05. The stranger
Canzone nei media:
Tourniquet - Evanescence
"Omneignotum pro magnifico."
(Tacito)
❇
Quando mi svegliai di soprassalto, il mio primo e unico pensiero fu che mi faceva male la testa. Non mi resi subito conto di essermi mossa, mentre mi sollevavo sui gomiti: il cervello pareva schiacciato dalla calotta cranica, più pesante di quanto fosse mai stata. Non ero in grado di respirare, percepivo una sostanza porosa strisciare lungo i miei condotti nasali e ogni volta che i capelli mi sfioravano il prolabio mi sembrava che la pelle venisse perforata dalla punta di un ago.
Gli occhi, dal canto loro, pulsavano come stessero per essere espulsi dalle orbite.
Fu con un'improvvisa e violenta inalata che tornai alla realtà. Un lamento di dolore mi scappò dalle labbra.
Mi accorsi di essere stesa su una superficie tiepida e morbida e che nell'aria aleggiava un intenso profumo di rose selvatiche. Fu questo, oltre alla forte luce che rischiarava la stanza, a farmi capire di non trovarmi nel luogo in cui avrei dovuto essere.
L'ultima cosa che rammentavo era l'immagine delle pasticche di Zaeplon* nella mia mano e il soffitto della mia camera. Eppure, nonostante avessi gli occhi chiusi, ero conscia di non essere più lì. La mia testa, con quella sua agonia opprimente, pareva volermi mettere in allerta. Per quanti sforzi impiegassi, però, non riuscivo a sollevare le palpebre.
Dovetti contare fino a venti, prima di poter aprire gli occhi; fui costretta a richiuderli subito, ma riuscii a registrare uno scorcio di ciò che mi circondava. Scoprire di avere ragione fu agghiacciante e mi provocò un tuffo al cuore.
Distribuendo il peso sul fianco destro mi voltai a pancia in giù e nascosi il viso nel cuscino. La stanza era grande e lussuosa, decisamente non la mia. Con un brivido gelido la mia testa si lanciò in una serie di ragionamenti e supposizioni che trovarono l'unica conclusione di mandarmi nel panico.
Calma,
respira.
U r l a.
Quando la vista si abituò alzai la testa e lanciai un'occhiata allo schienale del letto, prima di far scorrere lo sguardo sul resto. Al di sotto dello strato di paura e tensione che aveva avvolto il mio cuore c'era una parte di me del tutto affascinata da quel che stavo vedendo.
Mi sollevai lentamente a sedere e mi guardai attorno.
Le pareti color grigio scuro erano decorate da ghirigori floreali in rilievo, che rimandavano agli intarsi sui comodini ai lati del letto. A sinistra del letto, vicino al quadro di un bosco primaverile, c'era la finestra, dalla quale entrava una forte luce pallida. La sveglia che trovai sul comodino di mogano accanto a me, segnava l'una e dieci.
Mi sedetti sul bordo del letto e feci scendere le gambe, conscia di dover scoprire cosa fosse successo. Indossavo ancora la mia t-shirt bordeaux e i pantaloni color sabbia, quindi i miei ultimi ricordi dovevano risalire alla sera prima. L'incognita era come fossi arrivata in un posto come quello.
Sul pavimento di parquet era posizionato un enorme tappeto beige e un divano color panna mi dava le spalle, rivolto verso una libreria a muro stipata di libri. Al centro c'era un televisore.
Quando mi alzai in piedi, un mancamento rischiò di farmi stramazzare al suolo, e non caddi solo per la prontezza con cui mi appesi alla colonna del letto. Dopo essermi ripresa mi mossi un passetto alla volta, per non rischiare di nuovo.
«Missä helvettissä minä olen...*» sussurrai a me stessa. Feci un balzo all'indietro, quando la voce di un uomo mi rispose, in finlandese.
«Olet ylellisessä kodissani.»
Colta alla sprovvista indietreggiai. Uno sconosciuto se ne stava con le braccia conserte contro lo stipite della porta. Sorrideva in modo sostenuto ma chiaramente divertito e, nell'assurdità della situazione, ebbi l'impressione che i suoi occhi brillassero.
«E tu chi cazzo sei?» Mi girava la testa e vedevo doppio, perciò mi strinsi più saldamente alla colonna. «E cosa vorrebbe dire che sono in casa tua?»
Nel tentativo di riprendere controllo e far smettere alla stanza di oscillare mi sforzai di concentrarmi su di lui. Soppesai il suo aspetto, ignorando i tonfi sordi del mio cuore e le fitte alla testa. Un dubbio grattava sotto alla superficie dei miei pensieri: qualcosa non tornava, qualcosa che non aveva niente a che fare con il modo in cui ero arrivata lì... ma proprio come un déjà-vu non riuscivo a decifrare cosa fosse.
Lo sconosciuto distese le braccia lungo i fianchi e rilasso le spalle. «Victor» si limitò a dire, indicandosi, prima di fare un cenno del capo.
Colpiscilo.
No, no,
fatti
colpire.
Scossi la testa per scacciare le voci e lo scrutai dalla testa ai piedi. Indossava un paio di jeans e una camicia neri, ai piedi delle francesine più che ridicole. Esteticamente era attraente, ma di un fascino che mi appariva quasi viscido.
«Questo non risponde alla mia domanda» sibilai. C'erano molte cose che non capivo. Principalmente per quale assurda ragione fossi in casa sua e, in secondo luogo, come avesse fatto a entrare nella stanza senza che lo sentissi né lo vedessi.
«Se non ho risposto alla tua domanda è perché non mi va di rispondere.» Mi rivolse un sorriso sardonico e il bisbiglio delle voci si fece più acuto, così come il desiderio di afferrarlo per quei capelli ossigenati e piantargli la faccia contro il muro.
«Vittu!» esclamai. Lo guardai come volessi scuoiarlo. Le mie dita, sempre più strette al legno, erano diventate incolori. Digrignai i denti. «Non me ne frega un cazzo se non ti va. Pretendo delle spiegazioni, sul perché sono qui e su come ci sono arrivata» sputai con astio, tentando di ignorare la fitta che mi attraversò il cranio. «E le pretendo ora.»
Il suo sorriso si fece ancora più ampio. Fece un passo avanti. «Forse potrei averla portata qui io, neiti*.»
Colpiscilo.
Forte.
Zoë, no.
Lasciai la presa sulla colonna e portai le mani alle tempie, soffocando malamente un grugnito e pregando le voci di smettere. «Si può sapere chi diavolo sei?!» gemetti.
«Victor» ripeté, più vicino. Stavolta il suo tono fu serioso. «Solo Victor.»
Sentivo il bisogno fisico di avventarmi su di lui e colpirlo, ma qualcosa mi fermava, spingendo il mio corpo a restare dov'era. Avevo il fiatone come avessi corso una maratona. «Mi hai portata tu qui?»
Le sue palpebre si assottigliarono. «Oltre che stupida sei pure sorda?»
Quasi non credetti alle mie orecchie. Aprii la bocca, senza parole. «Come...» presi un respiro soffocato, «Come ti permetti?» Lui rimase impassibile e un'ondata di rabbia montò dentro di me. «Rispondi alle mie domande» sibilai. «Perché sono qui e dov'è il qui.» Feci un passo avanti, le mani strette a pugno. Avrei voluto incenerirlo.
Lui non parve colpito. «Sei qui perché abbiamo grandi progetti per te.»
Spalancai gli occhi, agghiacciata. Sono fottuta. «"Abbiamo" chi?»
«La mia famiglia» rispose con un ghigno. «Oh, vedrai, ti adoreranno.»
«Chi siete?»
Stavolta scrollò le spalle. «Solo una semplice famiglia che ha bisogno del tuo aiuto.»
«Del mio aiuto» ripetei, inarcando un sopracciglio. Ero quasi divertita dalla pila di stronzate che stava dicendo. «Cosa intendi dire?»
«Tutto a suo tempo, neiti» replicò, facendo un altro passo nella mia direzione.
Dietro di me c'era la finestra e pensai che avrei potuto distrarlo abbastanza da riuscire ad avvicinarmi e buttarmi di sotto. Lui dovette capirlo, però, perché aggiunse: «Se intendi buttarti dalla finestra, sappi che siamo al secondo piano. Penso ti faresti» avanzò ancora, «leggermente» e ancora, «male.»
«Nussia! Sei davvero convinto che resterò qui più del dovuto?» sputai. «Non vuoi dirmi chi sei né il motivo per cui sono...» una fitta improvvisa mi attraversò la testa dalla fronte al cervelletto e mi impedì di finire la frase. Portandomi le dita alla fronte emisi un sibilo strozzato.
«Lo so, gli effetti del cloroformio non sono piacevoli» piegò le labbra all'ingiù, fingendosi dispiaciuto.
Strinsi ancora di più i pugni per costringermi a ignorare le stilettate. Dietro alla nuca sentivo un calore intenso, che si diramava lungo tutto il collo, e il prolabio pizzicava ogni volta che aprivo bocca. Ma avevo una forte resistenza al dolore e non mi sarei fatta fermare da così poco. Non sarei rimasta lì a lungo, sarei tornata a casa mia. Se i miei calcoli erano corretti, non potevo essere troppo lontana.
«Cloroformio?» sussurrai, incapace di alzare la voce. «Mi hai drogata?!»
«È difficile farsi seguire da una persona nel bel mezzo della notte senza un po' di aiuto, non trovi?» rispose, avanzando ancora un po'. Stavolta non indietreggiai, conscia che mi sarei solo messa all'angolo. Se non aveva mentito, dietro di me mi aspettava una caduta di due piani. Ero agile, ma non sapevo volare.
«Questo è rapimento, ed è illegale.» Non so come riuscissi a mantenermi razionale e le voci – un continuo brusio di sottofondo – non stavano aiutando. Tutto ciò che sapevo era di dover scappare e l'unica altra via oltre alla finestra era la porta.
Tenendo le braccia lungo il corpo puntai lo sguardo oltre la spalla sinistra di Victor. Si trovava esattamente di fronte all'entrata, nascosta per metà dalla sua figura imponente. Non seppi cosa mi fece scattare, pensai solo "o la va o la spacca" e presi la rincorsa, sforzandomi di non pensare al pericolo che stavo correndo. E se fosse stato armato? Avevo seguito dei corsi di judo e karate, ma non avrei potuto fare nulla contro un'arma bianca o – peggio – da fuoco. Se avessi scartato a sinistra i miei movimenti sarebbero stati intralciati dal mobilio, se avessi optato per la destra lui avrebbe potuto bloccarmi sul letto. L'unica via per uscire da quella situazione era affrontarlo, ma Victor era già pronto a quell'eventualità.
Tentai di schivarlo, spostandomi di lato e abbassandomi rapida, riuscendo per miracolo a evitare una sua artigliata. Lo spintonai, schiantandomi contro di lui, ma quando fui sul punto di superarlo con una spallata e correre alla porta mi trovai stretta in una morsa: il suo avambraccio premeva contro il mio collo e la mia schiena aderiva al suo petto.
Un denso profumo di rose mi avvolse, graffiandomi le narici.
Mi divincolai, mentre le voci impazzivano.
Fuggi!
Resta,
non vedi che
è lui?
Continuai nel mio tentativo disperato di liberarmi, consapevole che se mi fossi lasciata andare sarebbe finita, ma tutti i miei sforzi, quel mio dimenarmi senza sosta, erano vani. Mi chiedevo, invocando il nome di mia madre con le lacrime agli occhi, cosa mi sarebbe successo.
«Non avresti dovuto farlo» sussurrò, il fiato bollente contro il mio orecchio, «non era mia intenzione farti del male.» Dopo aver parlato alzò la mano destra e me la poggiò con delicatezza fra collo e spalla. sentii una pressione un dolore sordo. «A dopo, angioletto.»
Dopodiché, vidi solamente buio.
* * *
Sentivo qualcuno parlare. Il suono era smorzato, come provenisse da un'altra stanza, ma quando aprii gli occhi – a fatica e dolorosamente – vidi dei piedi all'altezza del mio viso.
Stesa a terra, avevo una guancia contro il parquet. Non lontano da me c'erano due uomini, uno dei quali riconobbi come Victor. Aprii la bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, magari un'imprecazione, ma tutto quel che ne uscì fu un urlo silenzioso. La testa continuava imperterrita nel suo tentativo di uccidermi, ma ero viva – viva!
D'un tratto, con veemenza, l'udito tornò e potei captare uno sprazzo della conversazione. Mi ci volle qualche istante per capire che non stavano parlando in inglese.
«Ji pabandys pabėgti» diceva una voce sconosciuta. «Turėsime atkreipti dėmesi.»
«Oh, Mitrej, nesijaudink» una pausa. «Ji negalės pabėgti, ji mirtinga. Ji yra lėta ir silpna.»
L'altro, quello che doveva essere Mitrej, sospirò. «Taip, bet aš mieliau ne rizikuoti. Mums taio pat reikia miego, Victor, ar pamiršote?» La lingua era senza dubbio lituano, ma non fui in grado di tradurre cosa stessero confabulando.
«Mes galime padaryti pamainomis už... Oh, ji prabudau.» Le loro facce, ondeggianti, si girarono verso di me e io dovetti premere le mani a terra per non fare un balzo all'indietro.
Mentre ci fissavamo venni scossa da un brivido e fui costretta a tirarmi su in ginocchio. Un conato sembrava pronto a tracimare dal mio esofago e pregai che non stesse per succedere davvero. Avrebbe solo peggiorato la mia situazione d'inferiorità.
Anche se Victor era un vero stangone, lo sconosciuto con cui parlava era persino più alto di lui. Lunghi capelli neri, legati in una coda sfatta, ricadevano sulle sue spalle larghe e la carnagione pallida non avrebbe potuto essere più diversa da quella olivastra di Victor. Un paio di occhiali dalle lenti rotonde giaceva a cavallo del naso di Mitrej, la sua mascella squadrata contratta mentre mi studiava dall'alto.
Mi resi conto di essere in una stanza diversa e i miei sensi si acuirono. Raddrizzai la schiena e assottigliai gli occhi. «Prego» sputai, allungando la mano verso di loro, «continuate. Non vorrei interrompervi.»
Loro non risposero, continuando a scrutarmi in silenzio. Il volto di Victor era una maschera di cera e Mitrej mi osservava con curiosità quasi scientifica. «Sarebbe scortese» disse, mantenendo l'aura austera.
Victor, meravigliandomi, allungò una mano nella mia direzione per aiutarmi ad alzarmi, ma dopo averla scrutata con disprezzo mi sollevai da sola, lisciandomi il pigiama. «Piacere di conoscerti» intervenne Mitrej, tenendo le braccia dietro la schiena e non accennando a muoversi. «Il mio nome è Dimitar Kornelijus Demonai, ma puoi chiamarmi Mitrej. Sono il fratello maggiore di Victor.»
«Il piacere è tutto tuo, Dimitar» incrociai le braccia al petto. «Allora, vuoi dirmi tu il motivo per cui mi trovo qui?»
«Mia cara» sorrise educatamente, ma non mi sfuggì il modo in cui arricciò il naso, «temo che questo sia un discorso lungo e assai complesso.»
«Ho tempo» inarcai le sopracciglia. Avrei voluto apparire minacciosa, ma ci mancò poco che – per via dell'ennesima vertigine – non inciampassi da ferma.
Dimitar continuò a sorridere, puntando gli occhi cristallini nei miei. «Tutto a suo tempo. Ti verrà raccontata ogni cosa, devi solo avere un po' di pazienza. Fino ad allora sarai nostra ospite, e ti prometto che non ti verrà fatto alcun male.»
«Non mi interessano le tue promesse.» Lanciai uno sguardo a Victor. «Né le sue. Io non rimarrò qui oltre.» Feci uno stentato passo avanti, fingendo una sicurezza che non avevo. Nel mentre, Victor era rimasto a osservarmi in silenzio. Tentavo di non guardarlo, ma la sua presenza mi metteva a disagio.
«Ora come ora non sei in forze» fu il responso di Dimitar, che mi indicò con due dita. «Sta' tranquilla, andrà tutto bene. Ti spiegheremo tutto non appena ti sarai ripresa e calmata, dopodiché sarà una tua scelta se rimanere o meno.»
«Non credo a una sola parola di quello che hai detto.»
Lui rise. «Non mi stupisce.» Rivolgendosi alla porta d'entrata urlò: «Aušrius!» facendomi sobbalzare. Meno di un secondo dopo, l'uscio si aprì e un ragazzo entrò a passo teso, lo sguardo fisso sul pavimento.
«Mi avete chiamato?» mormorò, le mani incrociate davanti al bacino.
Udii un sussurro provenire da Victor, ora girato di tre quarti verso il fratello: «Atslūgti, Mitrej...» Fu l'unico sguardo che mi permisi di rivolgergli.
Aušrius era poco più alto di me, aveva la carnagione scura e in testa un ammasso di riccioli castani. Non sembrava felice, ma la cosa che più mi colpì erano i lividi sulle sue mani e il sangue rappreso che potevo scorgere sotto alle unghie. Deglutii un grumo di saliva con la gola riarsa.
«Zoë» Dimitar mi richiamò, distraendomi bruscamente. Non mi chiesi come facesse a sapere il mio nome e impiegai ancora più sforzi nell'ignorare Victor, che ora aveva iniziato a fissarmi senza ritegno. Mi sentivo come l'ago di una bussola, e quello sconosciuto era il nord.
«Ti presento Aušrius» riprese Dimitar, «nostro fratello minore. Ti accompagnerà in cucina, prima di affidarti alle mani dei nostri domestici, che ti daranno degli abiti puliti. L'unica cosa che mi permetto di chiederti è dunque di prenderti cura di te stessa.»
Avrei voluto sputargli in faccia.
«Ci riaggiorneremo non appena ti sarai riposata. A presto» detto questo mi diede le spalle, fingendo di non vedermi nello stesso modo in cui io fingevo di non vedere Victor, silenzioso e lì impalato come un fantasma. Solo che a Dimitar riusciva decisamente meglio.
Ero irritata dal loro modo di trattarmi, ma sapevo che più avessi opposto resistenza più faticoso sarebbe stato scappare. Dovevo studiare un modo per evadere il prima possibile, ma per farlo necessitavo di silenzio, e di essere sola, senza quegli avvoltoi a svolazzare sopra la mia testa. Dovevo pensare.
Aušrius mi offrì il braccio, in attesa. Teneva lo sguardo basso, ma vidi i contorni violacei delle occhiaie. Quel ragazzo non dava l'impressione di stare molto bene.
Mi avvicinai con lentezza e sempre sospettosa lo presi sottobraccio, così da mantenermi in piedi. Le vertigini erano meno intense ma avevo ancora le fitte alla testa e mi sembrava ancora di star respirando sabbia. Fianco a fianco raggiungemmo la porta. Le labbra di Aušrius erano strette in una linea sottile e il suo volto contrito. Sentii il bisogno di trattenere, per qualche motivo, il respiro.
Poco prima di uscire guardai velocemente la stanza. Avevo sempre avuto una memoria fotografica e ricordare i posti in cui venivo portata avrebbe potuto aiutarmi a creare una mappa mentale della casa.
L'ufficio era arredato nello stesso modo lussuoso della camera ma tutto il mobilio si basava sul contrasto fra bianco e nero. Sulla parete dietro di me erano disposte tre finestre in sequenza e alla mia destra si trovava un grande divano di pelle, affiancato da due poltrone. Quando mi lanciai un'occhiata alle spalle, vidi che Dimitar si era seduto alla scrivania, comportandosi come se la nostra conversazione non fosse avvenuta, ma Victor era ancora in piedi, rivolto verso di me e intento a scrutarmi con volto vuoto. Fu allora, mentre tentavo d'immaginare cosa potesse passargli per la testa, che ebbi l'impressione di averlo già visto da qualche parte. Più di una volta.
Forse... no, no, non era possibile.
Allontanati.
Avvicinati.
Studia.
Distolsi lo sguardo e mi obbligai a non girarmi di nuovo.
Una volta usciti dalla stanza, Aušrius mi trascinò via senza indugiare, e non appena fummo abbastanza lontani in me si andò a espandere un inusuale senso di calma. Fu strano, ma la presenza di quel ragazzo mi dava... pace. O forse era solo la mancanza degli altri due.
«Aušrius, giusto?»
Non appena gli rivolsi la parola un angolo delle sue labbra si tirò timidamente. Ora non stava più guardando a terra. «Sì, è un piacere conoscerti, Zoë. Ti aspettavamo da un po'.»
A ogni passo il suo gomito sfiorava il mio fianco, ma Aušrius faceva attenzione a non intralciarmi e anzi, a tenermi in piedi nei momenti in cui i miei passi si facevano meno stabili. Ebbi l'impressione che con lui avrei potuto discutere. «Tu sai perché sono qui? I tuoi fratelli non sembrano propensi alle spiegazioni.» Distante dall'ufficio e da quel Victor, il mio corpo – ma soprattutto la mia mente – sembrava in grado di respirare.
Aušrius rise. «No, hai ragione, non lo sono.»
Mentre camminavamo mi permisi di osservarmi attorno: nonostante tutto, la bellezza di quella casa era stupefacente. Il pavimento di marmo era venato di grigio e sopra le nostre teste pendevano lampadari di cristallo. Sulla parete alla mia sinistra c'era una serie di grandi finestre ad arco e oltre il vetro il cielo grigio cominciava a tendere all'indaco.
Mi chiesi da quanto quell'edificio stesse in piedi – forse un'eredità di famiglia? – e quanto dovesse costare. Fra me e me cercavo di capire se avevo mai sentito nominare il cognome Demonai, ma non mi diceva nulla.
Alla mia destra erano appesi dei quadri: rappresentavano in sequenza decrescente Dimitar, Victor e Aušrius, ritratti fino ai fianchi, tutti e tre in posa regale e agghindati elegantemente. Sotto ogni tela c'era una targhetta d'oro.
«Kirottu» imprecai, e udii il ragazzo ridacchiare.
«Lo so, spesso fa quest'effetto.»
«Si può sapere chi accidenti siete?»
Lui, per tutta risposta, si lasciò scappare l'ennesimo sorrisetto. «Tutto a suo tempo, panelė*, tutto a suo tempo.»
*Zaeplon: sedativo-ipnotico usato per il trattamento dell'insonnia su prescrizione medica.
*"Missähelvettissä minä olen": finlandese, "Dove accidenti mi trovo"
*Neiti: finlandese, "signorina"
*Panelė: lituano, "signorina"
Betaggio: Sayami98
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