo avevo mai sentito come mio, sempre incompleta, diversa da chi mi circondava... eppure era lì che si trovava la mia vita, era lì che appartenevo, non alla magione, non all'Æternae, non a creature che non conoscevo, il cui mondo era più complesso di quanto lo sarebbe mai potuto essere il mio.

Ma non potevo negare di esserne stregata, non potevo negare di aver scelto di rimanere non solo per potermi redimere – per convincermi di essere migliore di così –, ma anche perché nutrivo una curiosità atavica per il loro universo, per quello che Victor nascondeva oltre le apparenze, per quello che io avrei potuto nascondere oltre le mie. Perché fra loro ero meno anormale, fra loro ero meno pazza, più umana di quanto le valutazioni di Mr. Cooper lasciassero trasparire. Fra loro potevo sentire le voci, potevo soffrire d'insonnia e terribili incubi, ma non ero la ragazza strana che vedeva le cose e attaccava briga, non ero Miss Madness. Il ricordo di quel nomignolo ancora lacerava la cicatrice che avevo nel petto.

Aumentai la stretta sulla mano di Victor e percepii la saetta di gelo che attraversò le mie dita. Allora mi voltai lentamente, girando il capo come fosse stato un meccanismo arrugginito, e portai gli occhi nei suoi. Non so con esattezza cosa ci lessi, nella frazione di secondo in cui riuscii a incrociarli, ma mi parve d'intravedere un velo di colpevolezza. Al tempo non ci diedi importanza, convinti che si trattasse di senso di colpa per la scelta a cui mi stava costringendo.

Presi un respiro, sul punto di parlare, quando venni interrotta dall'ultimo suono che avrei voluto udire nella vita, una voce maschile che ben conoscevo: «Zoë?»

Io e Victor ci voltammo all'unisono, ancora tenendoci per mano, e in quel preciso momento il mondo si sbriciolò. Richard era in piedi davanti a noi, con gli occhi fuori dalle orbite e il volto distorto da incredulità e sofferenza.

La mia voce e quella di Victor vibrarono simultanee: «Oh, cazzo.»

Betaggio a cura di: Sayami98

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