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Sixteenth Shade [R]

Evan Williams era sempre stato mattiniero: d'altra parte il suo studio legale si trovava a Londra e spesso le udienze a cui doveva prendere parte venivano fissate molto presto, quindi poltrire a letto era impensabile. Alzandosi così di buon'ora, l'avvocato si era abituato a fare colazione da solo – colazione che spesso consisteva in una semplice tazza di caffè che si preparava personalmente – e quando arrivò in cucina, fu sorpreso di trovare la luce già accesa.

«Buongiorno» lo accolse sua figlia, appollaiata sul bancone della cucina con una tazza di caffè tra le mani e l'aria vispa.

«Che ci fai già in piedi?» le chiese Evan: erano solo le sei del mattino e di solito Agathe non si alzava prima delle sette.

La ragazza si strinse nelle spalle.

«Non riuscivo a dormire e ho pensato che tanto valeva studiare» spiegò. In fondo non era una bugia: tornata da Villa Prescott, il pensiero di quello che era successo le aveva riempito la mente di domande al punto da tenerla sveglia per tutta la notte, e lei aveva deciso di portarsi avanti con lo studio.

Evan le si avvicinò e le posò il dorso della mano sulla fronte. «Ti senti male?» le domandò, un po' preoccupato.

Agathe alzò gli occhi al cielo e scosse la testa con aria di sopportazione. «Sto benissimo».

«Non per molto, se non perdi il vizio di andare in giro scalza» replicò Evan, indicandole i piedi nudi. «Agathe, è autunno e fa freddo: dovresti davvero abituarti a usare le pantofole o finirai per prendere un'influenza coi fiocchi».

«Dopo vado su e le prendo» promise la ragazza. Giocherellò con la tazza bollente, pensosa. «Posso chiederti una cosa?»

Suo padre la guardò con un pizzico di sospetto. «Chiedi pure».

Agathe dondolò i piedi e prese fiato. «Cosa sai di Richard Prescott?»

Evan batté le palpebre un paio di volte, certo di non aver capito bene, poi strinse appena gli occhi. «Perché mi chiedi di lui?»

Sua figlia scrollò le spalle con un gesto goffo. «L'ho visto a scuola un paio di volte, nelle ultime settimane, e mi sono incuriosita» disse. «Miss King sembra innamorata di lui» aggiunse con una smorfia.

Pensieroso, Evan si avvicinò al bricco di caffè ancora caldo e se ne versò una tazza. «Richard Prescott è difficile da descrivere» esordì. «Lo si potrebbe definire eclettico: ha molti interessi e si occupa di molte cose diverse. Possiede o ha partecipazioni in varie attività: un quotidiano, una casa editrice e un'agenzia di assicurazioni, tra gli altri, e nel tempo ha acquisito quote importanti di parecchie aziende, ma non conosco tutti gli affari in cui è coinvolto, sono fin troppi».

«E a parte il lavoro?» insisté Agathe. «Io so solo che scrive libri di storia, nonna Penelope mi ha fatto una testa così su quanto sia bravo e me ne ha anche regalato uno».

«Sì, Prescott nasce prima di tutto come storico» confermò Evan, appoggiandosi al tavolo. «Per quello che ne so, ha studiato Letteratura e Storia al college e a venticinque anni ha pubblicato il suo primo libro; dopodiché si è dato alla sociologia e all'antropologia, più per diletto che altro. Si diverte ad analizzare le persone ed è indubbio che questa capacità sviluppata negli anni gli sia stata d'aiuto anche negli affari. Per il resto non è che si sappia molto, di lui: è un uomo terribilmente riservato». Evan le fece l'occhiolino. «Certo, la cosa per cui Prescott è famoso, qui a Hersham, è un'altra».

«E cosa?» chiese Agathe, più curiosa che mai. Suo padre la guardò, confuso.

«La biblioteca, no?»

«Quale biblioteca?»

Evan rivolse a sua figlia uno sguardo a metà tra il perplesso e il sospettoso. «La biblioteca della St. Margaret, Agathe».

Agathe era più confusa di suo padre. «E allora?»

«Quell'ala della scuola andò a fuoco, alla fine del 1997, e la vecchia biblioteca fu completamente distrutta. Richard Prescott ne sovvenzionò la ricostruzione di tasca propria, fino all'ultima sterlina, ed è grazie a lui se gli studenti della St. Margaret degli ultimi quindici anni hanno avuto quella splendida biblioteca a disposizione» spiegò Evan. «Ci sarebbe dell'altro, ma su questa cosa Prescott ha chiesto il più assoluto riserbo; persino io l'ho scoperto per puro caso, quindi mi aspetto che rimanga tra me e te» aggiunse l'uomo. «E Lara, tanto so che glielo diresti comunque, ma non dovrà saperlo nessun altro». Attese che Agathe annuisse prima di proseguire. «Da quel giorno, ogni tre mesi, Prescott fa delle generose donazioni alla St. Margaret affinché la biblioteca venga mantenuta e migliorata e nuovi libri aggiunti a quelli già presenti. Quella scuola ha preso una montagna di soldi da lui».

Per un motivo che Evan non comprese, il volto di sua figlia divenne dapprima paonazzo e pochi istanti più tardi impallidì per poi arrossire di nuovo. «Agathe, che hai?»

Lei respirò a fondo. «Niente. Scusami, stavo solo pensando». Di nuovo calma – almeno in apparenza – gli rivolse un bel sorriso. «Grazie papà».

Entrambi tacquero per un attimo.

«P-papà» ripeté Evan, inciampando su quella semplice parola. «Erano anni che non mi chiamavi così» aggiunse piano.

La ragazza scrollò le spalle e abbassò lo sguardo. «Erano anni che non sentivo di farlo».

Suo padre la fissò; per un attimo dondolò sui talloni e sembrò volesse avvicinarsi a lei, ma restò piantato dov'era. Si schiarì la voce un paio di volte e si guardò intorno.

«Era da tanto tempo che non parlavamo così... così» disse infine l'avvocato. «Da quando Ben si è trasferito a Londra e ha iniziato a lavorare per lo studio, credo. Dovremmo farlo più spesso...»

«Forse le sei del mattino è una buona ora per parlare» convenne Agathe. «O magari è l'assenza di Gisèle a rendere tutto più semplice».

Evan si accigliò. «Proprio non ci riesci, a chiamarla 'mamma'?» sbottò. «Io davvero non capisco per quale motivo ci tratti e ti riferisci a noi come se fossimo degli estranei; siamo i tuoi genitori, ti vogliamo bene e...». Evan s'interruppe, conscio di aver appena messo piede in un campo minato: non che Gisèle non volesse bene ai loro figli, ma ogni volta che aveva a che fare con Benedict e Agathe – o con lui stesso – c'era quel retrogusto di astio che inevitabilmente creava un muro tra loro e la donna.

«No, non ci riesco» rispose Agathe in tono piatto.

«Non ce l'avrai ancora con lei per averti cacciata di casa durante il temporale!» esclamò Evan. «Insomma, non che tu abbia torto, ma sono passate settimane, Ura» proseguì con voce addolcita, chiamandola col diminutivo del suo secondo nome: era l'unico a usare quel nomignolo. «Non potresti lasciar perdere?»

«Non è solo per quello» mormorò Agathe. D'istinto si strinse nelle spalle e prese a torturare con le dita l'orlo della manica sinistra: in quel momento, infilata nel suo pigiama azzurro con aria mesta, a Evan sembrava di rivederla bambina. «Papà, come fai a sopportarla?» gli chiese.

Evan posò la tazza quasi vuota sul tavolo e si sistemò la giacca con un gesto meccanico. «Tua madre non è stata sempre così» disse. «Quando l'ho conosciuta avevo ventitré anni e lei diciotto, ed era la creatura più meravigliosa che avessi mai visto: bellissima, allegra, solare... era come una giornata di maggio. Mi innamorai di lei». Vide l'espressione scettica di sua figlia e sospirò. «Ma quando rimase incinta di Benedict... aveva diciannove anni, non l'avevamo programmato, non avevamo ancora mai neanche parlato di matrimonio e lei si convinse che diventare madre non le avrebbe mai permesso di realizzare le proprie ambizioni lavorative. E anche se alla fine il tempo l'ha smentita...». Evan deglutì. «La donna di cui mi ero innamorato si era come spenta, ma mi aveva donato un figlio, un bambino meraviglioso, e poi sei arrivata tu e... come potrei non amarla? Grazie a lei ho te e Benedict» concluse.

«Ma lei non ci ama» pigolò Agathe.

Evan l'abbracciò. «Oh, Ura, certo che ci ama. Solo che non sa come dimostrarlo». Sentì Agathe tirare su col naso e le accarezzò i capelli due o tre volte con mano incerta.

«Non ci voleva. Né me, né Benedict» disse la ragazza. Si morse le labbra per un istante nel tentativo di mantenere salda la voce: non aveva intenzione di piangere... o quantomeno, non aveva intenzione di farlo in presenza di nessuno, neanche di suo padre. «Una volta l'ho sentita parlare con Séline, credevano fossi in camera mia e io invece ero scesa per andare in cucina...». Agathe esitò prima di proseguire. «Diceva che la nascita di Benedict aveva stravolto tutti i suoi piani, che aveva dovuto rinunciare alla propria giovinezza a causa sua ma che almeno Ben era un bambino tranquillo e non la infastidiva troppo... e che quando finalmente la sua vita iniziava ad andare nel verso giusto... sono nata io, e... e che starmi dietro era talmente faticoso che la mia nascita le aveva definitivamente rovinato la vita...». Agathe s'interruppe e scoppiò a piangere.

Evan strinse più forte sua figlia, senza sapere cosa dire o fare per rincuorarla, perché purtroppo tutto quello che aveva detto corrispondeva al vero. Quando aspettavano il loro primo figlio Gisèle era arrabbiata e scontenta ed Evan poteva capirla, in una certa misura: era poco più che adolescente e si era ritrovata incinta, e questo avrebbe sconvolto chiunque. Quando però, dieci anni dopo la nascita di Benedict, era stata concepita Agathe – concepimento, come quello di suo fratello, non programmato – Gisèle era stata, se possibile, ancor più irritata, tanto che Evan, in un disperato quanto futile tentativo di placare la rabbia continua di sua moglie, le aveva dato libertà di scelta su tutta una serie di cose, non ultimo il nome della nascitura, riservandosi di scegliere il secondo nome della bambina.

«Shhht... shhht, buona, bambina mia, buona» mormorò Evan, strofinando una mano sulla schiena della sua secondogenita. Poco alla volta, i singhiozzi di Agathe si placarono.

«Scusa» borbottò contrariata; si asciugò gli occhi con la manica e osservò con disappunto la chiazza umida che le sue lacrime avevano lasciato sulla spalla di suo padre. Tentò con scarso successo di spazzolare via le lacrime dalla costosa giacca di Evan. «Ti ho inzuppato peggio che se ti avessi tirato una secchiata d'acqua».

L'uomo le schioccò un grosso bacio sulla fronte. «Non dire sciocchezze, Ura». Evan finì di bere il proprio caffè. «Però non piangere per queste cose, non ce n'è motivo. Gisèle è... be', Gisèle è Gisèle, ma io e Benedict ti vogliamo bene, e anche nonna Penelope te ne vuole, quindi non essere triste».

Agathe annuì e si strofinò le guance per eliminare le ultime tracce di lacrime. «A proposito di Ben... tra poco è il suo compleanno».

«Sto organizzando una cena. Una cosa intima, riservata» rispose suo padre mentre s'infilava il soprabito. «Però non so cosa regalargli».

«Io un'idea ce l'ho» replicò Agathe. «Ho parlato con Ben, un paio di giorni fa, e mi ha assillata per mezz'ora parlandomi di un completo di Armani. Se n'è innamorato, ma è della nuova collezione e costa una cifra spropositata. L'ho convinto a non comprarlo spiegandogli che a un completo del genere poi avrebbe dovuto abbinare le scarpe giuste...»

«Una camicia di pregio, un'ottima cravatta, un soprabito di alta qualità...» proseguì Evan. «Sì, ho capito. Pensi che potremmo regalarglielo noi?»

Agathe sorrise. «Ho parlato con Myra...»

«Quella ragazza è una santa» la interruppe Evan, sbuffante. «Solo lei può sopportare tuo fratello e non prendersela a male del fatto che dopo quattro anni insieme, di cui due di convivenza, lui ancora non le abbia chiesto di sposarlo!»

La diciassettenne alzò gli occhi al cielo. «Non lo so, papà. Myra è un tesoro, ma è un po' troppo... placida, ecco. Le manca un po' di vitalità» ribatté. «Tornando alle cose importanti, le ho parlato e abbiamo pensato che potremmo fare dei regali "collegati": tu e Gisèle gli regalate il famoso completo, lei ha detto di aver già visto una camicia e una cravatta sempre di Armani perfetti per quel completo e io e nonna Penelope potremmo pensare a scarpe e soprabito. Che ne dici?»

«Dico che mi hai risolto un problema» rispose suo padre. «Puoi pensare tu a comprare anche il completo? Io non so quando andarci senza farmi scoprire da Ben e tua madre è talmente nervosa che non ho voglia di affrontarla».

«Nonna Penelope andrà in brodo di giuggiole: lo sai che va matta per lo shopping». Agathe scosse lentamente il capo. «Ci andrò domani: conoscendola, ci vorrà almeno mezza giornata perché riesca a scegliere».

«Non parlar male delle manie di perfezionismo della tua bisnonna: è anche quello a spingere noi Williams sempre più in alto». Evan le scoccò un altro bacio sulla fronte. «E poi, puoi sempre approfittarne per farti fare un paio di regali: così almeno ci guadagni qualcosa!» sghignazzò.

«Se ne esco viva!»

«Avanti, Ura, non essere disfattista: la tua bisnonna non è poi così male».

«Infatti è anche peggio!»

«In tal caso, meglio tu che io». Evan rivolse alla figlia un sorriso sornione. «Ora vado, ho una causa alle otto e si sta facendo tardi. Ci vediamo stasera, Ura».

Agathe gettò indietro la testa e mugugnò qualcosa di incomprensibile, irritata che suo padre fosse riuscito a scaricarle quell'uscita con Penelope. «A stasera, papà».

******

Un'ora e mezza più tardi, Agathe uscì di casa a passo di marcia e percorse l'otto con gli occhi fissi in avanti, decisa a non guardare neanche di sfuggita Villa Prescott. Arrivata di fronte al cancello della sua migliore amica, incollò il dito al campanello e ce lo tenne finché la testa di Damon non fece capolino da una finestra del primo piano.

«La mia figlia ufficiosa!» salutò a gran voce. «Che ci fai qui?»

«Mi serve tua figlia, quella ufficiale» replicò Agathe con tutto il fiato che aveva in gola. «Mandamela giù!»

Un minuto più tardi, Agathe sentì la porta d'ingresso aprirsi e la voce della sua migliore amica brontolare a tutto spiano.

Lara aprì il cancello e si appoggiò allo stipite della porta, le braccia incrociate sul petto: aveva l'espressione aggrondata sotto una nuvola di capelli sparati in tutte le direzioni, i primi bottoni della camicia slacciati e la cravatta ancora da annodare buttata sulla spalla.

«Will» esclamò secca Lara a mo' di saluto quando l'altra la raggiunse. «Che vuoi così presto?»

«Ti devo parlare» rispose sbrigativa Agathe.

«Ma va'?» disse sardonica l'altra. «Ripassa tra mezz'ora, cioè all'orario in cui ci vediamo di solito».

Lara girò sui tacchi e fece per andarsene; prima che potesse muovere più di un passo, però, la sua migliore amica l'agguantò per un polso e la trascinò in casa.

«Ehi!» protestò Lara; provò a puntare i piedi a terra, ma Agathe la tirò avanti con uno strattone. «Che vuoi fare?»

La sua migliore amica le lanciò la giacca e la borsa dei libri; Lara ebbe appena il tempo di infilarsi la prima, che l'altra si era già riappropriata del suo braccio e la stava portando praticamente di peso oltre il cancello, verso la strada.

«Ti devo parlare» ripeté Agathe.

«Ma io devo pettinarmi!»

«Puoi farlo a scuola».

«E la colazione?»

«Te la offro io».

«Ma insomma, si può sapere che è successo di tanto grave?» esplose Lara.

Prima di rispondere, Agathe si guardò intorno per assicurarsi che non ci fosse nessun altro nei paraggi mentre la spingeva in direzione del Jean's Haven.

«Stavolta mi sa che ho fatto un casino...»

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