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ᑕᗩᑭITOᒪO 29 |ᔕTEᖴᗩᑎ - ᑕᕼI ᔕᗩᖇò ᒪO ᗪEᑕIᗪO IO!|

Stefan è all'unico terminal dell'aeroporto di Basilea. Ha acquistato un biglietto in prima  classe su internet e ora cammina dietro ai pochi passeggeri dotati di questo privilegio. 

«Buon Viaggio signor Gradi.» Gli augura l'hostess albanese. Ha un rossetto del colore del  fuoco che accentua le sue labbra carnose, ma lui risponde senza soffermarsi a guardarla. In  aereo si siede al suo posto e attende come gli altri l'imminente partenza. Quando il capitano  annuncia che stanno per decollare, mette il cellulare in modalità aereo e continua con il suo  gioco offline.

Gli sarebbe piaciuto il posto vicino al finestrino, ma non aveva resistito a  cederlo alla donna che sedeva accanto a lui. Infatti, gli ha chiesto gentilmente di fare a  cambio. Ora, tra una mossa e l'altra sul suo iPhone ultimo modello, alza lo sguardo su  quelle gambe avvolte solo da collant color carne. Fa un'altra mossa sul piccolo schermo e  poi torna ad ammirare l'eleganza che siede accanto a lui. Ha i capelli neri e talmente lunghi  che le si incastrano nel poggia gomiti. Lui è tentato di spostarli, ma esita, non conoscendola.

«Finalmente si torna a casa!» Esclama la giovane ragazza. «Mi scusi?» Chiede lui con finta  disinvoltura. «Ho detto, finalmente si torna a casa. Sono anni che non vado a trovare i miei  vecchi genitori.» Dice lei triste. «Capisco! Speriamo che la situazione Covid passi in fretta!» Il virus girava sulla Terra da quasi due anni, ma il vaccino stava iniziando a fare effetto e i  casi erano scesi drasticamente. I viaggi erano di nuovo permessi, non come negli ultimi  mesi che a malapena si poteva uscire di casa. «Lei chi va a trovare?» Insiste la ragazza  mora.

«Anche io vado a trovare la famiglia!» Esclama, ma senza entusiasmo. La ragazza  torna a guardare fuori dal finestrino ammirando la natura sottostante che sbiadisce sotto le  bianche nuvole dove si intrufola il piccolo aereo. Il capitano annuncia che siamo ad alta  quota ora e finalmente verranno servite le bevande insieme agli stuzzichini.  «Cosa le porto da bere signore?» Chiede la hostess di poco fa. «Un gin tonic con tanto  ghiaccio per favore.» Dice Stefan senza soffermarsi a guardare la ragazza sorridente.

«Lo  stesso per me!» Esclama la voce accanto a lui. Per un istante vorrebbe che quella voce fosse  più fluida e che quei capelli fossero più corti, almeno avrebbe potuto sognare di essere lì con Khat, visto che la frase appena pronunciata dalla ragazza era così famigliare per lui. La  hostess torna poco dopo con due bicchieri e li incita a brindare. Fanno cin cin e lui si gode  quel liquido freddo che allevia il dolore della sua anima ferita.

Mentre ordina un secondo  bicchiere, ripensa a quanto è stato facile vendere la casa, sbrigare le pratiche e chiudere con  la vecchia vita. Aveva ingaggiato un'agenzia di traslochi che aveva incartonato  meticolosamente tutta la sua vita, o quel che ne rimaneva. 

Era l'undici dicembre e l'indomani avrebbe compiuto trentotto anni, ma non lo spaventava  più la morte, almeno non come una volta. Avrebbe potuto compierne sessanta e avrebbe  avuto la stessa reazione: nessuna. Non era un tipo che amava le feste, per Stefan un giorno  era come tutti gli altri, poco importava se fosse la festa del papà o della donna. Non si  ricordava nemmeno i giorni dei compleanni, se non fosse stato Facebook a ricordarglielo.

«Comunque io mi chiamo Alexis, piacere.» Gli porge la mano. «Piacere, sono Stefan.»  Accenna lui sfiorando appena quella mano femminile. «È tanto che abita in Svizzera?»  Chiede Alexis. «Sì, abbastanza. E lei?» Domanda cortese di rimando. «Non tanto in realtà.  Sono arrivata prima della crisi che il Covid ha creato, ma è incredibile con quanta facilità ho imparato il tedesco e trovato lavoro.» Esclama Alexis. «Già, mia moglie lo diceva sempre.»  Dice Stefan pentendosene subito. Non era ancora pronto a parlare di lei al passato.

  «Diceva?» S'interroga lei triste. «Sì, non è più tra noi purtroppo.» Sussurra Stefan sottovoce. «Mi dispiace molto per la sua perdita. Posso offrirle un gin tonic per ringraziarla dello  scambio dei posti?» Insiste la snella ragazza. «Non si preoccupi, sono a posto così. Grazie  comunque.» L'aveva liquidata con garbo. Non era dell'umore giusto per intraprendere
grandi discorsi in quel momento. Alexis capisce e gli lascia il suo spazio, tornando a  guardare fuori dal piccolo finestrino.

Le nuvole diventano sempre più grigie e la lucina  sopra le loro teste li invita a prendere posto e allacciare le cinture; tra poco sarebbero  atterrati a Tirana, la capitale del suo paese natale. Stefan chiude gli occhi per qualche  minuto, preparandosi mentalmente a rivedere la sua famiglia.

Erano passati più di due anni da quando Muhamed, suo padre, aveva deciso di tornare in Albania per sempre. Gli  mancavano pochi anni alla pensione, ma non aveva più voglia di lavorare perciò aveva  preso la moglie e se ne erano andati dal paese che tanto gli aveva dato. Ora vivono nella  casa dove una volta, quando era molto piccolo, faceva tantissime marachelle. 

Quando l'aereo inizia la sua discesa verso terra, Stefan controlla nella tasca del giubbotto in  pelle e, appena le sue dita toccano la carta stropicciata, tira un sospiro di sollievo senza  accorgersene. Il vantaggio della prima classe è che entri per primo ed esci per primo. Aveva  sempre apprezzato questo lato della cosa, ma non poteva dare un'occhiata alla seconda  classe e con rammarico ricordare tutti gli aerei che in passato avevano dovuto prendere lui e  Khat.

Il più terrificante volo non era stato quello per l'America, ripensa. Era stato quello di  mezz'ora da Gran Canaria a Fuerteventura. Lì avevano temuto di morire entrambi,  sembrava quasi che la terra si rifiutasse di far atterrare il piccolo aereo sull'isola ventosa.

«Arrivederci e torni a viaggiare con AirAlbanianExpress.» Augura ad ogni passeggero che  esce la stessa Hostess dell'imbarco. La saluta cordialmente quando è il suo turno e si avvia  per il lungo corridoio a passo svelto. Non era una persona atletica, ma aveva dovuto  imparare nei lunghi viaggi a stare al passo della moglie, poiché non aveva scelta. 

Quando al ritiro dei bagagli la sua vecchia valigia blu fa capolino attraverso la gomma nera  a strisce, si affretta a prenderla ed esce dall'aeroporto. L'aria è gelida all'esterno e deve  coprirsi bene il collo con la sciarpa per tornare a respirare.

L'auto di suo padre la  riconoscerebbe ovunque. Quel vecchio catorcio che si ostinava ad accompagnarlo fino ai  suoi ultimi giorni. La intravede in seconda fila, poco lontano dalla sua uscita e si dirige  velocemente nella sua direzione, trascinando la valigia alle sue spalle. Una volta caricata nel bagagliaio, sale in macchina dove trova davanti la mamma ed il papà, seduti ad osservare le  sue mosse in silenzio. 

«Ben arrivato tesoro mio! Come stai?» Chiede la madre girandosi quel poco possibile sul  sedile passeggeri. «Bene grazie, possiamo andare ora?» Chiede lui spazientito. Non gli  piaceva quando sua madre lo trattava come un bambino. «Hai sentito Valbena in questo  periodo?» Il padre s'informa sul rapporto con la sorella. «Non la sento da una vita e non ci  tengo a farlo.» Dice lui scontroso. Lo sguardo del padre incrocia il suo nello specchietto  retrovisore e Stefan lo sposta subito rivolgendolo al finestrino.

L'aeroporto è abbastanza  grande e freme di gente nonostante le restrizioni. Le persone sono irriconoscibili con le  mascherine colorate sui volti. Nonostante non fosse più obbligatorio portarle, dopo l'uscita  del vaccino, la gente aveva lasciato crescere la paura dentro di sé e ora non potevano più  fare a meno di dubitare. Inutile dire che starnutire era diventato vergognoso come fare le  puzzette. 

«Sai, anche Omar è venuto a trovarci finalmente.» Accenna Bianka. La donna ha un viso  dolce e ovale. Porta una pettinatura corta che le dà quel poco di severità sul viso, ma solo  quando non sorride. Muhamed svolta per imboccare l'autostrada e finalmente una  sensazione di calma lo invade. «Omar è qui?» Chiede lui confuso.

Omar era il più piccolo  dei tre fratelli, ma anche il più bello. Aveva sempre una frase incoraggiante o un pensiero  per ogni cosa di cui qualcuno avesse bisogno. «Sì, è arrivato la settimana scorsa e resterà  fino a Capodanno, come farai anche tu vero?» La madre lo incoraggia sorridendogli, ma lui  non ricambia. «Mamma, sto solo due giorni. Non mi infastidire ora.»

Era sempre così che parlavano tutti con lei. Poco importava se fosse stata la madre più premurosa del mondo, per i suoi tre figli. Sembrava quasi che fosse lì solo per farsi urlare addosso cose brutte e  assorbirle per poi rispondere con amore e gentilezza, accompagnata da sorrisi sinceri.  «Mamma mia come sei scontroso.» Afferma lei divertita, tornando a guardare il parabrezza.  «E quando non è scontroso lui?» Chiede Muhamed, ma non attende risposta e si mette a  ridere con la sua risata forte e rauca. 

Poco meno di un'ora dopo, sono entrati nella sua città natale. Durazzo si presentava spoglia  ai suoi occhi. Non ci tornava da quasi un decennio ormai, ma non era cambiata  minimamente da allora. La via principale divide su due lati edifici grigi e lasciati a metà  costruzione. Solo i pochi ristoranti sulla passerella che porta al mare sono animati di vita,  persino fuori stagione.

Arrivati in centro città, la scritta "Durres" regna abbagliante nel  mezzo della piccola piazza sulla sinistra, dove giovani coppie si scattano selfie illuminati  dalla scritta bianca dietro a loro. Stefan gira la testa dal lato opposto della strada e osserva  quel ristorante dove aveva fatto provare per la prima volta le cozze a sua moglie. Un sorriso  gli si era materializzato sul viso ricordando Khat che masticava quella viscida creatura  cercando di apparire indifferente. Il posto era identico all'ultima volta, tranne per i tavolini  apparecchiati di fuori che mancavano in inverno.

Solo ora realizza che non era mai stato in  Albania d'inverno dall'età di sei anni, quando se ne era andato per sempre da quel posto. La  macchina svolta a sinistra dopo un paio di incroci, imboccando una via secondaria a lui  molto famigliare. Era lì che più di trent'anni fa giocava con i suoi vicini a nascondino o a saltare  sui tetti. Le case erano scomparse però, lasciando spazio ad altri edifici grigi che si  innalzavano sempre di più .

Il padre scende agile, nonostante l'età, e si affretta a spalancare i due portoni. La casa Gradi si presenta minuscola ai suoi occhi, dietro il cancello arrugginito. Poco dopo aver parcheggiato nel vialetto di quella vecchia casa, si affretta ad aprire il  bagagliaio e a fare da facchino al suo primogenito. 

«Ma che fai papà! Lascia stare dai, ci penso io.» Dice lui ansioso. Dopotutto, aveva molto  rispetto per suo padre. «È solo una valigia Stefan, non farne una tragedia.» Lo incalza il  padre divertito.

Lui lo lascia fare, trasportato dalla malinconia di tornare bambino. Si guarda intorno e realizza solo ora quanto sia piccola quella casa in realtà. Da bambino gli sembrava  una reggia, ma ora era poco più di una villetta a schiera. Con le mani nelle tasche del  giubbotto, non smette di tenere la lettera fra le sue dita, impaurito quasi che potesse  prendere il volo se non al contatto con la sua pelle. La sua attenzione però viene catturata da un tovagliolo di carta che solo ora scopre di avere nell'altra tasca.

Lo tira fuori di scatto,  pensando a chissà cosa e aprendolo capisce di cosa si tratta. Sul piccolo tovagliolo che  funge da sottobicchiere negli aerei, una calligrafia morbida riporta

     " Per quel gin tonic? Le devo un favore! 

Alexis" 

La frase regna al centro della carta con sotto un numero di telefono dal prefisso svizzero  scritto di fretta.

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