Twenty Second Shade [R]
Evan era teso.
Nascosto in un angolo buio del corridoio, a tarda sera, aspettava; voleva risposte e, in un modo o nell'altro, le avrebbe ottenute.
Agathe lo impensieriva; la sua secondogenita non era mai stata la personificazione della calma e dell'equilibrio, certo, ma in quelle ultime ventiquattro ore il suo umore sembrava aver preso una piega allarmante.
La sera precedente l'avvocato, tornato a casa e parcheggiata l'auto nell'ampio garage, aveva trovato Agathe rannicchiata sul sedile dell'automobile che le aveva regalato quando aveva preso la patente, addormentata e ghiacciata fino al midollo. Confuso da quel comportamento, ma abbastanza furbo da intuire che doveva esserci qualcosa che non andava se sua figlia aveva deciso di rifugiarsi in auto, Evan l'aveva presa tra le braccia e l'aveva portata fino alla sua camera da letto stando attento a non svegliarla; lì aveva chiesto sottovoce a Mrs. Jules di spogliarla, metterla a letto e aggiungere una coperta perché si riscaldasse.
Evan era più che furbo: trent'anni di matrimonio con Gisèle gli avevano insegnato l'arte della sopravvivenza quando hai una donna arrabbiata sotto il tuo stesso tetto e avevano affinato il suo istinto. Dunque si era guardato bene dal fare ad Agathe qualsiasi domanda o dal citare il fatto di averla trovata addormentata in macchina.
Ma non porre ad alta voce le domande non significava non esserne assillati.
Tra un'udienza e l'altra, quel giorno, aveva chiamato casa svariate volte per sapere da Stevens e Mrs. Jules quale fosse la situazione.
Le risposte erano state sconfortanti.
Agathe sembrava essere diventata un fantasma. Non aveva pronunciato una sola parola né toccato cibo; appena rientrata dalla St. Margaret si era chiusa in camera sua e non ne era più uscita... se non si contavano le tre ore abbondanti che aveva trascorso piazzata sul balcone, intenta a scrutare l'otto.
E Agathe – Evan lo sapeva bene – era tutt'altro che un'eremita.
Un leggerissimo rumore lo riscosse: dei tonfi lievi e ritmici risuonavano nella casa immersa nel silenzio.
Qualcuno stava scendendo le scale.
Evan si ritrasse ancor più nell'ombra, ben deciso a non essere visto.
Pochi istanti più tardi, i piedi nudi di Agathe si posarono sul pavimento del piano terra; nonostante non ci fossero luci accese, la ragazza si diresse rapida e sicura nella biblioteca-studio di Evan. L'uomo vide un tenue chiarore filtrare attraverso la porta; un paio di minuti più tardi, la luce si spense e Agathe riattraversò il corridoio con una bracciata di libri stretti al petto e i lunghi capelli neri che le ondeggiavano sulla schiena.
Evan si accigliò. Sebbene il buio inghiottisse quasi del tutto la casa era riuscito a scorgere, anche se solo in modo vago, l'espressione di sua figlia, e non gli era piaciuta per niente. L'aveva trovata curiosamente bianca, come se ogni traccia d'emozione ne fosse stata lavata via; soltanto la bocca stretta in una linea quasi invisibile aveva tradito, agli occhi di Evan, l'inquietudine della diciassettenne.
L'avvocato scosse la testa tra sé. Quello che aveva visto gli confermava ciò che aveva già intuito la sera precedente: qualcosa turbava Agathe... ma in cosa consistesse quel qualcosa era una domanda senza risposta.
Sconsolato, l'uomo decise di andarsene a letto: forse il mattino avrebbe portato consiglio.
******
Il mattino seguente non portò consiglio a nessuno.
Evan, che aveva dormito poco e male, quando scese in cucina alle sei meno un quarto del mattino fu sconcertato nel trovarsi nuovamente davanti Agathe, con una tazza di caffè fumante in mano e un libro aperto di fronte a sé.
«Evan» salutò la ragazza con voce monocorde, senza distogliere lo sguardo dal suo libro.
Evan batté più volte le palpebre, sconcertato. La pelle innaturalmente cerea e le profonde occhiaie violacee tradivano come la notte precedente Agathe non avesse chiuso occhio, ma quello che all'uomo piacque ancor meno fu la voce di sua figlia: era troppo neutra, troppo priva di qualunque inflessione per essere naturale. E che proprio Agathe, sempre piena d'energia, sempre vivace ed eccessiva, apparisse all'improvviso tanto vuota e spenta, era un fatto che metteva Evan in allarme come poche cose erano mai riuscite a fare.
All'improvviso, Evan sentì il bisogno di riempire quel silenzio con qualcosa, qualunque cosa.
«Tu non hai dormito» disse in tono d'accusa, scrutando Agathe. «Non ti fa bene, passare tutta la notte sveglia».
«Avrò tempo per dormire quando sarò morta» replicò lei in tono piatto.
Evan rabbrividì suo malgrado.
«Agathe! Che cosa macabra da dire!» la redarguì secco.
Sua figlia scrollò le spalle e gli rivolse un'occhiata penetrante. «Perché mai, Evan? La morte è ineluttabile e, presto o tardi che sia, attende di cogliere ognuno di noi. Non ci vedo niente di macabro nel rammentarlo».
«Io sì» ribadì Evan. La guardò malissimo. «Non mi piace che la mia figlia adolescente parli di morte con una simile noncuranza!»
Agathe scrollò di nuovo le spalle. «Se questo è in grado di consolarti, stanotte non ho sentito piangere e strillare nessuna banshee: almeno per oggi dovrei essere al sicuro dalla Nera Signora. Fino a domani puoi stare tranquillo».
«Agathe!» mugghiò Evan. Si mise la mani nei capelli e mosse qualche passo nervoso lungo la cucina, mentre Agathe non lo degnava di uno sguardo. «Maledizione!». Mugugnò ancora qualcosa d'incomprensibile prima di alzare le braccia al cielo con un gesto brusco. «Maledetto, sia maledetto lo spirito irlandese degli O'Brien che vi porta a questi pensieri!» gridò.
La diciassettenne lo guardò piegando appena la testa di lato.
«Via, Evan, come sei drastico» lo blandì. «Vedila così: lo spirito irlandese degli O'Brien ci aiuta ad avere una mente aperta a tutto e pronta più di molte altre a metabolizzare qualsiasi argomento, anche quelli tabù. È sinonimo, se vuoi, di una spiccata intelligenza. Non trovi che sia un modo molto migliore di vedere la cosa?»
«Trovo che sia un modo molto comodo di vedere la cosa» sibilò di rimando suo padre.
«Forse» concesse Agathe. «Ma, in fin dei conti, non importa come tu la veda: è la mia opinione e tale resterà». Abbassò di nuovo lo sguardo sul libro e voltò una pagina. «Passa una buona giornata, Evan» concluse prima di portarsi la tazza alle labbra.
L'uomo trasecolò. Sua figlia l'aveva appena congedato... e con un'indifferenza da far spavento, neanche fosse stata una gran dama e lui un valletto!
Per qualche istante Evan fissò Agathe, boccheggiante e incerto sul da farsi. Una gran parte di lui era indignata per quel trattamento e bruciava dalla voglia di rimettere la ragazza al suo posto... ma quale posto, poi? La parte razionale della sua mente lo riportò alla calma. Non poteva certo costringere chicchessia a parlare con lui; e, fu costretto ad ammettere a se stesso, se Agathe avesse congedato chiunque altro in quel modo così freddo ma socialmente ineccepibile, non avrebbe suscitato in lui risentimento, bensì approvazione.
Sconfitto, l'avvocato si riempì la prima tazza di caffè della giornata e si ritirò nel suo studio: in presenza di quella Agathe di marmo non ci voleva proprio stare.
******
Villa Prescott era immersa nel silenzio; l'unico suono a farsi strada tra i corridoi e le stanze deserte era il ticchettare della grossa pendola che da oltre cinquant'anni segnava l'ora nell'ingresso.
In biblioteca, seduto sulla soglia di una delle tante finestre, Richard guardava senza vederlo il prato circolare di fronte alla casa.
Lo storico non riusciva ancora a credere a come la sua esistenza – più o meno tranquilla – fosse stata sconvolta tanto in fretta. Neanche due giorni prima, Agathe era seduta alla sua scrivania e riempiva la stanza con il suo sarcasmo e la sua risata cristallina; e adesso, poco più di ventiquattro ore dopo, quella stessa stanza gli sembrava fredda e ostile, svuotata com'era della presenza della diciassettenne.
Richard sospirò e appoggiò la fronte sul vetro freddo mentre sentiva il peso che da trentasei ore gli gravava sul petto diventare ancor più opprimente. Casa sua era quieta, ma lo sarebbe rimasta ancora per poco; a un certo punto Valentine si sarebbe svegliata e lui non aveva la minima idea di cos'avrebbe dovuto fare.
Il ritorno inaspettato della sua ex fidanzata aveva fatto più che prenderlo di sprovvista; aveva letteralmente annullato le sue capacità cognitive. Altrimenti, come avrebbe potuto spiegare la passività con cui le aveva permesso di riprendere possesso della sua casa senza opporre la minima resistenza? Certo, Valentine era sempre bella, sempre sensuale, sempre ammaliante, proprio come la ricordava... eppure, tutti quei tratti che in passato l'avevano conquistato al punto da fargliela quasi vedere come la futura Mrs. Prescott, all'improvviso gli apparivano scialbi e vuoti.
Richard si sistemò meglio contro la finestra e si grattò il mento. Valentine sembrava esattamente la stessa, dunque doveva essere lui quello diverso. Cos'era cambiato?
I tuoi occhi sono cambiati, sussurrò una voce non invitata nella sua mente. Vedi quel che prima non riuscivi a cogliere neanche se ce l'avevi a un palmo dal naso.
Richard trasalì. Era vero: la vicinanza con Agathe e con la sua spontaneità gli permettevano ora di vedere come Valentine ne fosse, al contrario, totalmente priva. Gli bastò ripensare a quanto era accaduto due giorni prima: l'ingresso di Valentine in casa sua, ogni movimento, ogni parola, ogni gesto era stato calcolato per ottenere il risultato che voleva, cioè stabilirsi di nuovo a Villa Prescott.
L'uomo si premette una mano sulla bocca per arginare un'improvvisa ondata di nausea. Si era fatto raggirare come il peggiore degli sciocchi; aveva permesso che la sorpresa di ritrovarsi in casa una persona che credeva uscita per sempre dalla sua vita annebbiasse la sua razionalità e smussasse la sua capacità di osservazione, di solito tanto affilata e penetrante.
Tanto intelligente eppure tanto facile da ingannare, bisbigliò impietosa la stessa voce di poco prima.
Un rumore sordo lo riscosse; Richard si alzò di scatto, andò quasi di corsa alla porta della biblioteca e la chiuse con due mandate mentre sentiva, in lontananza, Valentine alzarsi dal letto e iniziare a prepararsi per la giornata mentre cantava a squarciagola.
Fu oltre un'ora più tardi che qualcuno provò ad aprire la porta.
«Richard? Richard, amore?» chiamò Valentine dal corridoio. La maniglia si abbassò invano mentre la donna scuoteva una seconda volta il battente nel tentativo di entrare. «Richard, esci di qui e vieni con me» cinguettò. «Ho voglia di qualcosa di speciale, per colazione...» aggiunse suadente.
Richard rabbrividì e scrutando il proprio riflesso sulla finestra, colse l'espressione men che lieta che d'istinto gli si era dipinta sul volto. Per la prima volta da quando l'aveva conosciuta, l'idea di fare sesso con Valentine lo ripugnava; avrebbe voluto che la donna sparisse dalla sua vita con la stessa rapidità con cui vi era tornata, eppure qualcosa frenava quel flebile desiderio di scaraventarla di peso fuori da casa propria.
Era l'abitudine, rifletté lo storico; la sua abitudine di risolvere ogni problema con la sola abilità dialettica e il profondo – forse fin troppo profondo – senso del rispetto per le donne che suo padre gli aveva inculcato sin dalla più tenera età, lo bloccavano più efficacemente di una catena e lo rendevano inerme.
«Bell'uomo sei» mormorò tra i denti, rivolto a se stesso. «Incapace persino di riappropriarti della tua casa».
«Richard?». Forse Valentine l'aveva sentito, o forse no; in ogni caso, sembrava essere ancora appostata dietro la porta. «Allora, vuoi deciderti a uscire?»
L'uomo si tirò i capelli e strizzò le palpebre.
«Vattene, Valentine!» ringhiò.
Persino da dove si trovava, riuscì a sentire la donna che sbuffava.
«Me ne vado, ma sono già due notti che dormi in biblioteca e non potrai stare chiuso lì dentro per sempre» rispose infine. «Prima o poi dovrai uscire, Richard!»
Richard non rispose. Tornò a guardare fuori dalla finestra; e quando finalmente vide Valentine lasciare la sua proprietà e quasi scontrarsi con Agathe, chiuse gli occhi, maledicendo il pessimo tempismo della sua ex fidanzata.
******
Agathe non riusciva a credere alla propria sfortuna.
Dopo aver mandato un messaggio a Lara con cui le diceva che si sarebbero viste direttamente a scuola, la ragazza era uscita di casa e aveva preso la sua solita strada verso la St. Margaret, convinta che una camminata in solitudine l'avrebbe aiutata a calmarsi abbastanza da affrontare la giornata.
Purtroppo per lei, riuscì a malapena ad arrivare sotto Villa Prescott quando il cancello si aprì; Valentine ne uscì in tutta fretta e solo per un soffio le due donne non si scontrarono.
Valentine la scrutò con una smorfia sul volto e il naso per aria.
«Vuoi stare attenta a dove vai, mocciosa?» sbottò. La guardò meglio e parve riconoscerla. «Di nuovo tu!». Socchiuse gli occhi e la fissò, mentre la smorfia sul suo volto si accentuava ancora di più. «Che ci fai ancora qui?»
Agathe la squadrò dall'alto in basso.
«Io qui ci abito» rispose tra i denti. «E faccio questa strada da più di tre anni, quindi non vedo come la cosa la riguardi».
L'altra donna le rivolse uno sguardo carico di sospetto.
«Attenta a te, ragazzina» sibilò, agitandole contro un dito. «Richard è mio».
Agathe scoppiò in una risata priva di divertimento.
«Non si preoccupi: non nutro alcun desiderio di avere a che fare con quel bamboccio senza spina dorsale. Se lo tenga pure, che io di sicuro non glielo tocco!». Già stanca di quella schermaglia verbale, la diciassettenne piantò l'avambraccio contro il diaframma di Valentine e la spinse via con decisione. «E adesso, addio».
La ragazza superò Valentine ma, prima di allontanarsi non poté trattenersi dal lanciare un rapido sguardo alle finestre di Villa Prescott.
Erano vuote.
Furiosa con se stessa per quel momento di debolezza, Agathe riprese la propria marcia verso la scuola, le braccia rigide lungo i fianchi e le mani strette a pugno. Cosa le importava di Richard Prescott? Niente; niente era la risposta, l'unica risposta giusta. Lei e quell'uomo non avevano, né avrebbero mai avuto, nulla da spartire.
Quindi, prima se lo toglieva dalla testa, meglio era.
******
Al sicuro nella sua biblioteca, Richard si passò una mano sul volto, disgustato dal proprio comportamento.
Se fino a qualche minuto prima pensava di aver toccato il fondo, barricandosi in una stanza della sua stessa casa pur di sfuggire alla propria ex fidanzata, adesso doveva ricredersi e ammettere di avere un nuovo motivo, e ben più valido, per vergognarsi di se stesso.
Perché nascondersi dietro la tenda per paura che Agathe potesse alzare lo sguardo e vederlo era decisamente peggio che rinchiudersi da qualche parte per evitare Valentine.
Era un comportamento indegno di lui; era, ammise l'uomo a se stesso, da vigliacchi.
Eppure, l'aveva fatto; e quel che era peggio, quando – sbirciando tra la tenda e il muro – aveva visto Agathe far saettare lo sguardo verso la villa, si era sentito sollevato all'idea di essersi nascosto per tempo.
Doveva aver sbagliato qualcosa, a un certo punto, nelle ultime settimane... altrimenti lo scivolare in quei comportamenti che non gli erano mai appartenuti e quel senso di colpa che gli pesava sullo stomaco non si spiegavano.
Sì, era certo: aveva sbagliato qualcosa... e aveva sbagliato in modo plateale.
Con un gemito inarticolato, Richard sferrò un pugno alla parete prima di appoggiarvi la testa e chiudere gli occhi.
Un problema alla volta. Doveva affrontare un problema alla volta.
Con una nuova determinazione, l'uomo uscì a grandi passi dalla biblioteca: recuperare i propri averi dalla camera padronale era la prima cosa da fare.
E chissà che sistemarsi in una camera da letto priva di Valentine e concedersi qualche ora di sonno non lo aiutasse a trovare una soluzione a tutto il resto.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro