*13. Sinners and saints
Canzone nei media:
Ain't No Devil - Andrea Wasse
"Il peccato possiede molti utensili,
ma la menzogna è il manico
che si adatta a tutti."
(Oliver Wendell Holmes)
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«Devi ammetterlo, la ragazza corre piuttosto veloce» sussurrò Móreen.
Fianco a fianco erano accovacciati sul grosso ramo di un albero, gli artigli conficcati nella corteccia per tenersi in equilibrio. Avevano entrambi il fiatone, causato dalla corsa all'inseguimento della preda. Questa zigzagava fra i tronchi ritorti, fra silhouette informi e la penombra del bosco.
Non era la prima volta che – nelle ultime due ore – Móreen gli parlava nel tentativo di aprire una conversazione; lo sforzo era però reso inutile dalle sue laconiche risposte monosillabiche. Victor era sollevato che, da quando avevano lasciato la magione, non avesse nominato Zoë, ma il dubbio lo attanagliava: quanto sarebbe trascorso prima che si decidesse a farlo? E dunque cercava di troncare ogni possibilità di discussione sul nascere.
Doveva tuttavia darle ragione. L'umana che stavano seguendo era piuttosto veloce, volava sullo sterrato come una scheggia, e più volte avevano rischiato di perderla di vista.
Gli faceva sempre un po' pena cacciare in quel modo: braccare la preda fino a sfiancarla. Non era come Dimitar, faticare per protrarre una sofferenza vana non gli dava soddisfazioni: quella ragazza sarebbe morta in un modo o nell'altro, e lui non avrebbe ricavato nulla dal terrorizzarla, la paura non rendeva il sangue più dolce. Ma Móreen questo non lo sapeva e non avrebbe mai dovuto saperlo.
Dietro a tutti i pensieri che come un fumo occludente fluttuavano nella sua mente esausta, però, Victor aveva fame. Stare in compagnia di Zoë lo aveva sfibrato, sensazione che si era amplificata con quell'ultima scarica elettrica. Allora era stato troppo: il suo corpo non aveva più retto la tensione ed era stato costretto ad allontanarsi il più in fretta possibile. La odiava. Non voleva provare le sensazioni che gli suscitava. Non più.
Quell'enkelin non ragionava come avrebbe ragionato un semplice mortale, né come un umano. Aveva visto lo sguardo che gli aveva rivolto quando si era trasformato di fronte a lei, la curiosità e il fascino che avevano illuminato i suoi occhi. Solo un'altra persona lo aveva guardato così, e lei non aveva nessun diritto di essere paragonata a lui. Nessuno.
Victor odiava la confusione che aveva addosso, perché aveva la brutta tendenza a fargli perdere il controllo, e se da una parte desiderava trascorrere quanto più tempo possibile lontano da Zoë, dall'altra era ben consapevole non gli fosse permesso.
Lei
vale il tuo
tempo.
Dion-
«No!» sibilò aspramente, distogliendo lo sguardo dal sentiero per posarlo sulle foglie che accanto a lui tremolavano al vento. Spinse ancora più a fondo gli artigli nella corteccia, fino a sentire dolore.
«... Victor?» sussurrò perplessa Móreen, studiandolo di sottecchi.
Victor non si mosse, continuando a darle le spalle. Il cuore gli batteva rapidissimo, ritmando delirante, e una fitta acuta contro lo sterno gli tolse il respiro. Le voci, erano state le voci, con la loro impertinenza! Non dovevano dire quel nome, mai e poi mai! Non era loro permesso!
Eresia!
E re sia!
Risa sguaiate e crudeli interrompevano i suoi pensieri.
Non
vuoi.
Ascolta.
Ascolta!
«Sto bene» mormorò con un filo di voce, tanto lieve da perdersi nel vento. «Mi è solo tornata in mente... una cosa.»
«Sei sicuro che...»
La interruppe: «Prepariamoci. Sta arrivando.»
Móreen lo scrutò preoccupata per qualche altro istante, ma non disse nulla, preferendo posizionarsi meglio sul ramo in attesa di saltare. Di lì a pochi secondi la sagoma dell'umana comparve sotto di loro, accompagnata dallo sfregare delle scarpe sul terreno polveroso. Victor, se non fosse stato troppo preso a maledire la propria testa, si sarebbe quasi sentito in colpa per la trappola in cui avevano attirato la giovane: convinta di poter scappare, era corsa via, senza rendersi conto di girare in tondo e di avere il vento contro di sé; questo aveva condotto da loro la scia prodotta dalla sua pelle sudata e dal profumo scadente, creando un tragitto grazie al quale erano riusciti a calcolare il punto esatto in cui intercettarla.
I due immortali non si guardarono, quando spiccarono un salto e, allargando le gambe, atterrarono alle spalle della preda, con un tonfo sul terreno rossiccio. Non appena il suono giunse alle sue orecchie, l'umana si voltò di scatto. Victor vide i suoi occhi farsi grandi e umidi. Lacrime scendevano lungo le guance fino al mento, dove andavano a inumidire le ciocche ramate. La osservò scuotere la testa, piangendo mentre indietreggiava. «No...» balbettava, «no, no, no!» La sua voce si fece più alta a ogni monosillabo. «Lasciatemi in pace! Andate via!»
Victor si sentiva rallentato dal caos nella sua testa e osservare le lacrime straripare dagli occhi della ragazza spazzò via ogni traccia d'appetito. Era passato tanto tempo dall'ultima volta in cui cacciare lo aveva davvero allietato; da allora tante cose erano cambiate, come se la giunta del nuovo millennio e di un altro Konjunktūra avesse spento l'ultima traccia di recidiva gioia nella sua vita.
«Non possiamo farlo, piccola» disse Móreen, avanzando di qualche passo. «Il mio amico ha fame.»
«C-cosa?» rispose l'umana, indietreggiando ancora di qualche passo.
No, Victor.
Sì, uccidi.
Morte.
Sangue.
Risparmia.
UCCIDI!
Avrebbe preferito che lì, al posto di quella ragazza, ci fosse Zoë. Uccidere lei avrebbe unito l'utile al dilettevole.
«Vedi...» riprese Móreen, muovendosi in modo circolare e recuperando terreno sulla preda. «Il mio amico non mangia da un po' e... gli farebbe molto comodo il tuo sangue.» Il suo tono era soffice, quasi di scherno. Il nero dei vestiti che indossava le dava un'aura austera, creando contrasto con la pelle olivastra e i capelli color miele.
«I-io non capisco» la ragazza deglutì a fatica, la voce nasale. «Non vi ho fatto niente, lasciatemi in pace. N-non capisco cosa vogliate, ma...»
«Vogliamo il tuo sangue» intervenne Victor. «O meglio, io voglio il tuo sangue.» Non c'era emozione nella sua voce, né sul suo viso, e quando fece un passo avanti fu sgraziato, come se il suo corpo si fosse mosso senza il suo permesso.
«N...»
«Užteks!*» sibilò, interrompendola. «Sono stanco di perdere tempo.» Fu allora, mentre Móreen lo osservava neutra, che Victor abbassò il capo, fino quasi a toccare le clavicole con il mento. Quando rialzò la testa, la sua pelle era vetro decorato da vene, gli occhi diamanti e i canini zanne. Tra i capelli, le corna si stavano allungando nella loro forma contorta. A dirla tutta, avrebbe preferito nasconderle, ancora spaventato dal gesto di Zoë. Fisicamente era stato piacevole, non lo nascondeva, ma lo aveva terrorizzato: l'enkelin avrebbe potuto ucciderlo, se avesse voluto. Aveva avuto la sua vita nelle proprie mani, aveva visto l'incubo che si celava in lui, e non si era ritratta.
E lui non riusciva a smettere di paragonarla a Michael.
«C-cosa sei...» bisbigliò la preda, troncando i suoi ragionamenti.
Móreen, ora alle sue spalle, le posò una mano sul collo. «La tua fine» le sussurrò all'orecchio.
Victor prese la rincorsa e si preparò al balzo. Non dovette rivolgere lo sguardo all'amica per avvertirla, perché lei si scostò nel momento adatto. Erano una squadra perfetta.
«Ti prego!» gridò la ragazza quando lui le afferrò una spalla per trattenerla. «Non ti ho fatto niente!» aggiunse fra i singhiozzi. «Ho solo sedici anni.» Un rivolo di muco le scese dalla narice.
Un tumulto di pena lo travolse.
«Come ti chiami?» le chiese, allentando leggermente la presa.
«Piret» mugolò lei.
«Non piangere, Piret» disse, e i loro occhi si incrociarono. Victor vide la speranza riaccendersi nei suoi occhi azzurri. «Non è colpa tua, ti sei trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.» Dandole appena il tempo di registrare le sue parole, Victor le conficcò i canini nella carne molle della giugulare. Lacerò la pelle pallida e con un ultimo gorgoglio indefinito, la ragazza si immobilizzò, la testa ciondolante.
Attorno a loro, gli alberi osservavano la scena silenziosi. Le chiome verdi si muovevano lente al flebile venticello profumato, il cielo una distesa di raggi dorati, i quali creavano spiragli fra i rami. Gli uccellini cantavano.
Victor accostò le labbra alla ferita e bevve avidamente. Solo quando ebbe trangugiato ogni goccia di sangue lasciò la presa e fece cadere il cadavere sulla terra polverosa.
«Pranzo gradito?» chiese Móreen, affiancandolo.
«Un po' acre.»
«Dimitar lo avrebbe adorato.»
Ci fu un momento di silenzio, in cui nessuno dei due disse nulla, poi Victor si girò verso di lei. «Portiamola alla magione. Se possibile sono più esausto di prima. Ho bisogno di riposarmi, o rischio d'impazzire.»
Lei parve perplessa. «È per via di Z...»
«Andiamo.»
Móreen aveva ragione, suo fratello avrebbe adorato quella seduta di caccia, e proprio per questo non lo accompagnava più nelle sue battute notturne. I pianti isterici e il sapore acre della paura avrebbero dovuto avere un effetto afrodisiaco sui demono, ma su di lui non avevano mai funzionato. Non ne conosceva il motivo, ma non aveva ricordi di aver mai apprezzato i piagnucolii delle vittime o le implorazioni di pietà. Nessuno ne era mai venuto a conoscenza, né i suoi genitori, né i suoi fratelli, né Móreen. Si era impegnato per diventare quello che ogni singolo giorno fingeva di essere, per rendere orgogliosa la sua famiglia. Cosa sarebbe successo, se quel segreto fosse trapelato? All'idea ancora tremava, sebbene l'antica stirpe dei Demonai fosse pressoché estinta e non ci fosse più nessuno lì per punirlo.
Insomma, cos'altro avrebbe avuto da temere, si chiedeva. Perché continuare a mentire? A quale scopo? Non esistevano più i Saggi, nessuno capace di emarginarlo o giudicarlo, solo l'osso spolpato dalla morte della sua famiglia.
E tutto per mano degli enkelin.
Tutto per mano di Zoë.
Nella sua mente era consapevole che lei non aveva colpe, che la guerra che perseguitava lui e Aušrius era avvenuta prima che i suoi trisavoli venissero al mondo, ma non riusciva a impedirsi di darle un ruolo nella rovina della sua dinastia, nella rovina della sua vita. Se non fosse stato per gli enkelin, per il Ghiacciaio, i suoi genitori sarebbero stati ancora al suo fianco, lui avrebbe avuto una ragione per mentire e non avrebbe mai vissuto la tetra fase della sua esistenza che ancora lo tormentava.
La sua anima non era marcita, era solo stata soffocata da tutto quello che aveva fatto per negare la verità, per non soffrire; aveva tentato di dare forma a una dozzinale imitazione di Dimitar, fallendo: i frantumi del suo passato avevano iniziato a muoversi da ben prima che lui e Aušrius trovassero Zoë, riportati in superficie non solo dalle grida della Bestia ma anche dall'esasperazione di ogni giornata. Fingere con se stesso e con gli altri non cambiava la situazione.
Con la sensazione di annegare e il volto sporco di sangue si chinò a terra e afferrò Piret, mettendosela in spalla. Móreen lo scrutava, nel tentativo di carpire qualche suo pensiero. Lei fece un cenno con la testa. «Avanti.»
Il sangue per lui era sempre stato rappresentazione di energia, la reminiscenza di un profumo ormai perduto, familiare ma misterioso. Era casa, in un certo qual senso. Ma il gusto era rovinato da quello che lo precedeva: la morte di un essere inferiore, contornata da paura e moti di pietà, ondate di debolezza che non lo avrebbero condotto da nessuna parte, ma di cui non poteva liberarsi. E così erano anche le emozioni che provava: reali, intense, fondamentali, ma del tutto controproducenti.
Victor odiava.
Victor provava rispetto.
Victor soffriva.
Victor amava.
Amava nei recessi della sua anima, fra le pieghe della sua carne, fin dentro le ossa, nonostante quel che giurava nel buio della notte, nonostante la collera e la sete.
Amava suo fratello.
Amava Móreen.
Amava la dolcezza del sangue mentre scivolava nella sua gola.
E amava ancora Michael.
Ma odiava tutto questo, incondizionatamente. Più volte nei secoli aveva pregato, invocando un aiuto, implorando Ankamon di rivelargli il perché, di dirgli cosa non andasse in lui. Non aveva mai ricevuto risposta e così aveva perso anche la propria fede. Si sentiva bloccato su una strada che non gli apparteneva, la stessa che sin dal primo vagito lo aveva etichettato come debole, come sbagliato.
Lui era nato peccatore, etichettato da quello che scorreva nelle sue vene, dalla sete che incatenava la sua esistenza alla morte. Era l'opposto naturale di Zoë, lontano dalla stupida perfezione della sua stirpe, che non avrebbe mai potuto bruciare nel regno di Ankamon.
Eppure non si sentiva tale, non abbastanza da essere degno, non abbastanza per poter servire il suo dio, lo stesso verso cui non nutriva più rispetto, ma a cui avrebbe comunque obbedito... se mai lui si fosse degnato di considerarlo.
Sba glia to!
Giusto.
Non
servire
il Male, il Male!
SERVI! UCCIDI!
Indegno indegno indegno!
Risa maligne coprirono i suoi pensieri.
Fortunatamente aveva ancora abbastanza considerazione di sé da non rivoltarsi contro se stesso e farsi del male. Non avrebbe potuto essere tanto ipocrita, non quando ogni giorno temeva per l'incolumità di Aušrius per la stessa identica ragione.
Victor non si sentiva un peccatore, malgrado quello che dimostrava la sua discendenza.
Ma lo sarebbe diventato.
Aveva tutta la vita a disposizione per imparare a essere degno di bruciare negli Inferi, una menzogna alla volta, fino a quando non sarebbero diventate verità.
*"Užteks!": significa "Basta!" in lituano.
Betaggio a cura di Sayami98
Banner a cura di Saintjupiter
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