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EᑭIᒪOGO

Viaggiare dalla Moldavia all'Italia dentro un pullman pieno zeppo di persone e pacchi è un vero incubo. Le fermate per i bisogni sono talmente corte che tanti preferiscono tenerla per la prossima sosta. Io ho sempre avuto un problema al riguardo. Sono quel tipo di persona che va in bagno, anche se non deve andare, per paura che poi mi scappi nel peggiore dei momenti.

Ad ogni fermata i ragazzi alla guida si danno il cambio essendo in tre. Avranno meno di venticinque anni e hanno un aspetto curato, per fare bella figura alle dogane a cui però non sfuggiamo mai. Ad una vedova hanno fatto  svuotare ogni valigia e pacco in suo possesso e hanno fatto tardare un po' il nostro percorso  di marcia. Saremmo dovuti arrivare prima ai confini dell'Ungheria con la Romania, ma  calcolando anche il pranzo incluso negli ottanta euro del biglietto, ci sono costate un paio  d'ore.

Il ristorante sulla strada era affollato e piccoli bus bianchi ostacolavano i grandi  pullman che a loro volta trovavano parcheggio qua e là in seconda fila. Un ristorante tipico  rumeno, con tanto di sculture dai volti giovani e sorridenti, che esponeva i costumi  tradizionali sulle facciate del grande edificio.

Eravamo in viaggio da ieri sera e siamo  arrivati giusto in tempo, prima che chiudessero la cucina. 

Le cameriere ci fanno accomodare ad una tavola lunga in legno e portano brocche di vino  rosso, acqua con ghiaccio e tanto pane. Le scodelle con la panna sono posizionate lungo la grande tavola con la tovaglia rossa e bianca a scacchi.

Quando poi siamo tutti seduti, le  cameriere portano piatti stracolmi di zuppa al pollo e ci augurano buon appetito.  «Mamma, non è che posso ordinare un'altra cosa?» Mangiare zuppa in viaggio, non era il  massimo.

«Khatrine, mangia e non fare troppe storie. La carne la puoi lasciare nel piatto, i randagi saranno contenti!» Dice mia madre con la bimba in braccio. La stava allattando davanti ad occhi indiscreti, senza il minimo accenno di vergogna. Ogni tanto si sentiva qualche donna contrariata dal gesto di mia madre, ma nessun uomo aveva da ridire al riguardo. Non che il seno di mia madre fosse un bel vedere, per carità. Portava le smagliature evidenti del primo parto e ce ne erano di nuove violacee che comparivano attorno al capezzolo esposto. 

«Un minimo di pudore signora!» Sento dire a una donna dal lato opposto in fondo al tavolo.  «È solo pelle e carne, SIGNORA!» Mia madre la squadra con una fulminata da agghiacciare il sangue. La donna si fa piccola nel suo décolleté altrettanto fuori luogo.  «Ecco fatto! Ora fai il ruttino piccola Adri!» Mi commuovo nel vedere mia madre rimettere  al suo posto il davanzale e alzarsi con la bimba per farla digerire. È la prima volta che si  comporta da vera madre con mia sorella, almeno la prima che vedo io.

Forse c'è ancora  speranza per noi tre, userò il tempo che mi resta per renderla la madre perfetta, quella che ci  meritavamo dall'inizio. Prometto a me stessa, osservandole passeggiare avanti e indietro per il locale. 

L'aria era secca e profumava di umani in viaggio che avevano dimenticato sicuramente il deodorante da qualche parte, lontano dalle loro valigie. Sorseggio la mia zuppa con abbondante pane e scarto le due cosce di pollo, poi prendo la bambina per far mangiare anche mia madre. 

«Andiamo di fuori se per te va bene!» Dico alla mamma che ora era immersa nella  conversazione con i presenti seduti vicino a lei. 

«Non allontanatevi però !» Mi rivolge sia lo sguardo che la parola. Miracolo. Lascio il mio zaino con il mio mangianastri sulla sedia, per tenere il posto occupato, e mi avvio all'uscita con la bambina fra le braccia. L'aria fresca mi fa svolazzare la frangia e la sposto con un soffio sui lati.

«Ecco, sediamoci qui piccola Adri. Tra poco saremo a casa, finalmente. Ti manca il papà?»  Le chiedo giocherellando con le sue manine minuscole. Era bianca come il latte e i suoi  capelli biondo cenere iniziavano a crescere a ciuffi come una striscia in cima alla testolina. «A me manca tantissimo, sai?» Le confesso e lei mi guarda incuriosita, sembrava capisse  tutto quanto. 

«Da grande sarai una gran chiacchierona!» Le dico sorridendole e giocando con il suo  nasino snodato. Negli anni sarebbe rimasto lo stesso, e avremmo tanto riso del fatto che lo riusciva a piegare come uno slime. 

«Tutti a bordo entro cinque minuti!» Urla uno dei tre ragazzi alla guida, seguito dal secondo e poi dal terzo che ripete la medesima frase. Mi guardo intorno e non vedendo uscire la  mamma mi avvio all'entrata, spintonando i passeggeri frettolosi a prendere posto. «Ah eccoti!» Dico a mia mamma, quando la vedo uscire dal bagno. 

«Andiamo, forza.» Mi invita a proseguire, prendendo la bambina con cautela dalle mie  braccia. 

«Aspetta, devo prendere il mio zaino!» Aggiungo avviandomi al tavolo massacrato dai  clienti. Torno al mio posto e noto che lo zaino era sparito, ma il mangianastri era sul tavolo  con le cuffie in mezzo alle briciole di pane.

«MAMMA!» Urlo disperata. 

«Che c'è ancora, Khat?» Mi raggiunge esasperata. 

«Il mio zaino! È sparito. L'ho lasciato proprio qui sulla sedia.» Le confesso ormai tra le lacrime. 

«Beh, ormai è andato. Forza, saliamo sul pullman prima che ci lascino qui. La Romania mi ha sempre fatto ribrezzo. Così piena di rom. Sicuramente uno di loro lo avrà rubato.» Dice lei con fare teatrale. 

«Ma mamma, c'erano dentro le lettere.» Le sussurro, quasi con vergogna. Le sue lettere,  quelle che avevo letto e riletto di nascosto, studiando i suoi sentimenti dalla calligrafia  fluida e per nulla marcata, a differenza della mia. 

«Ma di quali lettere stai parlando? Tu stai delirando Khatrine. Andiamo forza!» Mi trascina  per il braccio, con la fronte corrugata e sbuffando fino allo sfinimento. Le tue lettere. Vorrei  insistere, ma so che con lei non funziona.

La dogana per entrare in Ungheria è vuota e passiamo subito i controlli dei passaporti senza altri intoppi. Verso le sei di sera arriviamo all'entrata dell'Austria. Mi dispiace percorrerla con il buio, essendo un paese a dir poco ordinato e pieno di vegetazione. Arriveremo a Milano verso le tre di notte e questo mi rattrista ancora di più. Avrei preferito godermi l'incontro con mio padre in pieno giorno e vedere la sua felicità alla luce del sole. 

« Mamma, papà ci verrà a prendere vero?» Chiedo sottovoce, per non disturbare chi dorme.  «Appena entriamo in Italia, lo chiamo per avvisarlo così verrà con Giulia a prenderci, stai  tranquilla. Sei sempre così perfettina tu!» Mi offende la sua ultima affermazione, ma mi  convinco che non voleva ferirmi, anche se descrivere una persona con quel aggettivo non è  appropriato, sopratutto per una che prende tutto sul serio, come me.

Mi rilasso a mia volta,  sentendo gli sbadigli echeggiare nell'aria e ripenso alle lettere. Se non le ha scritte lei, allora chi è stato? E se lo ha fatto qualcun altro, allora perché mai disturbarsi? Mille domande mi martellavano la testa e io non ero certo una tipa che lasciava correre, per nulla.

Il tragitto è stato lungo, troppo per me, ma finalmente alla dogana dell'entrata in Italia ho tirato un sospiro di sollievo. Del resto consideravo l'Italia la mia vera casa, contrariamente a quello che mi avrebbero ripetuto negli anni i miei nuovi conoscenti.

"Non sei italiana, non sei nata qui!" Ricordavo i miei futuri e passati compagni delle medie, crudeli, con un animo già in decadenza come il mio. "Non sei italiana, non hai sangue italiano nelle vene" Avrebbero detto poi a mia sorella da grande. Ma lei era diversa da me. Io avrei reagito diversamente. Lei era forte e lo avrebbe ribadito. Avrebbe risposto a quelle affermazioni dicendo loro che era italiana e che era stata cresciuta secondo le regole e leggi di quel paese, perché era nata lì e non aveva vissuto in nessun altro luogo, conosceva solo quella lingua e avrebbe chiamato casa l'Italia, sempre. Lo avrei fatto pure io, ma nella mia mente e basta. Il ricordo di ciò che mi aspettava era insistente e crudele, quasi a volermi preparare al nuovo mondo che mi attendeva subito dopo aver superato la notte stessa.

Questa volta non ero sola, avevo un'alleata accanto a me. Un'alleata perfetta dal nome Adriana Brundi. La mia roccia e la mia forza. Quel tipo di forza che non accetta scuse e compromessi. Lei era la parte mancante del mio puzzle malridotto ed ero felice di averla fatta arrivare prima al mondo. O almeno mi piaceva pensare che fosse stato grazie a me. 

Il pullman si ferma in una piazzola di emergenza nel cuore della notte e realizzo di essere in  dormiveglia. Mi sarebbe capitato spesso in futuro, ereditando questa caratteristica da mia  madre. Per fortuna però, io sarei riuscita a dormire con una mosca rumorosa nella stanza a  differenza sua che al minimo rumore si sarebbe svegliata. 

«Sosta bisogni!» Urla uno dei tre ragazzi davanti al pullman. Le donne avanzano frettolose e allo stesso tempo assonnate ad uscire per fare ciò che dovevano fare. «Ultima sosta prima di arrivare a destinazione!» Insiste l'altro accanto. Altre donne si  avviano borbottando cose incomprensibili per poi sparire fuori dal veicolo.

La mamma  dorme con la bambina fra le braccia e le osservo mentre rimetto le cuffie dopo aver girato la  cassetta dall'altro lato. Mi è rimasta solo quella dentro il mangianastri, il regalo di Marina.  Maksim canta nelle mie orecchie di scappare: "scappa, fuggi e vola, sei già a metà strada!" Ma io non ero a metà del mio percorso. Mancavano ancora parecchie cose da cambiare,  troppe in realtà. Cose alle quali non ero ancora sicura di poter rinunciare.

Richiudo gli occhi e faccio un'altra lista nella mia mente, una di quelle che poi avrei ignorato sicuramente,  conoscendomi bene. Avrei fatto l'esatto opposto per provare quel poco di euforia di cui ero  tanto dipendente.

Sfrego le palpebre appesantite dal viaggio, ripromettendomi di chiamare  Nelu appena fosse stato giorno. Gli avevo lasciato il mio cellulare, pregandolo di tenerlo  sempre con sé, così saremmo rimasti in contatto anche a questa esasperante distanza.

Le luci si accendono e apro gli occhi di colpo, realizzando che siamo arrivati. Le persone  scendono frettolose per abbracciare i loro cari che attendono fuori dal pullman. La mamma  mi fa segno di avviarmi a mia volta, ma io la faccio passare per prima. Lei sbuffa e mi passa la bambina, prima di mettersi in fila dietro agli ultimi passeggeri.

Mi prendo un momento,  prima di uscire finalmente. Voglio che questo momento sia immortalato per sempre nella  mia memoria. Appena scendo i tre gradini, la luce del mercato dell'est mi brucia gli occhi.  Non è niente di meno che un grande parcheggio, con file di bus e veicoli parcheggiati.  Ognuno con le portiere aperte, espone la merce trasportata da Moldavia, Romania, Russia e  Ucraina. Studiato meticolosamente per ogni razza che sentiva la mancanza delle sue origini.  Siamo nella fila in mezzo, quella più piccola, e sento della musica in lontananza e persone divertirsi nonostante l'ora tarda.

«Piccola mia! Sei arrivata finalmente.» Esclama mio padre, venendomi incontro dopo aver  salutato la mamma con un abbraccio caldo e morbido. 

«Papà!» Dico ormai tra le lacrime. Era così facile piangere davanti a lui. Mi sentivo  veramente felice. Finalmente a casa. 

«Ciao Khatrine, com'è andato il viaggio?» Mi chiede Giulia stando dietro mio padre, non appena ci stacchiamo dal lungo saluto pieno di baci e carezze. Eravamo sdolcinati e non lo  nascondevamo affatto.

La mamma, che prima aveva preso la bambina dalle mie braccia, ora  è in disparte e si sfrega gli occhi rossi con la mano libera. Ha pianto pure lei? Mi chiedo se fosse davvero capace di una tenerezza del genere. Riporto lo sguardo su Giulia, per  constatare che era davvero cambiata. Aveva lasciato crescere i capelli negli ultimi anni e ora  le arrivavano fin sotto il seno. Lo sguardo era più duro del solito, come se avesse affrontato sfide a noi sconosciute. Era dimagrita, ma il viso era sempre uguale e immutabile  nel tempo, un tratto di famiglia.

«Zia Giuly mi sei mancata tanto, sai?!» Mi lascio andare alle emozioni. Provavo nostalgia  del nostro rapporto che negli anni a venire si sarebbe creato senza esitazioni.  «Come sta Emmy? » Mi chiede poi allontanandomi dall'abbraccio per guardare il mio viso  nella luce offuscata dei tanti fanalini accesi. 

«Sta crescendo ed è molto intelligente.» Le confesso ciò che succederà in un futuro non  molto lontano. 

«Bene, sono felice di sentirtelo dire. Andiamo?» Mi chiede tenendomi a braccetto. Una cosa che avremmo fatto spesso nel prossimo futuro. 

La macchina che papà ha preso in prestito dal vicino per venirci a prendere è parcheggiata  vicino agli sportelli dove si timbra il biglietto dell'uscita. Mio padre carica le nostre valigie  e ci apre le portiere da bravo gentiluomo con tanto di fare teatrale. Restiamo in silenzio nel veicolo buio, circondato da altre macchine nel grigio parcheggio di fianco al mercato di  Cascina Gobba, un posto che avrei esplorato bene negli anni a venire.

La metropolitana si  sente poco lontana e mi fa ricordare le mie esperienze da pazza adolescente che sarei stata.  Prima di allora ne sarebbe passata di acqua sotto i ponti. Tanta, tantissima acqua! Papà torna armato di biglietto e mette la retromarcia restando concentrato sulla strada. Infila il biglietto  timbrato nell'apposito macchinario e la barra automatica si alza, per poi prendere la stradina che imbocca l'autostrada poco lontano.

Dopo le quattro del mattino siamo nei pressi di Canzo e scendiamo la discesa ammirando le  luci dei lampioni in silenzio. Alla rotonda in fondo, prima della stazione di Asso, scorre  dritto e mi immergo con nostalgia in ogni particolare che tanto mi era mancato. La stazione  di Canzo - Asso è e sarà sempre identica, almeno da quando ne ho memoria. Percorre la  salita, lasciandosi dietro la fabbrica Oltolina, e si dirige al centro di Asso, la mia nuova casa, passando accanto a Scarenna, la frazione che sarebbe stata la mia ultima casa in Italia. Il  posto che mia madre avrebbe scelto per intrappolarsi in un mutuo di trent'anni.

La radio è  spenta e la mamma ha chiuso gli occhi, seduta di fianco a papà. Io e Giulia ci scambiamo  qualche sorriso qua e là ,mentre incrociamo gli sguardi nel buio. 

«Come ti sembra finora? L'Italia intendo!» Mi chiede poi sottovoce con insistente curiosità.  «Mi piace molto. È tutto diverso rispetto alla Moldavia.» Confesso. 

«Sopratutto per le strade!» Dice mio padre, entrando nella conversazione con voce troppo  alta. La bambina tra le braccia di Giulia si muove per il rumore e Giulia la culla senza  guardarla. 

«Anche quello, sì!» Rispondo divertita. So che è anche grazie al suo lavoro, se le strade sono in buono stato. Mio padre aveva finalmente trovato il lavoro della sua vita. Amava i veicoli pesanti, avendo lavorato in Siberia e altre parti della Russia con carri armati e gru enormi. Quel lavoro lo avrebbe mantenuto fino alla pensione, anche se lui era ancora inconsapevole di quanto ci sarebbe stata d'aiuto la ditta Bandi.

Papà prende la stradina sulla sinistra che porta alla chiesa di Asso e, appena in cima alla salita di mattonelle in pietra rossa, svolta di nuovo a sinistra. Le stradine anguste armate di specchi agli angoli, mi ricordano il percorso che avrei fatto da casa a scuola. Amavo perdermi per il piccolo paesino, senza meta, alla scoperta  della mia nuova casa. Asso è un comune della provincia di Como, con poco più di tre mila abitanti e perciò la  maggior parte di loro si conosceva, almeno quelli stabiliti qui da generazioni. Poi siamo  arrivati noi, i nuovi stranieri: i moldavi. Quasi tutti portati qui dai miei genitori negli anni a  venire.

Per ora c'eravamo solo noi e i nostri vicini, che erano arrivati nello stesso periodo,  ma che di sicuro erano meno altruisti della mia famiglia. Loro, a differenza nostra, si  sarebbero creati una vita, senza pensare ad aiutare altri compaesani, e presto sarebbero  andati a vivere in Portogallo. Asso è anche un borgo antichissimo ed è il capoluogo della  Vallassina. I milanesi facevano avanti e indietro ogni fine settimana per venire al fresco tra  le nostre montagne. È un luogo pacifico e pieno di natura selvaggia. Nessuno avrebbe  pensato che persino qui, potevano succedere cose brutte. Ponte Oscuro collega la parte  superiore di Asso alla parte inferiore. Una salita ripida e siamo a casa.

Un vecchio edificio a tre piani scrostato si espone dall'incavo di una montagnetta poco alta.  Papà scende per aprire il cancello per poi entrare con l'auto e parcheggiare nell'unico  garage aperto. Mamma apre la portiera e scende tirando un sospiro di sollievo. Faccio lo  stesso, senza volerla imitare, e mi guardo attorno. La casa è proprio sopra ai garage ed è  affiancata da una scala in ferro battuto a chiocciola. Alti batuffoli floreali si estendono su  tutta la parte verde del prato attorno.

«Devi salire fino in cima!» Mi dice mio padre armato di valigie. Vorrei dirgli che lo so bene, ma evito. Arrivati in cima, mi sposto per far aprire a uno di loro. Mamma entra per prima,  aprendo senza chiave e mi chiedo per quale motivo lascino la porta aperta per andare così lontano. 

«Siamo arrivati!» Urla papà dietro di me facendomi trasalire. La luce all'interno è accesa e dalla mia sinistra arrivano delle risate da uomo. Entro cauta, cercando di ricordare l'interno dell'abitazione fredda. Tutto l'appartamento è costituito da tre stanze sulla parte sinistra e una piccolo bagno con la cucina di fianco all'entrata.

Mamma prende la bambina e scompare in fondo al corridoio mentre papà molla le valigie vicino all'ingresso e si avvia verso la cucina, ma non senza avermi trascinata con sé per mano. «Ragazzi, questa è la mia primogenita Khatrine.» Dice ai tre uomini seduti attorno al minuscolo tavolo. Mi chiedo che ci facciano svegli a quest'ora. Mi salutano con un ciao  seguito da un cenno del capo e tornano alla conversazione a loro parere divertente.  «Papà, posso parlarti un attimo?» Chiedo tirandolo per il braccio.

«Dimmi tutto piccolina.» Si gira verso di me e si abbassa quel poco per incrociare il mio  sguardo. «In privato!» Aggiungo indicando il corridoio con la testa. Lui saluta i tre orsi e si  incammina dietro di me.

«Che succede Khat?» Chiede ignaro del perché io sia così contrariata.  «Chi sono quelli e perché vivono qui?» Ribatto preoccupata. «Sono dei miei amici, li ho aiutati a trovare lavoro. Tranquilla...» Mi dice di nuovo stando alla mia altezza. «Entro fine estate saranno sistemati e avranno una loro casa. Non ti devi preoccupare di  nulla!» Mi confessa senza nessun accenno di comprensione.

«Pensavo che saremmo stati solo noi quattro, a vivere qui intendo.» Dico senza forze. So  che i miei genitori sono fatti così, vogliono condividere tutto e avere una cerchia ampia di  amici e famigliari attorno, ma speravo che stavolta le cose andassero diversamente. Del  resto la maggior parte di loro ci avrebbero voltato le spalle nel momento del bisogno. «Vedrai Khat, la tua vita d'ora in poi sarà migliore! Ti piacerà l'Italia e stare insieme a noi!»

Parlava come se non ci fosse un'altra scelta a parte quella. Sapevo che non dipendevano da  me le loro scelte, ma avrei comunque tentato di fargli aprire gli occhi riguardo la loro bontà  d'animo regalata al primo passante finto bisognoso. 

«Hai fame?» Mi chiede Giulia dietro di me. Lascio le mani del papà un po' riluttante e le rispondo. «No, voglio solo andare a dormire.» Lei guarda papà e poi me, mi porge la mano, quella che avrei stretto tante volte in diverse circostanze negli anni.  «Vieni, ti mostro la tua, anzi la nostra stanza!» Si corregge subito e per un attimo ho  l'impressione che stesse fulminando papà con lo sguardo.

«Andiamo forza!» Mi incita lei. «Notte papà!» Dico dopo avergli dato un lungo abbraccio e un bacio sulla guancia morbida  e calda. «Notte piccola Khat, e fai bei sogni!» Mi sussurra con le labbra attaccate alla mia guancia  incavata.

Prendo la mano di Giulia e mi lascio trascinare per il freddo corridoio. In fondo  sulla parete c'è uno specchio incorniciato in un legno antico lavorato a mano, quello  specchio che avrebbe ospitato i riflessi delle future donne che sarebbero state coabitanti di questa casa. La porta dipinta di bianco con il vetro scheggiato è mezza aperta e intravedo la  mia stanza.

«Ecco, questa è la nostra stanza.» Mi dice Giulia spingendomi all'interno. C'è un letto  improvvisato da assi di legno e materassi alti sull'angolo sinistro della stanza. Le pareti sono spoglie e bianche, ancora ignare del futuro che spettano loro. I miei poster avrebbero riempito ogni angolo di quella camera, fanatica com'ero dei giornalini dell'edicola. Un  unico armadio malandato era sul lato opposto della stanza e aveva uno specchio sulla porta  del mezzo che ricordava molto il mio covo di Telenesti. Una scrivania di fronte alla piccola  finestra senza tende si porgeva a me come un bisognoso al mercato. Quello sarebbe  diventato il mio angolo di paradiso. Lì avrei iniziato a scrivere i miei primi diari segreti e le  prime poesie nel mio nuovo mondo.

Con rammarico ricordo il mio zaino, contenente la mia vita, le mie poesie e le poche fotografie che mi ero portata appresso durante i traslochi in Moldavia. Era tutto perduto.  Non mi rimaneva nulla della mia nuova vita, come se fosse una sfida per me. Lancio il  mangianastri sulla scrivania ancora vuota per poi distendermi sul letto.

La bambina dorme nella culla ai piedi del letto e mi chiedo come mai non stesse in camera dei miei genitori.  Sapevo che mia sorella era una brava bambina e la notte non si svegliava mai per la  poppata, quasi a non voler disturbare il sonno leggero della mamma. Mi sporgo dal bordo  per darle un bacio prima di intrufolarmi sotto le coperte ancora vestita. Sentivo il bisogno di  una doccia o di un bel bagno caldo, ma avevo timore di lavarmi dentro un bagno senza  serratura e con tre orsi che ospitavamo nell'angolo della casa.

Un'ora dopo, ero quasi  totalmente nel sonno profondo, ma la porta scricchiolante mi ha fatto svegliare e senza  aprire gli occhi del tutto, ho intravisto i tre uomini sovrappeso che meticolosamente  entravano per poi aprire l'ultima porta dell'ultima stanza. Era una piccola camera, con un  letto matrimoniale subito all'entrata e altri due singoli nell'angolo opposto. Non conteneva  nient'altro se non una piccola finestra. La più soleggiata della casa. La stanza che avrei  chiamato "Hostel Brundi", date le circostanze. 

Mi alzo controvoglia sentendo il bisogno di lavare i denti e mi avvio nel lungo corridoio.  Dopo aver oltrepassato la porta socchiusa della stanza da letto dei miei, sbirciando  all'interno, mi sono incamminata verso il bagno. La porta era bianca con un vetro anch'esso  scheggiato, ma che non lasciava intravedere nulla all'interno. Mi sono chiusa dentro e ho  acceso finalmente la luce. La piccola finestra in alto era aperta e lasciava entrare la brezza della notte. Il lavandino era proprio sotto la finestra e la vasca regnava sul lato destro. Ho  fatto i bisogni veloce senza sedermi, mentre osservavo l'ambiente circostante. Ho  ringraziato nella mia mente i francesi per aver inventato il bidet e poi ho aperto l'acqua della doccia.

Ho tolto i vestiti velocemente e sono entrata nella vasca, richiudendo bene la tenda  dietro di me. Quando il getto dell'acqua bollente ha iniziato a massaggiarmi la schiena, mi sono rilassata completamente, pensando a quanto fosse sottovalutato quel privilegio. Ho  finito di lavarmi quando l'alba iniziava a farsi spazio nel buio.

Non c'era nessun gallo nei  dintorni ad avvertirmi che la giornata stava per iniziare, ma sapevo che la Moldavia era  avanti di un'ora. Così, con i capelli gocciolanti e gli stessi vestiti di prima addosso, mi sono  intrufolata nella camera da letto dove dormivano i miei genitori per uscire poi con il  cellulare di mio padre fuori di casa.

La terrazza era grande e le mattonelle rosse e lunghe  iniziavano a brillare sotto il primo sole. Compongo il numero che conosco a memoria e  attendo. Dopo qualche squillo sento la voce tanto famigliare di Nelu. «Pronto.» Dice assonnato.

«Ciao Nelu, sono Khat. Ti sono mancata?» Rispondo divertita. 

«Khatrine, mi stavo preoccupando. Pensavo mi avresti chiamato subito appena arrivati. Ho  aspettato tutta la notte. » Confessa lui dopo uno sbadiglio profondo. 

«Mi dispiace, pensavo stessi dormendo e non volevo disturbare.» Affermo scusandomi. «Scherzi vero? Non mi disturbi mai. MAI!» Accentua l'ultima parola.

«Sono nella mia nuova casa e vorrei tanto che fossi qui con me.» Gli dico ormai in lacrime,  erano poche le persone alle quali lasciavo intravedere la mia debolezza e il mio affetto.

«Ogni cosa a suo tempo. Io sto bene qui, stai tranquilla. Ho comprato anche un computer  usato quindi, se lo farai anche tu, ci sentiremo più spesso. » Aggiunge lui con entusiasmo. «Lo farò appena possibile. Non vedo l'ora di riabbracciarti faccia da schiaffi!» Gli dico  ridendo tra le lacrime. 

«Faccia da schiaffi a chi vecchia mocciosa?» Mi stuzzica lui ormai sveglio, sento i suoi  passi girovagare per l'appartamento e lo immagino intento a riempire il bollitore dell'acqua per fare il tè. 

«Khat, devi sapere una cosa.» Continua lui con il rumore della stufa in sottofondo.  «Dimmi tutto, Nelu.» Lo incito a continuare. 

«Sai, non ti ho detto tutto riguardo alla Mads&Mank.» Rimango in silenzio aspettando che  continui. 

«Ti avevo detto che l'incidente con la mucca Marta era la seconda volta in cui ricominciavo, ma ho mentito.» Sento il sangue raggelarsi nelle mie vene, ma rimango ad ascoltare.

«Ho perso il conto in realtà. È molto probabile che non sia stata la seconda, né la terza e  nemmeno la quarta volta che rinascevo. Il problema è che forse, e dico forse, non c'è  possibilità di superare l'età della nostra prima morte.» Le sue parole echeggiano nelle mie  orecchie, come in quel fottuto cubo di merda. La Sylass mi aveva manovrata per bene, ecco  perché non volevo che Stefan mi portasse da lei, dopo la mia morte, ma ero decisamente lì  in realtà, se ero ancora qui. 

«Mi stai dicendo che sei arrivato all'età della tua morte Nelu? Sei riuscito a vivere fino a  quel punto e non oltre?» Chiedo cercando chiarimenti. 

«Sono arrivato fino a lì sì, ma ho cambiato il percorso spesso e non sono morto come nella  mia prima vita, ma...» Esita.

«Ma?» Continuo insistente. 

«Ma poco prima di mezzogiorno dello stesso giorno in cui sarei dovuto morire, sono morto  lo stesso Khat.» Le sue parole mi fanno male, tanto male.

Sono morto lo stesso, sento ancora nella mente. Ho cambiato percorso e spesso ma..., le sue parole riecheggiano.

«Non può finire così !» Gli dico decisa. 

«Risolverò tutto. TUTTO. Hai capito, Nelu?» Questa cosa doveva pur avere una logica e un  significato. E se la Sylass si prendeva gioco di me e di noi, non aveva idea con chi aveva a  che fare. Non le avrei permesso di rovinare i miei piani.

Solo e soltanto io ero l'artefice del  mio destino e non avrei permesso a nessuno di ostacolare il mio percorso.

Avevo tantissime  cose ancora da cambiare e una di quelle sarebbe stata lei. Amanda Sylass.

_FINE_

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