*00. Prologas
Prima che commentiate voglio specificare alcune cose...
1. I DEMONAI NON SONO VAMPIRI.
2. SONO DEMONI.
3. NO, NON APPARTENGONO AD ALCUNA RELIGIONE TRADIZIONALE, COME AMPIAMENTE RIPETUTO.
4. C'È UNA RAGIONE SE SI NUTRONO DI SANGUE UMANO, MA SI SAPRÀ PIÙ AVANTI.
Grazie dell'attenzione.
[Il capitolo potrebbe contenere linguaggio non adatto a persone sensibili, in quanto contenente argomenti un po' forti. Leggere a vostra discrezione.]
Canzone nei media:
The evil made me do it - Powerwolf
Estonia, 1999
Era una notte di fine maggio. La luna crescente splendeva in un cielo privo di stelle, ogni tanto coperta da nuvole di passaggio. Era l'atmosfera perfetta per una piccola battuta di caccia.
Due figure avviluppate da ombre si stagliavano sulla sommità di un edificio, osservando in silenzio quel che si stendeva ai loro piedi. Le loro iridi brillavano nel buio e un'aura minacciosa si aggrovigliava ai loro corpi come rami di edera. Qualche casa più indietro, una terza figura si stava avvicinando, presa in una corsa dalle movenze bestiali.
«Capto una preda» sussurrò una delle due, inspirando l'aria serale. «Chi la punta?»
L'altra schiuse le labbra e dal ghigno fecero capolino le cuspidi di due lunghi canini. Sulla sua testa, fra ciocche biondicce, spuntavano delle corna ricurve. «La sento, Dimitar. Dal mio umile e assolutamente imparziale punto di vista, suggerisco di optare per un "chi prim'arriva meglio squarcia".»
Dimitar scoppiò a ridere. «Non dare per scontato di riuscire ad arrivare per primo, Victor.»
«Ti sopravvaluti, così come sopravvaluti le tue mediocri capacità relazionali.» Mentre Victor parlava, uno spostamento d'aria annunciò l'arrivo del terzo fratello, Aušrius. Questi balbettò qualcosa con voce affannata, quasi inciampando su una tegola, ma venne ignorato.
Victor tese le orecchie: poteva sentire i passi della preda mentre scendeva una rampa di scale e usciva all'aria aperta, calpestando sassolini e steli d'erba. L'odore emanato dalla sua pelle era forte. Doveva essere molto vicina. «È vicina» sussurrò. «Ho fame.»
Dimitar rise di nuovo. «Fratellino, controlla i tuoi istinti.»
«Da quale pulpito è mai provenuta la predica» replicò lui con tono sarcastico. Al suo fianco, Aušrius trattenne a fatica una risatina e Victor gli rivolse un ghigno divertito. «Vedi? Anche Auš è d'accordo.»
«Sarà meglio per voi chiudere il canale di scolo che vi deturpa la faccia, se non volete che le vostre caviglie facciano la conoscenza dei gargoyle di casa» li minacciò Dimitar, scoccando loro un'occhiata eloquente. «Siete gradevoli come l'epidemia di vaiolo del sedicesimo secolo.»
Victor scosse la testa. «Cos'è che vorresti fare alle mie caviglie? Ma per favore» proferì con spocchia, «vetrar.» Dimitar lo fulminò, ma prima che potesse dire qualcosa lui aveva già rivolto la schiena al vuoto e spalancato le braccia. Aušrius sorrise quando, lasciandosi cadere, il fratello gli fece l'occhiolino.
Mentre precipitava, Victor portò lo sguardo alla luna e sorrise sentendo il vento sferzargli contro. Amava la sensazione di vuoto che gli strisciava dalle viscere fino al petto, facendolo sentire come privo di peso. Era capace di togliere parte dei fardelli che gli gravavano sulle spalle.
I lembi della giacca di pelle si sollevavano e gli sbattevano contro il torace.
I capelli chiari erano scarmigliati e le sue iridi brillavano come fari nella notte.
A un occhio esterno sarebbe potuto sembrare un angelo in caduta libera dal paradiso... ma francamente parlando, Victor non avrebbe potuto essere più diverso da un angelo. Se il suo cuore striato di nero non fosse bastato come esempio, quello che gli scorreva nelle vene avrebbe reso ben chiara la sua provenienza.
Victor non era un angelo, non era un principe e non era nemmeno un eroe. Era un assassino. E aveva il sangue di molti innocenti a imbrattargli la coscienza.
Era spietato e non nutriva pietà per le vittime che mieteva o le vite che rovinava, poiché gli umano non erano altro che cibo... o perlomeno questo era ciò che lui amava raccontare.
Quando atterrò, circa diciotto metri più in fondo, percepì un leggero bruciore alle nocche della mano destra, coperta da un mezzoguanto di pelle. Era affondata nel terreno come fosse fatto di marzapane. Per via della forza dell'impatto, anche sotto al ginocchio si era creata una conca.
Dopo aver atteso qualche istante, Victor alzò di scatto la testa, trovandosi solo nelle ombre del vicolo. In un angolo lontano si potevano scorgere varie chiazze d'acqua di gradazione verdognola; formatesi dallo sgocciolio delle grondaie, le pozzanghere si accompagnavano ai cassonetti dalla pittura scrostata, ammassati in disparte e circondati da sacchi di nylon. Seguendo l'unica scia di profumo in quell'insieme maleodorante, Victor si incamminò, sentendo il vociale di Dimitar e Aušrius alle sue spalle.
Arrivato a destinazione sfruttò un palo della luce per nascondersi alla vista. Un paio di metri più avanti, una ragazza stava cercando di incastrare dei sacchi della spazzatura in un bidone di metallo già fin troppo pieno, canticchiando qualcosa sottovoce.
Victor si lisciò la giacca e si passò una mano fra i capelli, cercando di sistemarli alla bell'è meglio. Perché tutto potesse andare a buon fine il suo aspetto necessitava di sembianze umane, quindi, con la schiena appoggiata al muro di mattoni, chiuse gli occhi e unì le mani davanti al mento. La sua pelle iniziò a perdere il colore traslucido e celò le vene che vi si diramavano sotto; fu quando le zanne si furono ritratte, i bozzi sul labbro superiore sgonfiati e le corna rimpicciolite che essa tornò olivastra. I suoi tendini, ora, erano di nuovo rilassati – nonostante le sue mani tremassero – e gli occhi della loro solita tonalità.
Senza emanare un suono, Victor si avviò verso la ragazza. Il suo profumo era forte, un misto pungente di magnolia e limone. L'aveva appena raggiunta quando lei si volto e, nel vederlo a pochi passi da sé, sussultò. «Cristo santo» imprecò, portandosi una mano al petto e togliendo le cuffie dalla testa con l'altra. Dal suo fianco, un walkman diffondeva della scadente musica pop.
Victor la osservò incuriosito, ignorando il fruscio del sangue che gli rimbombava nei timpani. Dentro la sua testa, la Bestia gli sussurrava di farla a pezzi. «Perdonami» disse subito, alzando le mani. «Ti ho vista chinata e ho pensato stessi male. Ho anche provato a chiamarti ma tu non hai risposto.» Indicò con l'indice il walkman.
Gli occhi di lei si spalancarono. «Oh» rispose. «N-no, stavo» voltò leggermente il capo, lanciando un'occhiata a uno dei due sacchi che non aveva ancora incastrato nel cesto. «Stavo solo buttando la spazzatura.»
Le voci nella testa di Victor iniziarono a sibilare. «Meglio così» disse con un sorriso imbarazzato, portandosi una mano alla nuca e indietreggiando. «Anzi, scusami se sono comparso così dal nulla.»
L'espressione della ragazza divenne da tesa a rilassata. Un sorrisino le tirò le labbra.
Era sempre stato fin troppo facile.
«Nessun problema, davvero» rispose lei. «Spero di non essere fuori luogo, ma...» allungò la mano in avanti, «io sono Eha.» Con la sinistra si sistemò una ciocca castana dietro l'orecchio.
Victor la studiò in silenzio. Minuta, gambe corte, fiatone senza aver fatto sforzi: aveva già vinto. Costringendosi a un sorriso a trentadue denti, allungò il braccio a sua volta. «Victor.»
La stretta di Eha fu debole, il palmo sudaticcio e appiccicoso, tanto che gli sembrò di aver immerso le dita in una ciotola di gelatina bollente. Per un istante, nauseato, considerò l'idea di voltarsi e andarsene, ma la Troškimas – la fame – glielo impedì. Sperava almeno che, quando avrebbe accostato le labbra al suo collo, il sapore del sudore sarebbe stato accantonato da quello del sangue.
Ma il suo volto non mostrò traccia dei ragionamenti che stava facendo, cristallizzato nel sorriso che stava rivolgendo a Eha, la quale era arrossita fino alla punta dei capelli. Gli faceva quasi pietà. Quasi.
Tentando di mettere da parte i suoi pensieri, aggiunse: «Vivo anch'io su questa strada, un po' più avanti rispetto a qui» puntò l'indice sul viale in ombra. «Mi sono trasferito da poco, ma devo dire che non mi piace molto questo quartiere.»
Eha sembrò rattristata. «Perché? È vero, la maggior parte delle case non sono ancora state comprate, ma anche se pochi i vicini sono molto gentili. Non so se hai già conosciuto il signor Sepp, vive quattro case più avanti. È davvero alla mano! Ci ha aiutati quando abbiamo dovuto ristrutturare il camino, è stato così gentile!» Ignorando gli sproloqui della ragazza, Victor tirò un sospiro di sollievo a quella nuova informazione: meglio così, i testimoni complicavano solo le cose.
«No, non credo di aver ancora avuto l'onore di conoscerlo» commentò educatamente. «Forse andrò da lui domani, magari mi può aiutare con il cancello. Si è rotto il perno e non riesco più a chiuderlo.» Alzò gli occhi al cielo e sbuffò, fingendo una stanchezza che non esisteva. Eha emise un leggero «oh». «Però, considerato che siamo vicini... forse potrei azzardarmi a chiedere anche a te un piccolo favore? Credo che chiederlo al signor Sepp non sarebbe il caso.»
La ragazza si illuminò e spalancò le palpebre. «Certo, tutto quello che vuoi! Seguo sempre il regolamento del buon vicino! Come posso aiutarti?»
Una fitta di pietà gli strinse lo stomaco. Lui la ignorò.
Victor le rivolse un altro sorriso, ancora più ampio, e le offrì la mano. Eha sembrò confusa, ma gliela afferrò in un gesto automatico. Fece per parlare, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa Victor le poggiò l'altra mano sulla testa, attirandola vicino.
«Ehi! Ma che fai?!» L'umana si divincolò, aggrappandosi ai suoi avambracci per spingerlo.
Victor socchiuse le labbra, mostrando i canini mentre si allungavano. «Mangio» sussurrò in tono mellifluo, guardandola dritta negli occhi. La sua trasformazione fu l'ultima cosa che Eha vide: le sue iridi diventare bianche, la pelle screpolarsi, le vene risalire in superficie e le corna rizzarsi verso il cielo. La Bestia era stanca di giocare. «Ti ringrazio per il favore, sei un'ottima vicina.»
Un urlo agghiacciante si sollevò nella notte.
Immobilizzata, la ragazza tremava dal terrore, e non riuscì a impedirgli di accostare il volto al suo collo. Le affondò le zanne all'altezza delle clavicole e serrando la mascella strinse in una morsa la carotide, lacerando la carne dal basso verso l'alto: il sangue schizzò in un fiotto, la pelle divisa in due lembi dai contorni frastagliati. Le mani di Eha ne vennero inondate, mentre si premeva le unghie sulla gola come a trattenere la propria vita.
Il suono della sua voce infradiciata sarebbe risultato raccapricciante per chiunque, per Victor era semplicemente monotono.
Inspirando a fondo lasciò la presa e lei cadde a terra con un tonfo. Nel giro di pochi istanti Eha smise di divincolarsi e i suoi occhi aperti, vitrei, si fissarono sul cielo, senza scollarsi più. Fu in quel momento, quando il petto della ragazza cessò di muoversi, che i fratelli lo raggiunsero, comparendo al suo fianco. Dovevano aver visto tutta la scena.
Dimitar fu il primo e l'ultimo a parlare, Aušrius sembrava stranamente meditabondo. «Artistico, devo dire. Ti sei divertito?» più che una domanda parve un'accusa e Victor si limitò a scrutarlo senza rispondere. L'uomo si chinò e con espressione affascinata fece una carezza ai capelli di Eha: per lui era come un rituale, un passaggio necessario prima di potersi sfamare. Victor non ne aveva mai capito il perché, ma non si era mai nemmeno preoccupato di chiedere.
Pochi secondi dopo, Dimitar stava mordendo con ferocia il braccio del cadavere.
In tutto questo, Aušrius era rimasto in piedi, distante da entrambi, a scrutare la scena con un'espressione pensierosa ma indecifrabile.
«Auš?» lo chiamò Victor, sussurrando.
«Mh?» il ragazzo gli rivolse un'occhiata.
«Favoriamo?»
Scrollò le spalle. «Sì, perché no.»
Victor avrebbe voluto indagare su quel comportameno, ma non era il momento, non con Dimitar presente: le preoccupazioni per suo fratello avrebbero dovuto aspettare; Aušrius era sempre stato quello strano della famiglia e dubitava che un'ora di silenzio in più avrebbe fatto alcuna differenza.
In tacito accordo i due si accovacciarono sul corpo. Dimitar finse di non notarli. Aušrius agguantò l'altro braccio, mentre Victor si chinava a terra. Sguainando gli artigli incise la carne del petto di Eha e – distogliendo gli occhi – affondò la mano nel costato. Ove prima c'era stata la cassa toracica venne a crearsi un vuoto. Si udirono le ossa spezzarsi con scricchiolii sinistri e, infine, eccolo: il cuore. Non batteva, sguazzava inerte in una gora di sangue ancora caldo, e con un colpo solo Victor lo strappò. Non disse una parola, mentre lo sollevava verso il cielo come un trofeo.
In quella notte altrimenti silenziosa, le note di una canzone si levavano dal walkman di Eha.
Victor chiuse gli occhi. «Lo dedico a te, mio sovrano» sussurrò. «A te, Ankamon, nostro Signore di Tenebra.»
I fratelli, imitandolo, sollevarono il capo. «A te, Ankamon» sussurrarono, prima di tornare a bere.
Victor allora portò il cuore alle labbra e lo morse, sentendo i denti affondare in quella sostanza calda e gommosa. Era esistito un tempo in cui il cuore delle vittime era stata l'unica cosa di cui si nutriva, ma adesso era diventato più un'abitudine che una vera e propria scelta, l'ennesima maschera da indossare per non attirare domande.
Piano piano, gradualmente, ricominciò ad avere il controllo del proprio corpo, un arto alla volta, e a fatica si rialzò in piedi. Forse aveva esagerato, per una sola notte.
Si passò una mano sulla nuca, sporcandosi i capelli di sangue. «Ragazzi?»
«Sì?» rispose Dimitar con un verso grottesco, prima di tornare a concentrarsi sul braccio.
«Io torno a casa» sussurrò, deglutendo gli ultimi rimasugli ed evitando di posare lo sguardo sul corpo. «Vi aspetto lì» dichiarò, «occupatevi voi di ripulire.» Non diede loro possibilità di replicare, svanendo davanti ai loro occhi prima che potessero protestare.
Seppure sfamarsi così tanto in una sola volta gli stesse facendo venire la nausea, gli aveva ridato tutta l'energia vitale che aveva speso nell'ultimo mese, per cui era in grado di sfruttare le Pajėgumas, le capacità che possedeva per diritto di nascita. Fra queste rientrava la Dematerializacija, grazie a cui poteva spostarsi da un luogo all'altro nella frazione di un battito di ciglia. Ogni Demonai amava usarla, seppure li sfiancasse fisicamente, e quella notte non fece eccezione: Victor ormai non si trovava più in quella piccola cittadina a sud dell'Estonia, bensì davanti ai cancelli della proprietà che da ormai qualche secolo condivideva con i fratelli.
Quell'edificio aveva assistito alla fase più oscura della sua vita e da decenni ormai continuava ad assistere alla solitudine che ne rimaneva.
Mentre sollevava lo sguardo, le labbra di Victor si tirarono in unasmorfia indistinguibile. «Casa dolce casa» mormorò. Non ricevette chesilenzio, dal grande e maestoso giardino oltre il muro di cinta, deserto e cupoin quella notte di fine maggio. Solo il vento ululò per lui e solo i maligniocchi di due dei quattro gargoyle di pietra, situati sul cornicione che correvada ognuna delle quattro torri gotiche, gli diedero il bentornato a casa.
Banner gif creato da Saintjupiter (grazie mille, lo adoro!)
Secondo banner creato da me.
Ringrazio chi ha atteso pazientemente e soprattutto ringrazio Sayami98, che come sempre mi sopporta e corregge i miei strafalcioni. Digito troppo veloce, ahimè.
E grazie anche ad Architetto_di_Storie per l'aiuto nella revisione e la pazienza alle mie domande infinite. ❤
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