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14. Sick and twisted affair

Canzone nei media:
Sick and twisted affair - My Darkest Days

"Non c'è in natura una passione
più diabolicamente impaziente di quella
di colui che, tremando sull'orlo di un precipizio
medita di gettarvisi."
(Edgar Allan Poe)

Era da due giorni che non pensavo a Richard.

Me n'ero resa conto quanto, stesa sul letto, avevo guardato fuori dalla finestra. L'atmosfera grigia e l'aria del tardo pomeriggio mi avevano riportato alla mente l'ultima giornata trascorsa a Grimlanes. Fino ad allora ero stata convinta che la mia vita fosse da considerarsi normale, che l'unica persona di cui avrei dovuto preoccuparmi fosse Richard... ma le cose erano precipitate.

Era stata una sensazione improvvisa, che mi aveva tolto il respiro. Ero arrabbiata con lui, non volevo parlargli, ma mi sentivo in colpa per essermi del tutto dimenticata della sua esistenza. Non era neanche stato volontario, semplicemente avevo cose ben più importanti a cui pensare, che mi costringevano a scegliere cosa mettere da parte: avevo abbandonato il terrore e la tristezza che la situazione con lui mi portavano per concentrarmi solo su Victor e le sue incredibili rivelazioni.

Le voci avevano preso il controllo, guidando i miei pensieri. Non mi ritenevo una persona incline ai cambiamenti, le novità mi spaventavano, mi scombussolavano, e a me non piaceva provare confusione, mi faceva sentire debole. La paura dell'ignoto fomentava se stessa nell'oscurità notturna, quando voci, urla e risa diventavano insostenibili. Mi tenevano sveglia, costringendomi a ingoiare i calmanti prescritti da Mr. Cooper come caramelle. Ma nemmeno nel sonno avevo pace.

Ora, grazie a Victor, iniziavo a comprendere una parte dell'ammasso caotico ch'era la mia testa, e in me si stava venendo a creare una teoria sulle visioni a cui ero soggetta. Lui e l'Uomo degli Incubi si somigliavano in modo sconvolgente: avevano la stessa voce, gli stessi occhi, gli stessi zigomi... e mi avevano mostrato lo stesso sentiero deserto fra gli alberi, lo stesso edificio, seppure nei miei sogni fosse diroccato. Nel sonno non ero mai riuscita a mettere a fuoco il suo volto, ma solo a carpire le parole che ripeteva come un disco rotto: "Seguimi, Marie. Ignora i loro ordini."

Una parte di me provava ancora l'odio atavico che mi spingeva a volergli fare del male, ma più passavano le ore più quel bisogno veniva sostituito da quella che potevo definire come semplice rivalità. Non mi era nemmeno sfuggito come non avessi sognato l'Uomo dell'Incubo, la notte prima, bensì il sentiero che avevo percorso quel mattino, in una sequenza sfocata di immagini traballanti dal color ocra, come pellicole ingiallite. Ero quindi arrivata a considerare un'assurda ipotesi, ossia che l'uomo misterioso fosse Victor. In fin dei conti non era nemmeno paradossale: si somigliavano, mi avevano portato nello stesso posto e uno aveva preso il posto dell'altro.

In realtà non erano altro che supposizioni, a cui tentavo di non dar troppa corda, poiché avrebbero significato che – oltre all'essere sull'orlo di una crisi isterica – potessi pure prevedere il futuro. Certo, avevo assistito a un incantesimo con tanto di calderone, ma l'idea di avere poteri di preveggenza era folle.

E quindi mi ero scossa, voltando le spalle alla finestra e portando gli occhi all'architrave della porta, le mani incrociate sotto la guancia. Avevo trascorso i seguenti venti minuti a scrutare il legno e la maniglia dorata, finché la noia e l'insoddisfazione mi avevano travolta; allora mi ero tirata su a sedere e avevo iniziato a leggere uno dei volumi della biblioteca.

Stavolta optai per l'altro libro, quello dalla copertina cremisi. Compresi presto che la struttura interna era identica a quella dell'enciclopedia gemella; anche qui i nomi erano collocati in modo casuale e privi di senso: Kholodnyy, Król, Naukara e tanti altri. Scelsi in modo accidentale, scorrendo svogliatamente le pagine fra le dita. La stirpe vincitrice era Ulupong.

Appresi che la dinastia Ulupong era stata creata attorno all'ultimo decennio del 1400 nelle Filippine, poco prima dell'invasione spagnola, da Rūtenė Demonai, una degli ultimi demono sopravvissuti al Ghiacciaio, e che per tale ragione era una delle ultime ad aver preso vita. Il nome significava "vipera" e i membri erano stati denominati taksil.

Formata inizialmente di sole donne guerriere provenienti da tutto il continente asiatico, si era espansa grazie a matrimoni ibridi e nel tempo aveva mantenuto un marcato potere patriarcale incentrato sul culto della regina, divenuto poi una tirannia. Per circa quarant'anni il trono era stato occupato dalla stessa donna, fino a quando non si era diffuso uno scontento generale e la figlia aveva attuato un colpo di stato, subentrando alla madre. Da allora Maricar Leizel guidava la dinastia con dispotismo e un malcelato odio nei confronti del sesso opposto, generando sole figlie da padri diversi.

Il testo non si soffermava sull'aspetto dei taksil, accennando solo alla trasformazione della pelle in squame e delle iridi in occhi di rettile; la motivazione era l'alone di mistero gravante sulla stirpe, risalente all'incoronazione di Maricar Leizel, la quale aveva chiuso le porte al mondo esterno e creato un piccolo impero personale ben nascosto dagli occhi di umani e immortali compresi. L'Æternae aveva infatti tentato un contatto, ch'era stato aspramente negato, e quando dopo anni era parso chiaro che i taksil non avevano intenzione di espandere il proprio dominio, la Corte aveva deciso di chiudere la questione, considerando gli Ulupong una dinastia Neutrum.

Anche qui l'ultima parte discorreva nel contesto religioso, informazione risalente a Sandara, la prima regina. Anch'essi, come i Divokost', veneravano due divinità sorelle: Shuman L'Incantatrice, dea della morte sofferta, e Nahiman La Mistica, dea degli inganni. Da lì seguivano vari ritratti delle dee, prima che il libro passasse alla dinastia seguente, quella degli Arteriélle.

Fu proprio mentre mi accingevo a iniziare la lettura che qualcuno bussò alla porta. Non mi mossi, limitandomi a sollevare gli occhi sulla maniglia. «Avanti» esclamai, e quando vidi di chi si trattava venni scossa da un moto di fastidio. «Heilgard.»

«Signorina» mormorò lei, socchiudendo la porta alle proprie spalle e facendo un inchino. «Padron Dimitar mi ha mandata per accompagnarvi al bagno, prima che vi presentiate a cena.»

Con la mano ancora appoggiata al libro la studiai. Heilgard sembrava tremare, stretta fra i suoi stessi avambracci. Non mi sarei stupita, se una folata di vento se la fosse trascinata via.

La sua presenza mi riportava alla mente ricordi di un passato che avrei preferito dimenticare.

Respira.
Zoë,
lei è
tua amica.
I corvi, I CORVI!

«I corvi...» sussurrai sovrappensiero, portando lo sguardo sul pavimento. Il dibattersi delle voci e di quello che andavano farneticando mi accese un campanellino d'allarme. Sentivo di essermi fatta sfuggire un'informazione importante. «... Heilgard?» dissi risollevando gli occhi. Brividi freddi mi correvano lungo la schiena.

«... Sì, m'lady?»

«Potresti ricordarmi il tuo cognome?»

Rimase in silenzio per qualche istante, con il capo chino. Mi dava l'impressione di avere paura di guardarmi negli occhi e mi chiesi se fosse un suo tic o se temesse me. Possibile? «Non ve l'ho mai detto» sussurrò alla fine.

La scrutai sospettosa. Avevo letto qualcosa in uno dei due libri a riguardo dei corvi, ne ero sicura, e mi sorse un dubbio: quella ragazzina dai corti capelli castani, che appariva flebile come il gambo di un fiore... avrebbe potuto essere immortale? E se lo era lei... poteva esserlo anche Áshildur?

Diverse teorie affollavano la mia mente, ma non posi alcuna domanda a Heilgard, che ancora scrutava il pavimento. Invece mi alzai, un po' traballante. «Dai, portami al bagno.» Mentre era sul punto di voltarsi, la fermai. «E... Ilsa?»

Mi lanciò una fugace occhiata, appena prima di distogliere lo sguardo. «Sì?»

«Non so per quale ragione eviti di guardarmi, ma se lo fai perché hai paura di me... non devi.»

«Ma io non ho paura di lei, signorina.»

«E allora perché non mi guardi mai?»

Heilgard parve rimuginarci, in evidente difficoltà. Credetti fosse sul punto di parlare, quando aprì la bocca, ma scosse la testa, la incassò nelle spalle e rapida aprì la porta schizzando via.

Chiusi gli occhi e me li massaggiai, pronta a correre per starle dietro. Prima di uscire, però, abbassai lo sguardo sul parquet; non so per quale ragione lo feci, forse mi venne spontaneo, so solo che quello che vidi mi lasciò di stucco. A terra c'era una piccola e soffice piuma nera.

* * *

Mi torturavo le mani, mentre scendevo la scalinata che portava al piano terra, tanto che la pelle era diventata rossa e sensibile. Heilgard era davanti a me, capo chino e passo veloce.

Ero un fascio di nervi.

Sotto il tessuto dell'abito mi stavo sciogliendo: era lungo, di pizzo nero, scomodo e forse persino di una taglia più piccola da come mi stringeva sui fianchi.

Durante la giornata avevo provato un senso d'oppressione, al pensiero di quella cena, che ora si tramutato in vero e proprio terrore. Non ero pronta a riaffrontare quelle persone, non ora che sapevo cosa si nascondeva dentro di loro: Victor, Dimitar, Móreen... persino Aušrius. Tutti celavano un mostro.

Come avrei potuto dissimulare il mio timore? Ero rimasta affascinata dalla Bestia, ma era come se le ore intercorse e l'incantesimo di cui ero stata testimone avessero ribaltato tutto. Volevo conoscere quel mondo, capire se la mia famiglia mi aveva davvero mentito, ma questo non spegneva la paura.

Pensai che qualche creatura divina dovesse aver accolto le mie preghiere, perché quando arrivai al salone metà delle sedie erano vuote. Al mio ingresso, i tre presenti si voltarono di scatto, ma fra loro solo Aušrius tirò le labbra nell'ombra di un sorriso.

Heilgard si fermò all'entrata e io raggiunsi il posto che avevo occupato anche la sera prima, con la schiena dritta e le mani sudaticce. Nessuno si mosse.

«Buonasera» salutò Aušrius, seduto alla mia destra. Il suo busto asciutto era avvolto in una camicia nera, resa particolare dall'estensione del colletto di raso, la quale scendeva a onde verso lo stomaco, dove si trovava il primo dei quattro bottoni del panciotto. A dir poco datato, ma gli donava.

«'Sera» risposi con un cenno, prima di voltarmi verso gli altri due. «Victor, Móreen.»

«Buonasera, Zoë» replicò quest'ultima, avvolta in un abito smanicato color ruggine. «Sei arrivata proprio al momento giusto, stavamo discutendo del fatto che quest'oggi ci saremo solo noi. Con nostro rammarico Dimitar e Balveer non potranno partecipare alla cena.» Sorrise mesta. «Ma è anche vero che è proprio quando il gatto non c'è che i topi ballano, no?» poggiò il gomito sul tavolo e il suo sopracciglio biondo si inarcò.

Odia-
-violenza.
Lei è
N E M I C O.

Non chiesi il motivo della mancata presenza di Dimitar, limitandomi a mormorare «Già...» e sforzandomi di sorridere. Non dovevo rispondere alle provocazioni, soprattutto a quelle di Móreen.

L'atmosfera era a dir poco suggestiva: la sala era mal illuminata dalle fiammelle delle candele, sistemate nei candelabri che pendevano sulle nostre teste. Il muro di pietra sul fondo della stanza dava quasi l'impressione di trovarsi in una grotta.

«Allora» riprese Móreen dopo un po', portandosi la mano alla tempia, «come hai trascorso il pomeriggio?» Sentivo lo sguardo tagliente di Aušrius e Victor su di me. Quest'ultimo non mi aveva salutato e, dopo il freddo congedo che mi aveva rivolto quel mattino, tentavo di fare finta non esistesse, rifiutandomi di voltarmi nella sua direzione.

Deglutii, chiudendo le mani a pugno sotto al tavolo. Cosa potevo dire? Di certo non potevo raccontare loro della strega.

Ero sul punto di biascicare una frase di circostanza quando un rumore stridulo m'interruppe: la porta di metallo alla nostra sinistra, dall'altra parte della stanza, si aprì cigolando, e una figura avvolta in un abito grigio si fece avanti con calma. Non riuscii a scorgere il suo volto, nascosto dal coperchio tondeggiante del vassoio che portava. Tutti e quattro la fissammo in silenzio, in attesa. Fu quando questa si fermò alla mia sinistra, davanti alla sedia vuota di Balveer, nell'abisso che correva tra me e Victor, che scostò il piatto di portata. Riconobbi i suoi lineamenti dolci e il mio cuore fece una capriola nel petto, prima di spegnersi con un tunf.

«Padr...» la sua voce limpida si strozzò, quando anche lei mi riconobbe.

Era la strega.

«Oh, Soraya» intervenne Móreen. «Grazie di aver portato gli antipasti. Questa sera Dimitar e Balveer non ci saranno, quindi limitate le pietanze.»

Soraya non le rispose, congelata com'era. Vidi le sue labbra tremare e la gola deglutire a fatica. Mi osservava senza sbattere le palpebre, mentre la sua laringe sussultava a scatti come se stesse cercando di dire qualcosa, ma dalla bocca non usciva nulla. Non sembrava arrabbiata, quanto più... spaventata. Ma da cosa?

La nostra impasse sembrò durare un'eternità, eppure gli altri parvero non essersi accorti di nulla quando Soraya si voltò verso di loro. «Certo, lo dirò alle cuoche.» Lei e Móreen si scambiarono un'occhiata, accompagnata da un rispettoso cenno del capo, ma non mi ci volle molto per capire che era un rispetto di plastica, finto, costruito.

Mentre si voltava, diretta da dove era venuta, credetti di udire un: «Spero vi ci soffochiate.»

Non appena svanì nella nube di calore che uscì dalla cucina, Móreen batté le mani. «Beh, buon appetito allora!» disse allungandosi per sollevare il coperchio dal vassoio. Sotto c'erano delle tortine di pastafrolla, con una sommità di crema e decorate da gamberetti o olive. Quella sera i calici non contenevano la sostanza rossa che Dimitar mi aveva impedito di bere il giorno prima – non avevo faticato a fare due più due.

Distolsi lo sguardo dalle tortine, perplessa e con lo stomaco chiuso, e lo sollevai per errore, finendo per incontrare gli occhi di Victor. Lui mi stava fissando con espressione vuota, freddo come ghiaccio e ritto contro lo schienale della sedia. Indossava un completo elegante, una camicia bianca dal colletto alto cui sopra teneva un gilet-corsetto marrone scuro decorato da motivi floreali dorati, che lo rendeva ancor più magro di quanto non fosse. Se a suo fratello lo stile vittoriano donava, su di lui sembrava fatto a pennello, un gentiluomo uscito direttamente dal 1880.

Lo scambio durò pochi istanti, prima che lui portasse l'attenzione sul vassoio al centro del tavolo, ma fu intenso, profondo, e vidi distintamente le sue labbra muoversi in una frase silenziosa che mi ricordò molto le parole dell'Uomo dell'Incubo.

* * *

Esattamente come la cena, arrivò anche il momento di attuare la mia fuga.

Erano più o meno le due di notte e io, scossa da brividi, ero immobile davanti alla porta chiusa della mia stanza. Avevo paura di quello che stavo per fare. Oltre quel muro c'era il nulla, un'infinita distesa d'oscurità brulicante di creature terribili. E io stavo per varcare la soglia del non ritorno, senza alcuna certezza di vittoria, senza alcuna sicurezza di uscirne indenne, senza nemmeno una torcia. Speravo che quell'insolita capacità di vedere al buio tornasse, ma anche se mi fossi trovata ad andare alla cieca, non mi sarei fermata.

Allungai la mano e abbassai la maniglia nel più silenzioso dei modi, facendo lo stesso quando – sbirciando all'interno per accertarmi che la figura fatta di cuscini e libri fosse credibile – la chiusi. Piano piano raggiunsi la porta che avevo usato quel pomeriggio e con le dita incrociate mi tuffai nella mia avventura.

Di notte quei luoghi apparivano ancor più abbandonati e spettrali. Le luci dei lampadari erano spente, non c'erano finestre a far entrare il bagliore lunare, eppure i miei occhi si rivelarono ancora una volta capaci di vedere. Era una sensazione strana, mai provata prima. Sembrava che su tutto ciò che guardavo vi fosse un telo azzurro, il quale rifletteva una luce immaginaria e nebbiosa; gli oggetti e i mobili erano fatti di spigoli, luminosi contorni in un mondo di apparenze.

«Bene» mormorai, stringendomi nel maglione che Áshildur mi aveva dato, «procediamo.»

Sapevo di non dovermi far fermare dalla paura, né dal rischio che la vista notturna svanisse, e perciò mi costringevo a mettere un piede dopo l'altro, avanzando rapida sui pavimenti polverosi. Nella mia testa conoscevo più di metà della strada e seppure la soggezione mi facesse tremare non mi sarei fermata; dovevo solo ripercorrere i miei passi e scendere al piano terra.

Per tutto il tragitto tenni il fiato sospeso, come temessi che un solo respiro potesse tradire la mia presenza a impalpabili fantasmi, e quando arrivai alla rampa dal corrimano dorato mi si bloccò la saliva in gola. Nell'avvicinarmi tremai come una foglia. I gradini erano strati di crepaccio, pronti a cedere sotto ai miei passi: scesi come disponessi di tutto il tempo del mondo.

Giunta al pianerottolo del primo piano mi fermai. Ricordai che quel mattino mi era parso di vedere una lampada a olio nella biblioteca, ma vi avevo dato troppa poca importanza per essere sicura di non sbagliarmi. Decisi che una piccola deviazione non mi avrebbe causato problemi, perciò aprii la porta che dava sul piano e a passi ancor più leggeri percorsi i corridoi principali fino alla mia destinazione.

La casa era talmente silenziosa da far sembrare che non ci vivesse nessuno.

E a luce argentata che entrava dalle finestre fu come un dono divino.

Scoprii contrariata che la porta della biblioteca era chiusa a chiave e con più affanno tornai all'oscurità del pianerottolo, lanciandomi più frettolosa verso il piano terra. Non avevo la minima idea di cosa stavo facendo: il pensiero di essere sul punto di scappare mi faceva girare la testa; per due giorni avevo pianificato quel momento, crogiolandomi all'idea di farla sotto al naso di quella gente. Ma ora, ora che sapevo la verità, ora che sapevo perché mi trovavo lì, un grande interrogativo gravava nella mia mente, facendomi vacillare: era la scelta giusta?

Sì.
No, Marie,
resta!
FIDUCIA.
TERRORE.

Gli echi delle risate che ogni tanto udivo non mi rendevano il lavoro più facile.

Strinsi le labbra in una linea sottile, rallentando il passo e fermandomi davanti alla porta di legno del piano terra. Fu allora che udii un rumore – flebile e soffocato, simile a uno starnuto – e che mi voltai di scatto, mentre questo riecheggiava tra le quattro pareti come le voci nella mia testa. Con i palpiti attesi che qualcuno spuntasse dalla tromba delle scale, ma dopo due minuti di totale silenzio capii di essere sola. O che, chiunque fosse stato, non voleva fermarmi. Era anche possibile che quel qualcuno non sapesse neppure che ero lì.

Ringraziai la provvidenza di non avermi dato quella torcia.

Tremante diedi le spalle alla rampa e girai la maniglia della porta, affacciandomi al corridoio deserto. Davanti a me si trovava la zona che avevo visto il primo giorno: il muretto e le inferriate alle finestre, le ombre che scivolavano come vive sul pavimento, causate dal muoversi placido delle nubi. Nemmeno qui c'era nessuno e quando guardai sulla destra una sensazione di sollievo mi allargò i polmoni: eccolo lì, il tunnel di vetro che collegava la casa alla serra.

Non riuscii a impedirmi di sorridere, mentre sospirando mi ci dirigevo e accostavo le mani alle maniglie. Tirai, ma la porta a due ante non si mosse. Allora spinsi, ma non accadde nulla, e il mio sorriso s'incrinò. Riprovai, con il viso bloccato dallo smarrimento: era chiusa a chiave.

Indietreggiai come scottata e mi affondai le dita nei capelli, dando la schiena al tunnel. La mia via di fuga era bloccata.

«Okay, calma» bisbigliai, alzando le mani davanti a me. «Ci deve pur essere un altro modo.»

Sicura
che vuoi
scappare?
Lui è
qui!
Bugiardaaaaaa-
-bugiarda.

Ignorai le voci e mi costrinsi a pensare. L'unica altra via d'uscita, se non volevo calarmi dalla finestra con una corda di lenzuola, era il portone d'entrata. Il cancello era chiuso, ma avrei potuto arrampicarmi senza problemi, quindi tutto si giocava lì e ora. Ero ben conscia che la mia poteva essere una speranza vana. Insomma, perché mai avrebbero dovuto lasciare aperto l'ingresso principale?

Provare non costa nulla, mi dissi, avviandomi e trascinandomi di androne in androne, riconoscendo in parte la strada che avevo fatto con Håvard. Quando vidi spuntare davanti a me la scalinata che portava ai piani superiori e la sala da pranzo, il conforto tornò a fluire nelle mie vene, prima che mi accostassi al portone e un moto di terrore mi attanagliasse le viscere: avere la certezza di essere intrappolata mi avrebbe distrutto. Tuttavia non mi fermai, spingendo la maniglia intarsiata senza dare il tempo alla paura di controllarmi, e nel momento in cui udii il secco click della serratura rimasi boccheggiante. L'entrata principale era aperta, proprio come lo era il cancello di ferro battuto che tramite lo spiraglio potevo scorgere in lontananza. Ciò poteva significare solo una cosa: non mi avevano mentito, non ero prigioniera.

Fu allora, con il braccio alzato nella fredda aria notturna e il piede appena oltre la soglia, che i dubbi mi esplosero nel petto, avvelenandomi con domande a cui non ero sicura di possedere una risposta. Ora che avevo la prova, ora che potevo lasciarmi per sempre quel mondo alle spalle... ero sicura di volerlo fare? Sarei potuta tornare a Grimlanes e alla mia vita, dimenticare quella magione, i sogni che mi tormentavano e quella magica realtà nascosta sotto agli occhi del mondo... avrei potuto dimenticare Victor, l'odio e il fascino che si spandevano in me come un veleno quando pensavo a lui.

Ma alla fine, cos'era tutto quello che avevo visto se non una sorta di veleno? Ti attirava a sé, spingendoti a chiederne di più, fino a quando non ti trovavi incastrato. Ne avevo sperimentato una minuscola parte, ma la curiosità di sapere mi aveva annebbiata. E le voci, mentre guardavo i raggi di luna riflettersi sui gambi d'erba bagnata, gridavano farneticanti. Una parte diceva di restare, l'altra urlava di correre più veloce del vento. In mezzo c'ero io, che non sapevo cosa volevo davvero.

L'unica cosa che capivo in quel caos, l'unica voce che strepitava più forte delle altre, era quella che diceva che ciò di cui avevo bisogno era anche l'unica da cui volevo tenermi lontana: Victor. E non riuscivo a spiegarmelo. Quell'uomo era ovunque: nei miei pensieri, nei miei sogni, nei miei incubi.

Avevo detto a me stessa di non volerci avere niente a che fare, ma era innegabile che mi trovassi in un affare malato e contorto, e la cosa che più mi spaventava era che non sembravo avere l'intenzione di liberarmene. Victor era la figura che mi chiamava a sé quando chiudevo le palpebre ed era ironico come – ora che guardavo la fuga negli occhi – fossi pronta ad accettarlo.

Ero davvero pronta ad accettare di restare, di entrare in quel mondo?

Sì, Marie!
Fuggi, Zoë!
Lui è
cattivo.
Anche tu!
SANGUINATE.

Mi portai le mani alle tempie e vi premetti le unghie. Volevo piangere, volevo solo potermi accasciare a terra e piangere. Non lo feci, sbattendo invece le palpebre e ricacciando il bruciore. Guardai di nuovo il cancello, che spalancato m'invitava ad andarmene, mentre alle mie spalle quel mondo incredibile mi chiamava, occludente e pieno di segreti.

No, non potevo scappare. Mi erano state rivelate cose straordinarie e se non avevano mentito sulla mia libertà... allora significava che non avevano mentito nemmeno sull'aiuto che potevo dar loro con l'Æternae. Avrei davvero potuto fermare la guerra? Se c'era anche solo una remota possibilità che potessi far cessare la diatriba fra la mia stirpe e quella di Victor, allora non potevo fuggire, non potevo voltar loro le spalle.

Con sguardo risoluto inspirai ed espirai profondamente. Dentro di me avevo già preso la mia decisione, con i suoi pro e i suoi contro. Se si fosse rivelata un errore avrei dovuto pagarne le aspre conseguenze. Ma ora ne ero consapevole, per la verità ero pronta a farlo.

Avevo tremato sull'orlo del precipizio e dopo avervi a lungo meditato mi ci ero buttata a capofitto. Da lì in poi, non vi sarebbe più stata alcuna possibilità di ritorno.

Feci un passo indietro, togliendo il piede da oltre la soglia, e chiusi la porta. Alla fine sospirai, rilasciando la tensione. Forse ero stupida a negarmi quella fuga, ma se ero l'unica a poter salvare quelle persone e le avessi abbandonate non me lo sarei mai perdonata. Così mi morsi le labbra, scossi la testa e mi voltai. Dando le spalle al grande salone buio mi avviai per ripercorrere il tragitto all'indietro. Sarei tornata alla mia stanza e, seppur a fatica, mi sarei addormentata. Era la cosa giusta da fare.

Troppo assorbita dal mio rimuginare, non mi accorsi di non essere sola. Non udii il soffio teso che interruppe il silenzio nella sala dietro di me, né le ossa di una mano scricchiolare nel chiudersi a pugno, accompagnate dal paio di occhi ch'erano fissi sulla mia schiena.

Betaggio di Sayami98

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