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ᑕᗩᑭITOᒪO 42 |ᒪᑌI è ᗩᒪ ᔕIᑕᑌᖇO!|

Ottobre era uscito dalle nostre vite come un soffio di vento, lasciando spazio a novembre che non aveva esitato un attimo a ritirasi al cospetto di dicembre.

Eravamo già a fine mese e l'aria di neve era presente ovunque insieme al solito metro di fiocchi attutiti l'un l'altro sul suolo.

La preparazione per la festa di Capodanno, nonché il compleanno di Nelu, creava un caos piacevole e invogliava tutti a darsi da fare.

Marina aveva convinto Nadia insieme alla madre di restare con noi fino alla mia partenza per l'Italia. Infatti, aveva detto a Nadia che non poteva stare a casa sua per via del fratello che aveva trovato moglie. Era palese che fosse una bugia, ma Nadia, ingenua com'era, non aveva saputo dirle di no. Così, dopo aver fatto i calcoli e tutte le compere per una grande festa nel piccolo appartamento, ci eravamo impegnate fin dal mattino presto. Ci alternavamo nel piccolo cucinino a preparare ognuno ciò che aveva in mente.

Avevamo deciso di spostare il tavolo nella mia stanza, davanti alla TV, così a mezzanotte avremmo festeggiato guardando il piccolo schermo illuminarsi sotto i mille colori dei fuochi d'artificio.

Nell'aria c'era profumo di pietanze calde e sottaceti misto all'inconfondibile odore del cioccolato. La mamma mi aveva spedito un po' di soldi in più rispetto alle altre volte, anche se non glieli avevo chiesti. Si era finalmente accordata con Nadia per far arrivare i pacchi all'appartamento, e non dallo zio Vasea come all'inizio.

Perciò ora, con due scatole davanti all'entrata piene di barattoli di Nutella, cereali e barrette di cioccolato alle nocciole, ci riempivamo la pancia masticando mentre insegnavo a Mila e Marina la ricetta dei ravioli al formaggio di nonna Elena.

Visto che il tavolo era già stato spostato, abbiamo ricoperto le sedie con alcune gazzette che ora ospitavano quei panzarotti bianchi. Io, con mani esperte, chiudevo un raviolo alla volta mentre loro osservavano le mie mosse, nel tentativo di imitare ciò che stavo facendo.

Nadia sta apparecchiando la tavola e Vera, che finalmente ci ha degnati della sua presenza, si aggira vicino alle due scatole appena arrivate.

«Puoi prendere quello che ti va Vera!» Le urlo dalla cucina, notando il fruscio di una scatola di cereali. La stava agitando mettendola all'orecchio per sentirne il contenuto.

«Posso provare questi?» Appare dietro di me con una scatola tra le mani.«Certo, ma sono meglio con un po' di latte caldo.» Le dico notando che aveva scelto quelli al cacao. Erano quei cereali a base di riso soffiato che, appena immersi nel liquido caldo, si ammorbidivano lasciando il colore scuro miscelarsi con il latte bianco.

«Va bene anche freddo!» Ribatte con una ciotola in mano e un cucchiaio tra i denti. «Fai come vuoi!» Le rispondo ridendo. Vera, dopo aver riempito la ciotola fino all'orlo, si muove lenta per non far fuoriuscire il contenuto e sparisce dietro il muro che porta alla mia stanza.

Guardo le mie due aiutanti ancora intente a chiudere ravioli e butto un po' di sale nell'acqua che bolle nel grande pentolone, quello che usavamo per scaldare l'acqua la sera. Sono tranquilla e serena quando il ricordo di una giornata passata con Vera nell'altra realtà mi arriva correndo come un'animale appena scappato dallo zoo.

*

Era una giornata soleggiata, ma il freddo siberiano ci faceva rabbrividire lungo il tragitto dall'abitazione di nonna fino alla casa di culto. Vera era vestita come se dovesse andare in discoteca in un giorno qualunque d'estate. I ragazzi che ci accolgono al nostro arrivo sembrano molto più grandi persino di lei, ma la cosa non mi sconvolge.

«Ah, eccoti finalmente!» Dice uno dei quattro. Era l'unico con i capelli un po' lunghi e ricci, ciò gli dava un'area da clown soprattutto per il suo sorriso che sembrava tirato fino alle orecchie. Lui, molto più alto di lei, l'abbraccia mentre io sto ancora in disparte.

«Non badate a lei. Mia sorella me l'ha mollata per tutto il pomeriggio!» Era visibilmente contrariata alla mia presenza e anche io avrei preferito restare a casa della nonna, ma ultimamente le cose stavano peggiorando lì poiché, tra litigi notturni e urla giornaliere, erano scappati tutti, lasciando il nonno e la nonna al loro misero destino.«Come ti chiami principessa?!» Mi chiede quello con la pancia floscia. Non rispondo e abbasso lo sguardo.

«Ma sa parlare?» Chiede poi divertito a mia zia. «Non calcolatela! È strana forte!» Accenna Vera senza guardarsi indietro, dove mi trovavo io.

«Vogliamo andare?» Le chiede il ragazzo clown. Lei lo bacia sul collo e poi fa cenno di sì.«Vieni con noi, ma non devi darmi fastidio. Hai capito?» Mi incalza lei senza ragione.Faccio di sì con la testa senza alzare lo sguardo e lei con disprezzo mi passa accanto, buttandomi quasi a terra. Era sempre così con me. Non nascondeva mai il suo disprezzo.

Così, insieme al clown e ai tre ragazzi, seguo il passo deciso di Vera, guardandole le scarpe col tacco. Erano delle zeppe con dei lacci che circondavano la caviglia per salire sul polpaccio muscoloso. I collant trasparenti erano scheggiati all'interno coscia e quando faceva un passo la gonna nera si alzava sempre di più. Lei però non si curava di questi particolari.

Abbracciata al suo ragazzo del momento, Vera mi fa strada in una palazzina di un blocco in cemento accanto a quello della bisnonna Emilia.

I tre ragazzi erano spariti per tornare poco dopo con alcune bottiglie di cognac e un sacchetto di arance. Al loro arrivo, eravamo già all'interno dell'appartamento completamente vuoto, tranne che per un logoro materasso, accasciato a terra nella sala luminosa. Mi aveva dato ordini precisi, portandomi quasi di peso all'unica scrivania con un vecchio stereo e qualche cd sparso qua e là.

Mi ero seduta, rivolgendo lo sguardo al muro ed ero decisa di non distoglierlo finché avrei sentito la frase che speravo, ovvero "andiamo a casa." Ma la frase avrebbe tardato ad arrivare e ne ero consapevole così, dopo aver resistito a lungo sentendo dietro di me bicchieri che brindavano e profumo di arance appena sbucciate, mi sono girata e con voce troppo bassa avevo chiesto a Vera se potevo andare sull'altalena dietro il blocco, dove ad un ramo d'albero qualche padre premuroso aveva creato con corde e una gomma di una macchina una giostra inutilizzata. I bambini sembravano si fossero scordati della sua esistenza da anni ormai.

Lei mi scaccia con la mano, senza guardarmi e dice solo "vai vai!", stando ancora sul materasso in cerchio insieme ai suoi amici.

Quando sono fuori dall'edificio, corro veloce dietro la costruzione, quasi avessi paura che qualcuno mi vedesse o, peggio, mi chiedesse chi fossi e che ci facessi lì.D'altronde non ero a casa mia; in effetti non lo ero mai.

Mi dondolo avanti e indietro sull'altalena improvvisata e senza toccare terra mi do più spinta ad ogni dondolata. L'aria gelida mi scorre sul viso e rido spensierata, lasciandomi trasportare da quella goccia di adrenalina che tanto sentivo di meritare.

*

«Khat, il fuoco!» La voce di Nadia mi riporta alla realtà come uno schiaffo dritto in faccia.Solo quando sono totalmente ritornata al presente, mi accorgo che il fuoco si è spento pervia dell'acqua che era fuoriuscita quando ho messo il sale. L'odore di gas mi dà fastidio alle narici. Con goffaggine e fatica, sono riuscita a spostare la pentola per pulire l'acqua dal piano cottura.

«Ma dove hai la testa?» Mi incalza lei, che ancora dietro di me osserva la scena con le mani sui fianchi. Sembrava mia madre.

«Scusa, ero soprappensiero.» Le confesso vergognandomi.«Stai più attenta la prossima volta. Non si scherza col fuoco!» Ripete lei le parole sentite da qualcun'altra.

Marina e Mila, che fino ad ora sono state in disparte ciascuna con un raviolo in mano, ora si affrettano ad immergerli nell'acqua bollente con aria divertita. Sembravano delle piccole bambine.

«Piano, piano. Uno alla volta, se no appiccicano tra di loro!» Dico ciò che la nonna mi aveva insegnato. Loro seguono le istruzioni, stavolta più calme, e io le lascio fare mentre mi sposto nella stanza in fondo, da dove Nelu non era ancora uscito.

«Stai bene?» Chiedo appena varco la soglia. Lui, sdraiato a letto, tira la coperta su fino al mento e dice che si sente stanco.

«Ma dai. Abbiamo una serata magnifica davanti a noi. E poi non si compiono dodici anni tutti gli anni, sai?» Lo raggiungo e mi sdraio accanto a lui sopra le coperte.

«Non ho voglia di festeggiare sinceramente.» Mi confessa guardando il soffitto.

«Nelu, ti prego! Fallo per me. Tra pochi mesi me ne andrò per sempre da questo posto e non ci vedremo così spesso! Dobbiamo goderci i bei momenti che ci restano!» Gli dico ora sdraiata su un fianco, con lo sguardo rivolto totalmente a lui.

«È questo il problema Khat!» Dice mentre una lacrima si immerge nel cuscino di piume.

«In che senso?» Chiedo, sperando di farlo parlare. Sapevo che si trattava di una leggera depressione, per via di sua madre che insisteva a chiamare ogni giorno l'appartamento e maledirlo di non rispettare il suo compito di figlio. Attraverso la cornetta gli sputava addosso che si aspettava di più da lui e che avrebbe rimpianto di essersi allontanato da lei. Lo ricattava: se non si fosse preso cura di lei durante la vecchiaia, sarebbe stato maledetto a vita da sua madre in persona.

Era sempre così. I genitori mettevano al mondo il primo figlio ad un'età in cui loro stessi non potevano essere considerati adulti e poi si rendevano conto che in realtà non volevano fare le madri o le mogli. Capivano di essere giovani e che avrebbero dovuto godersi l'età d'oro prima che fuggisse via come il vento.

«Vedi... tu tra poco te ne vai ,ma io resterò qui. E nessuno mi prenderà in considerazione dopo la tua partenza. Sai bene che è grazie a te se siamo tutti in questo appartamento.» No, in realtà non pensavo minimamente che fosse grazie a me, ma decido di rimanere in silenzio ora che si è lasciato andare.

«Ho saputo dallo zio che tua madre ha detto a nonna Elena di portarti all'appartamento,

dopo l'accaduto della notte con l'ascia.» Non ne avevo idea. Pensavo davvero che fosse un'idea della nonna. Grazie mamma! Dico nella mente, sperando che le arrivi il mio pensiero come un brivido sulla schiena.

«Tu sei fortunata Khat!» Si ripete lui.

«Lo hai già detto Nelu, ma non è così credimi. Certo, io me ne andrò, ma ciò non significa che i miei genitori cambieranno da un giorno all'altro. Mi hanno ignorata finora e ho l'impressione che ci siamo così abituati che lo rifaranno ancora.» Confesso, sapendo già il futuro.

«No Khat, tu sei fortunata perché loro ti amano.» Questa frase mi fa pensare, ma dubito che lui sappia più di me.

«Certo Nelu, loro amano me, ma non si amano fra di loro e questo è più doloroso che crescere senza genitori. Non fraintendermi, so che sono fortunata, ma fortunata non significa per forza felice.» Dico ragionando sulle sue parole.

«Sì, ma loro ti amano a tal punto da fare di tutto per portarti con loro, mentre mia madre si ricorda di me una volta all'anno, durante il periodo del mio compleanno. Quasi avesse una sveglia che la avvisa qualche mese prima di tornare a fare la madre. Ma non le riesce Khat. Lei non ha mai imparato.» Aveva ragione. Daria, per quanto bella e simpatica, non aveva istinto materno. Certe volte, quando Nelu era piccolo, lo portava con sé durante le sue serate strambe per poi dimenticarlo là sul pavimento in un angolo a dormire. Tornava il giorno dopo a prenderlo e chiedeva perdono in ginocchio al piccolo feto in fasce.

«Nelu, tutti noi abbiamo delle battaglie che dobbiamo affrontare. Chi più dure e chi meno, ma guardati attorno.» Dico indicando la stanza dall'altra parte del muro.

«Pensi che Mila non abbia avuto un'infanzia difficile? O Caroline? O la stessa Nadia e Vera che ora sono quasi adulte. O Marina che ci ha raccontato la sua storia? Pensi che loro non hanno avuto i tuoi stessi pensieri?» Chiedo quasi arrabbiata, non con lui, ma con me stessa per essermi tolta la vita. A cosa pensavo? Ero davvero depressa per fare una cosa simile? O era la stanchezza di lottare che mi aveva portata ad una simile fine? Che stupida!

Per fortuna però le cose mi sono andate bene, dato che ora sono qui in carne ed ossa. Un ricordo recente mi oltrepassa la mente. «Nelu, che cos'era quella scritta a casa di Marina?» Domando cauta.

«A me puoi dirlo, sai?» Insisto nel voler incrociare il suo sguardo e ci riesco. Ora mi fissa quasi perso nel vuoto, come se l'anima all'interno di quel corpo fosse troppo grande per rimanere dentro di lui e ora si affrettasse ad uscire attraverso i suoi occhi blu mare.

«Era solo un ricordo!» Mi confessa. Io sapevo bene cosa significavano quelle due parole. Erano il logo di un'associazione segreta.

«Me lo puoi raccontare?» Chiedo implorante. Lui mi fissa, ma poi si ritira sotto le coperte.«Se me lo dici ti racconto una cosa che riguarda la tua scritta!» Mi arrendo. Lui tira giù la coperta di scatto, si alza e va a chiudere la porta che attutisce le chiacchiere delle altre in cucina.

«Cosa sai della Mads&Mank?» Mi sorprende con questa domanda, ancora in piedi davanti alla porta.

«Tu cosa sai?» Chiedo fissandolo senza far trapelare nemmeno una briciola di sconforto.«Non molto in realtà. So solo che... ti sembrerà strano lo so...» Lui esita e io lo incito a parlare, alzandomi e avvicinandomi a lui.

«Non sono quel tipo di persona che si sconvolge per le piccolezze, quindi parla. Fidati di me una volta per tutte.» Gli prendo le mani fra le mie e tengo lo sguardo fisso nel suo.

«È strano, ma ricordo di essere morto.» Il mio cuore perde un battito, ma rimango impassibile.

«Ero con due miei amici e ricordo di essere tornato per un fine settimana a casa. Abitavo

nell'appartamento della prozia Ecaterina, che è in Italia a fare la badante. » So bene a chi si riferiva. Era la famosa prozia che aveva rinunciato al peccato ancor prima di sapere cosa fosse, dedicando la sua vita alla religione. Era l'appartamento al terzo piano della stessa palazzina in cui ci troviamo ora; era disabitato da anni e solo all'età di diciott'anni avrebbe ospitato Nelu, fino al giorno della sua morte.

Non smetto di guardarlo negli occhi, incoraggiandolo a parlare.

«Avevo preparato tutto per tornare a Chisianu, ma i miei due amici volevano salutarmi così siamo usciti per un'oretta a fare un giro. Erano le undici del mattino e alle due sarei dovuto salire sul pullman. Ricordo che erano ubriachi quando ci siamo incontrati, e sai quanto odio vedere l'espressione annebbiata dall'alcol.» Lo sapevo bene, come sapevo che lui non avrebbe mai bevuto un goccio in tutta la sua vita.

«Sì, lo so.» Dico sempre lì davanti alla porta con lui.

«Eravamo nelle vicinanze del bosco, loro erano gasati e volevano salire in cima ad una torre elettrica per provare un po' di adrenalina.» Nelu parla con la testa che gli dondola da una parte all'altra.«Erano saliti in cima entrambi mentre io ero rimasto giù. Solo quando uno dei due aveva perso il controllo di un braccio e stava per scivolare, mi sono affrettato a raggiungerli in cima. Fu la cosa peggiore che potessi fare.

Nel salire ho perso una scarpa, che non mi ero reso conto di avere slacciata. In meno di due secondi fui io a provare l'adrenalina che tanto desideravano loro. Poi il nulla. Per un po'...» Mi racconta scioccato.

«Poi?» Insisto.«Non ci crederai mai.» Si esprime deluso, ma con lo sguardo fisso nei miei occhi verdi.«Provaci!» Lo incoraggio.«E poi mi sono risvegliato tre minuto dopo Capodanno, al mio nono compleanno! Ricordo tutto! È straziante!»

Le mie braccia lo circondano in un abbraccio e dico solo: «Grazie! Grazie! Grazie per avermelo detto. Io ti credo, Nelu. È strano lo so, ma è tutto vero. Forse la vita ha voluto darti una seconda chance! In fondo, non sono proprio la più buona della famiglia.» Gli confido tra le lacrime.

«Tu mi credi?» Mi allontana sconcertato dall'abbraccio.«È che mi sembra che la stessa cosa sia successa a me!» Esclamo senza guardarlo. Lui mi tiene ancora lontana dal suo corpo che ora sta iniziando ad allungarsi grazie alla crescita e agli ormoni maschili che gli spettavano di diritto.

«Sei morta?» Mi chiede sconvolto.

«Non lo so, ma credo proprio di sì visto che ho vissuto un'esperienza simile alla tua. Tranne per le circostanze di morte.» Affermo delusa. Avrei preferito morire senza dover togliermi la vita, ma non si può aver tutto.

«Ti hanno uccisa Khat?» Chiede ancora sotto shock.

«No, è stato un incidente!» Mento come un detenuto tratto alle corde. Lui non dice più nulla, ma capisce. Ora non ha più scuse. Deve lottare per la sua vita, concessagli per la seconda volta.

Ci abbracciamo e ci promettiamo di mantenere il segreto. Quando gli chiedo della stanza lui non dice di esserci stato e non mi racconta neanche delle novantanove cose che deve cambiare per sopravvivere. Non insisto però, sapendo che ha già detto troppo, e lo incoraggio a festeggiare per la seconda volta i suoi dodici anni imminenti.

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