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ᑕᗩᑭITOᒪO 21 |ᑌᑎ ᑭEᘔᘔO ᗪI ᗰE|

L'inverno era decisamente arrivato a Singerei. Il freddo penetrava sotto le pesanti giacche che trascinavamo addosso per chilometri, tornando stanche a casa dopo scuola. Io e Vera ci tenevamo per mano per non scivolare sulla neve ormai appiattita sul suolo freddo.

Ci sarebbero voluti anni per far sì che la strada verso casa Tabarcea fosse asfaltata, ma per ora era talmente piena di buche e nemmeno i carri rischiavano di percorrerla. Le pesanti piogge non aiutavano la situazione, spazzando via terriccio volta dopo volta e lasciando grandi incavi come venature sull'angusta strada.

Le giacche erano ben chiuse e i cappelli tirati fin sotto le orecchie. Avvolte entrambe in pesanti foulard cuciti a mano dalla stessa Vera, ci trascinavamo rigide su quella discesa di novecento metri. Novecento metri di una strada sterrata, affiancata su entrambi i lati da case decorate e da tetti fumanti. Rigida, passo dopo passo, mi ero immersa un'altra volta nella vita che mi ero volontariamente lasciata alle spalle.

Ero con la nonna a passeggiare nel folto bosco dietro casa. Avevo circa l'età di adesso e ricordo perfettamente quello che mi aveva raccontato. «Lo sai che a nove mesi hai rischiato di morire?» Aveva chiesto noncurante la donna a cui assomiglia mia madre. Non sentendo nessuna risposta, mi aveva guardata per un momento. Ero accanto a lei ad ammirare il paesaggio estivo in lontananza, aspettando che continuasse a parlare.

«Noi adulti eravamo tutti a lavorare la terra a giornata. È una cosa che si faceva, in caso di urgente necessità di cibo. Passavano i carri e caricavano dai venti ai trenta individui ciascuno e li portavano in dei campi grandissimi. Ci lasciavano lì e ci comunicavano l'orario in cui sarebbero tornati a prenderci. Qualche volta dovevamo raccogliere patate, altre volte carote, pannocchie e così via.» Istintivamente le avevo preso la mano senza guardarla.

Mi piaceva tanto il fatto che fosse molto bassa, talmente bassa che mancava poco e l'avrei superata a soli dieci anni. Purtroppo la sua gobba mi faceva provare una certa suggestione nei suoi confronti, soprattutto quando la dovevo toccare per lavarle la schiena se ero nei paraggi.

«Così quel giorno Giulia doveva curarti, visto che era la più grande rimasta a casa.» Nonna Elena era una brava narratrice, parlava sempre senza fretta; anche il nostro passo era rallentato, quasi a voler far durare il più a lungo possibile il momento.

«Era una giornata soleggiata e ricordo ancora che tuo nonno Andrei da poco aveva messo insieme ai vicini delle grandi, enormi pietre ai piedi della frana, per fermare un po' la discesa pericolosa. Giulia aveva delle amiche che abitavano in cima alla strada.

La discesa era molto ripida e a tratti con dune scavate dall'acqua piovana. Mentre tornava di fretta a casa dopo l'ora del tè con le amiche, aveva perso il controllo del passeggino dove dormivi tu. Le mani le erano scivolate via dalla carrozzina inciampando in un sasso e una rotella si era staccata nel percorrere ad alta velocità la discesa.

Giulia aveva tentato in tutti i modi di raggiungerti, ma ormai era tardi. Il passeggino era atterrato su quelle maledette pietre e il tuo cranio si era aperto letteralmente in due.» Mi raccontava lei con enfasi.

«La ferita era aperta dalla cima della fronte fino all'incavo dell'occhio sinistro. Non c'erano speranze per te!» Aveva affermato crudele senza un accenno di dispiacere.

«Eppure, un miracolo è accaduto. Quel giorno i carri erano tornati a prenderci alle quindici del pomeriggio invece che alle diciannove come succedeva di solito. Appena scesi dal carro dalla strada laterale, ci eravamo incamminati stanchi verso il cancello arrugginito.

La scena era macabra: tua madre aveva emesso un urlo lacerante quando davanti ai nostri occhi era schizzato un passeggino che conoscevamo bene, andando a sbattere sugli scogli asciutti. Non avevi nemmeno pianto. Non ti eri nemmeno svegliata dal pisolino. Incredibile!» Esclamò.

«Un vicino faceva l'infermiere, ma era rimasto senza lavoro e perciò lavorava la terra come tutti noi. Il ragazzo ossuto aveva accorso non appena aveva visto la scena insieme agli altri contadini. Nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi, ma volevano tutti sapere chi era la povera disgraziata. Giulia era arrivata finalmente vicino al passeggino. Urlava disperata "Cosa ho fatto! Dio perdonami. Cosa ho fatto!" Le urla attirarono tutti i vicini che di conseguenza erano usciti ad osservare la scena bisbigliando. L'ex infermiere aveva preso in mano la situazione, vedendo i miei famigliari impietriti. Qualcuno aveva chiamato l'ambulanza perché non succedeva mai che l'ambulanza arrivasse in quella zona. Qualcuno aveva pagato i soccorritori e aveva detto loro di salvare la bambina dal cranio diviso in due. Solo quando in ambulanza ti hanno rianimata, hai ricominciato a dare segno di vita. Sembrava quasi avessi dormito tutto il tempo e ti fossi solo svegliata per la fame.»

Mia nonna era brava a raccontare storie. Era brava anche a modificarle a suo piacimento. Quel giorno Giulia aveva preso tante di quelle botte per l'accaduto che alla fine mio padre è dovuto intervenire per fermare il nonno Andrei dal massacro, ma questo ovviamente non me lo aveva raccontato lei. Non mi aveva detto che chiamavano demone la piccola Giulia.

Non mi aveva raccontato che non aveva parlato fino all'età di quattro anni e che veniva sempre maltrattata per questo dalla stessa madre. Le diceva che sarebbe dovuta morire come altri suoi figli in pancia. Le aveva sputato in faccia così tante cattiverie che alla fine Giulia, ribellandosi, le aveva parlato e in seguito parecchi avrebbero rimpianto il silenzio di Giulia.

«Speriamo che questa neve si congeli ancora di più, così potremo uscire in slitta stasera.> Era usanza infatti che tutto il vicinato, grandi e piccoli, si riunisse con le proprie slitte lisciate per l'occasione a fare discese mortali sulle colline e le strade sterrate. Vera era il maschiaccio della famiglia. Amava stare solo all'aperto e non le piaceva mettere cose femminili. Se non fosse stata obbligata a portare i capelli lunghi, sicuramente li avrebbe avuti anche più corti dei miei.

Arrivate a casa con fatica per via della neve, ci siamo intrufolate in casa al caldo. Nonna schiacciava un pisolino e nonno rullava la solita sigaretta con carta da giornale. Io e Vera ci siamo accasciate davanti alla stufa a muro accesa e abbiamo sorseggiato del tè nero riscaldandoci in silenzio. Passando poco prima davanti casa dei miei padrini, ho avuto un brivido sulla schiena e non sono riuscita a ricacciare indietro alcuni maledetti ricordi.

È usanza in Moldavia avere un padrino e una madrina per il battesimo. Devono essere persone esemplari. Se venivi scelto per questo ruolo e accettavi, ciò significava che potevi permetterti un regalo abbastanza costoso o perlomeno che non eri un poco di buono.

I miei genitori si erano sposati in fretta e furia per cui non avevano né voglia né tempo di fare delle ricerche accurate, così avevano scelto una coppia di vicini che abitavano qualche casa più in alto rispetto a quella di mia nonna. Erano una coppia abbastanza avanti con l'età e non possedevano niente, né terre né animali.

Avevano solo una bella casa curata con un giardino pieno di rose rosse. Era mia abitudine andare a trovarli da piccola e la madrina Maria era molto gentile con me. Mi dava sempre delle caramelle o dei biscotti glassati fatti da lei. Il mio padrino invece lo avevo visto due volte fino all'età di dieci anni. In tutte e due le occasioni era stato gentile come sua moglie, anche se lui puzzava sempre di uva acerba.

Ricordo che la mia madrina era una donna in carne con i capelli sempre legati in uno chignon sfatto, mentre lui era molto magro e ossuto con una postura instabile ma resistente e i capelli grigi vicino alle tempie. Erano tutti e due sdentati e questa cosa mi faceva ridere.

Io sono una persona che quando vede qualcuno farsi male, prima di aiutarlo, ride a crepapelle. Per rispetto, mia madre mi aveva incalzata diverse volte di non ridere dei loro denti. Erano poveri e non potevano permettersi una dentiera. Avevo pensato che se potevano permettersi dolci zuccherati e un giardino pieno di rose, sicuramente avrebbero potuto rifarsi i denti, ma non era così.

Ero ingenua e cieca. Non vedevo come venivano trattate la maggior parte delle donne. Picchiate regolarmente con bastoni, mestoli e rami di verga taglienti. Ignoravo le urla che mi attraversavano le orecchie e si insinuavano di notte, macabro era l'eco di lamenti strazianti.

Era così di notte e nessuno interveniva, nessuno si immischiava perché non succedeva nel loro cortile. Il giorno dopo sentivi solo bisbigli di donne che, portando secchi d'acqua pesanti dalla fontana pubblica verso le proprie abitazioni, informavano quale tra le vicine fosse stata picchiata, affermando però che aveva fatto anche bene il marito a dargliele.

Era un giorno di mezza estate e al mattino avevo aiutato la nonna con le sorelle di mamma a lavare lenzuola bianche. Di solito la nonna prendeva i lavori che le capitavano sotto braccio per sopravvivere e stavolta il comune le aveva portato un'infinità di sacchi bianchi pieni di biancheria da lavare.

Aveva fatto un accordo: se avesse lavato tutto entro sera e lo avesse riconsegnato entro l'indomani, avrebbe ricevuto il doppio del ricavo. Doveva lavare all'incirca un'ottantina di lenzuola bianche dei letti dei militari e in cambio avrebbe ricevuto non uno, non due, ma quattro sacchi di farina. Le sembrava un ottimo affare visto che ormai da anni andavano avanti con polenta e formaggio di capra.

Ricordo che era quasi pomeriggio quando Vera era entrata in casa e mi aveva chiesto di aiutarla a piegare le lenzuola già asciugate dal sole. Insieme ci siamo divertite a farle svolazzare per la stanza spaziosa. Le abbiamo legate da un lato all'altro del letto e ci siamo nascoste sotto il lenzuolo bianco.

Facevamo finta di essere invisibili. Poi lei aveva detto che avrebbe fatto il marito e io sarei stata la moglie. Per ridere diceva. Prima di capire il gioco lei mi era saltata sopra bloccandomi col suo peso da teenager. A quel punto sotto le lenzuola bianche e sotto il peso di Vera, le sue labbra si erano avvicinate alle mie e mi avevano obbligata ad aprire con forza la mascella.

Mi aveva infilato la lingua umida in bocca e mi aveva baciata per un minuto. Ero curiosa, ma schifata allo stesso tempo. «È il nostro segreto. Non dirlo a nessuno.» Aveva aggiunto dopo essersi alzata dal letto, lasciandomi lì impietrita. Aveva raccolto le lenzuola cadute a terra e aveva staccato l'altro telo che mi copriva sul letto.

Sono rimasta sul letto a ripulirmi la bocca umida con il bordo della maglietta sporca. Non mi ero fatta molte domande perché Vera era mia zia e aveva detto che era un gioco, ma speravo che con ricapitasse.

Sono uscita fuori bloccandomi sulle scale. Ero tentata di urlare alle donne indaffarate nel cortile Vera mi ha baciata!, ma rimasi zitta nel vedere mamma insieme a Nadia, Giulia, nonna e Vera lavorare accaldate. Avevo dubitato per un momento che fosse successo realmente ed ero tornata di nuovo in casa. Vedendo il letto stropicciato dal nostro peso avevo capito che era reale e disgustoso.

Il giorno dopo, al mattino presto, le donne della famiglia Tabarcea avevano piegato con cura le lenzuola e si erano incamminate con i sacchi sulle spalle in centro città per scambiare le lenzuola per il cibo. Era da poco sorto il sole e mi alzai dal letto per la fame. Non c'era niente di avanzato perciò avevo deciso di andare dietro il bosco a cercare dei mirtilli.

Mi ero persa nella natura per più di un'ora ed ero tornata nel cortile quando il sole delle nove riscaldava le alte scale in cemento. Una voce dietro di me mi aveva fatta trasalire e mi aveva fatto scordare il fatto che fossi diretta alla fontana per lavare la bocca e le mani sporche di blu.

«Buongiorno monella!» La voce del mio padrino risuonava sconnessa, come se non avesse ancora riposato nella notte e vivesse ancora il giorno precedente. A differenza di tutti gli altri, a me gli ubriachi facevano ridere. Non avevo timore di loro, ma forse avrei dovuto averne.

«Sei da sola?» Aveva chiesto Vlad, poco comprensibile. Ridendo per l'innaturale suono che gli era uscito, gli ho fatto cenno di sì. Mi aveva chiesto di nuovo se non ci fosse nemmeno il nonno. Gli dissi che erano via tutti, ma che sarebbero tornati di lì a poco. Avevo voglia di entrare in casa e chiudermi a chiave.

Non mi piaceva rimanere sola con un uomo, dopo aver visto tutti i visitatori di mamma negli anni precedenti. Sapevo esattamente come si comportavano gli adulti e comprendevo che erano peggio dei cani che facevano esperienza anche nella discarica davanti a casa della nonna.

Ero ancora turbata per il bacio di Vera e non lo potevo dire a nessuno. «Sai una cosa monella? Ora mi sdraio su questo letto malandato dietro casa e aspetto che torni tua nonna. Deve darmi due litri di latte di capra e Maria mi ha detto di non tornare senza.» Aveva indicato il letto fatto di rete con un materasso ingiallito dal sole e lavato dalla pioggia.

Mi ero lavata la bocca e le mani con una brocca d'acqua ed ero china sull'asciugamano quando una mano mi aveva circondato il bacino e mi aveva attirato a sé. Ho ancora la sensazione del suo viscido membro attaccato al mio posteriore. Non aveva detto una parola e nemmeno io.

Ero rimasta immobile mentre mi aveva tirata su di peso e mi aveva condotta sul letto dietro casa. Ero disarmata e sconcertata mentre mi tirava giù gli slip consumati da altre generazioni e mi aveva toccata lì con la mano. Eravamo accasciati a cucchiaio e cercavo di concentrarmi solo sul rumore delle molle, evitando di sentire la sua mano ruvida farsi spazio nella mia zona proibita.

Aveva infilato un dito e dal bruciore mi erano uscite le lacrime, ma non la voce. Il suo corpo si era spostato, schiacciando il mio col suo peso, mi aveva girata sulla pancia e aveva tirato fuori il suo viscido membro appoggiandolo sulle mie gambe.

Le lacrime mi schizzavano fuori ininterrottamente e le osservavo cadere attraverso la rete scoperta per poi finire nel suolo. Avrei voluto soffocare nella stoffa del materasso. Avrei dovuto urlare, dibattermi e scappare, ma non avevo nemmeno un briciolo di forza.

Invece sono rimasta lì finché la sua mano aveva smesso di muoversi, il suo respiro si era regolato, il suo peso si era alleggerito e il letto aveva smesso di far rumore. Solo allora, con delicatezza e ignorando il dolore lì sotto, avevo preso coraggio e mi ero alzata tremante. Avevo dato un'occhiata a quell'uomo addormentato con l'altra mano nei pantaloni sbiaditi.

Sono corsa a rifugiarmi in casa, chiudendo bene a chiave e avevo pianto tutte le lacrime che mi rimanevano a disposizione. Mi ero fatta tante domande.

Perché le persone vogliono tutte la stessa cosa? Perché gli adulti ci ripetono che non ci si deve nemmeno toccare lì se non per lavarsi e poi sono loro stessi a fare del male a noi? Perché mai un'altra ragazza trovava il desiderio di baciare una bambina? Perché quell'uomo, che mi aveva tenuta in braccio dentro un posto sacro, promettendo di prendersi cura di me, aveva deciso invece di approfittare della mia gentilezza?

Ero rannicchiata per terra, con il bruciore tra le gambe, a farmi tante di queste domande a ripetizione. Stavo controllando la macchia rossa sugli slip quando bussarono forte.

Ero impaurita ed indecisa se uscire o no e, solo quando ho sentito la voce di mia madre, ho aperto. Lei mi ha sgridata per aver chiuso a chiave. «Potevi rimanere bloccata dentro lo sai?» Aveva affermato acida.

Le avevo chiesto scusa e mi ero aggrappata alle sue gambe. «Andiamo, siamo stati via solo due ore.» Disse secca mentre mi allontanava. Avrei voluto dirle della visita del padrino Vlad, ma lo avrebbero trovato dietro casa a dormire tra poco.

Invece, quando la nonna era entrata in casa un'ora dopo con due bottiglie di vetro, avevo capito che lui non era rimasto lì a dormire. «Vera, prendi Khat e vai da Maria a portarle il latte che le devo. Se no poi quella manda Vlad e sai com'è fatto lui.» Vera aveva insistito che la accompagnassi, ma l'avevo convinta che mi faceva male la pancia per via dei mirtilli.

La vita era andata avanti come niente fosse e io, mentre impastavo quella farina con acqua e lievito insieme a mia madre e le sue sorelle, avevo rimosso dalla mia testa quel ricordo con tutta la mia forza. Avevo deciso che non era successo e basta.

Non mi aveva baciata nessuno
e nessuno mi aveva toccata nemmeno là dov'era proibito persino a me. L' inverno dopo quell'estate, Vlad lo trovarono disperso nel bosco, congelato e rannicchiato a cucchiaio. Lo seppellirono, lo piansero e gli portarono fiori sulla tomba.

Solo dopo il funerale, la moglie Maria aveva detto a tutti che era un sollievo non subire più le violenze di quell'essere all'apparenza gentile. Solo ora, in questa nuova vita, avevo realizzato che era stato proprio in quel momento, sul letto a molle accanto a Vlad, che avevo fatto crescere dentro me la voglia di morire. L'istante in cui mi sono sentita un oggetto, una di quelle bambole che maltrattavo io stessa dalla frustrazione.

«Andiamo a fare i compiti se vuoi uscire in slitta con me stasera!» Vera mi aveva riportata alla realtà e solo allora mi ero accorta di quanto in profondità avevo celato questi due ricordi. Le avevo rivolto un sorriso tirato ed ero uscita di casa senza giacca, senza foulard e senza scarpe.

Dalle alte scale, la neve era arrivata ormai al quinto gradino e copriva tutto il percorso di mattonelle. Ero tentata di buttarmi nella neve e lo avrei fatto, se il nonno Andrei non si fosse materializzato dietro di me con la sigaretta in bocca e mi avesse presa per il maglione come una molla.

«Vuoi ucciderti ragazzina?» Chiese quel viso famigliare che non aveva niente in comune col mio. «Non sono morta a nove mesi spaccando il minuscolo cranio, pensi davvero che tre metri di neve mi ammazzerebbero?» Chiesi implorante.

Avevo bisogno di adrenalina per scacciare via i demoni chiamati ricordi del passato. Ero tornata da poco più di un anno sui miei passi e avevo ancora una marea di anni per cambiare il percorso della mia nuova vita. Eppure i ricordi dell'altra me si amalgamavano con quelli della nuova me. Volevano sopravvivere tutti e a tutti i costi, come se ci fosse una memoria interna segreta sulla quale non avevo io il controllo, ma qualcun altro.

Il nonno mi aveva rivolto un sorriso complice prima di catapultarmi in quei tre metri di neve sotto di me.

E, per un momento, ho avuto davvero l'impressione che le cose si potessero cambiare.

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