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Fifty Ninth Shade [R]

Il ritorno a Hersham era stato spudoratamente allegro sia per Agathe che per Richard.

Dopo essersi di nuovo separati, in quel corridoio buio nel pub a Roma, ognuno aveva continuato la propria vita come se non si fossero mai ritrovati: la ragazza era tornata da Jacques e quella notte stessa i due avevano preso il primo volo per Londra, mentre Richard aveva ripreso il proprio posto tra i colleghi romani, più allegro che mai.

Jacques non aveva fiutato niente di strano in sua nipote. Camila invece aveva notato subito che c'era qualcosa di diverso in Richard, ma non era riuscita a capire cosa, e la curiosità la stava divorando. Eppure non ebbe modo di parlarne con lui, né di chiamare Alan: Richard infatti l'aveva sommersa di lavoro al punto da lasciarle a stento il tempo di dormire e, non appena aveva terminato il ciclo di conferenze per cui si era accordato con Loretti, l'aveva costretta a fare di nuovo armi e bagagli in tutta fretta.

Stavolta, però, la destinazione stupì Camila.

«Heathrow?» chiese sospettosa quando scesero dall'aereo. «Stiamo facendo scalo per dove?»

«Nessuno scalo» rispose placido Richard, guidandola verso il nastro trasportatore per recuperare i loro bagagli. «Ci fermiamo. Si torna a casa!»

La donna lo guardò con tanto d'occhi. «A Hersham?» balbettò.

«Proprio là. Tu, se vuoi, puoi sistemarti a Londra, in uno degli appartamenti di proprietà dell'azienda» disse Richard, allegro come quasi mai l'aveva visto.

«M-ma io... io credevo che lei... non volesse tornare» farfugliò ancora Camila.

«Ho cambiato idea» rispose serafico l'uomo.

Camila si schiaffò una mano sul volto, incredula ed esausta: proprio non riusciva a capirlo. Ma quantomeno, il loro folle girovagare era finito.

«Niente più voli ogni tre giorni?» chiese speranzosa, rialzando lo sguardo su Richard.

«Niente più voli ogni tre giorni» confermò lui, scatenando un'ondata di incredula felicità nella sua collaboratrice.

Divertito, Richard sorrise tra sé. Adesso che era tornato, non doveva fare altro che incontrarsi con Agathe senza che Alan lo venisse a sapere e insieme a lei elaborare la vendetta che il suo indiscreto amico e l'altrettanto invadente Jacques Dubois meritavano.

******

Da quando era tornata a casa, Agathe aveva sbirciato Villa Prescott almeno quattro volte al giorno, aspettando nervosamente che le mostrasse un qualunque segno di vita: era impaziente non solo di rivedere Richard – in fondo non era del tutto certa che lui l'avesse perdonata, e si aspettava che una volta smaltita la rabbia che nutriva verso Alan e Jacques tornasse ad avercela con lei – ma anche, appunto, di dimostrare in modo chiaro e inequivocabile a quei due ficcanaso che nessuno poteva impicciarsi impunemente degli affari suoi.

Fu quindi con un sorriso per metà felice e per metà cospiratore che scorse il familiare luccichio del binocolo dietro i vetri della biblioteca di Prescott.

Richard, da parte sua, aveva intravisto la testa di Agathe fare capolino dall'angolo del balcone: dunque mise via il binocolo dopo avergli riservato un gesto affettuoso – era da non credere, quanto gli fossero mancati gli appostamenti dietro le finestre! – e scese al pianoterra, in attesa della ragazza.

Agathe non si fece attendere: dieci minuti più tardi la porta sul retro si chiuse con uno scatto soffocato della serratura e la diciottenne fece il proprio ingresso in cucina, dove due tazze di the fumante erano appoggiate accanto ai fornelli.

«Allora, Prescott» disse Agathe, tornando all'uso del cognome, e saltellò nella stanza come se avesse avuto l'argento vivo addosso. «Pronto a tramare nell'ombra?»

L'uomo trattenne un sorrisetto. «Sì, Miss Williams» rispose. Porse una tazza ad Agathe, che l'accettò con un versetto compiaciuto. «Allora, hai già avuto qualche idea?»

«Io ho avuto un mucchio di idee» lo corresse lei, sdegnosa. «Noi Williams abbiamo un certo talento per le vendette: sospetto sia il retaggio del ramo irlandese della famiglia!»

Richard soffocò una risata. «Se ti sentisse Penelope» si limitò a dire.

«Si vanterebbe come un pavone che fa la ruota» replicò Agathe. «Va molto fiera della sua mente contorta, la cara Penny!»

Inarcando un sopracciglio, Richard incrociò le braccia al petto. «Sei certa che nessuno ti abbia vista?»

Agathe sbuffò indignata. «Secondo te perché ci ho messo tanto ad arrivare?» ribatté piccata. «Ho fatto il giro passando all'esterno dell'otto e ho aggiunto qualche deviazione. Meglio di così non si poteva!». Incrociò a sua volta le braccia e fissò il padrone di casa con aria di sfida. «Pensiamo alle cose serie. Ti va uno scambio?»

«Cioè?». L'uomo era comprensibilmente sospettoso: non aveva dimenticato il soprannome che lui stesso le aveva affibbiato, e non era certo di essere già pronto ad affrontare di nuovo le diaboliche trovate della sua Satana in gonnella.

«Io organizzo la vendetta diretta ad Alan e tu quella contro Jacques» spiegò Agathe, un luccichio pericoloso negli occhi. «Poi ce li scambiamo di nuovo: tu assisti al colpo basso che organizzerò per il nostro caro ficcanaso e io alla punizione che tramerai contro mio nonno». Arricciò il naso, palesemente fiera di sé, e Richard la trovò inquietante e magnifica al tempo stesso. «Allora, Prescott: ci stai?»

Lui sollevò il mento in un gesto altezzoso. «Ci sto» rispose. «Adesso parlami di tuo nonno: ho bisogno di trovare il suo punto debole!»

Agathe sorrise malandrina. «Solo se sei pronto a sapere cos'ho pensato per Alan».

******

Richard sedeva in una poltrona in casa di Alan e ascoltava l'amico starnazzare eccitato come un bambino la notte di Natale.

«Ti rendi conto? No dico, ti rendi conto? Questa è stata la settimana più bella della mia vita!» gnaulò estatico il giornalista. Da quando Richard era tornato, appunto una settimana prima, era la prima volta che avevano occasione di vedersi. O meglio, lo storico aveva scelto quella sera per farsi finalmente vivo. «Una foto inedita del vestito che indosserà la moglie del Primo Ministro al prossimo ballo dato dai conservatori, la scoperta della relazione extraconiugale della regina dei salotti britannici con un personal trainer più giovane di lei di trent'anni, l'imminente bancarotta della più importante azienda produttrice di sottaceti del Paese e per finire la gravidanza segreta di una pop star!». Alan sospirò languido, gli occhi socchiusi. «Tutti scoop, tutti miei! Il mio capo ha deciso di far uscire un inserto speciale solo per le esclusive che ho scovato. Avrò un aumento. La direzione della rivista. Vincerò premi, si parlerà di me in tutto il mondo...» proseguì con aria sognante.

«Tutto questo per degli articoli scandalistici?» intervenne scettico Richard, restando inascoltato.

«Sta andando in stampa proprio in questo momento» esalò il giornalista, quasi commosso.

«E gli altri articoli che ti avevano chiesto?» chiese il suo amico.

Alan sembrò riscuotersi dalle proprie fantasticherie. «Quelli sono stati inseriti nella rivista, come al solito. Il direttore li avrebbe messi nello speciale, ma si sarebbe ritrovato con dei buchi e non sapeva come riempirli».

«Capisco» disse soltanto Richard, placido.

Pochi istanti più tardi, il telefono fisso suonò.

«Pronto?» disse garbato Alan, rispondendo alla chiamata. Il suo volto s'illuminò. «Direttore, buonasera! A cosa devo il piac...»

Alan tacque di botto e impallidì visibilmente. Deglutì a vuoto un paio di volte mentre Richard poteva sentire, fin da dove si trovava, le urla furibonde che uscivano dall'apparecchio. Poi il giornalista si schiarì la voce.

«Direttore, io... io n-non... non c-capisco» balbettò. L'altoparlante del ricevitore vomitò altre urla assordanti. «Che... che significa... che le notizie sono false

Ancora altre grida furiose. Alan staccò per qualche istante l'orecchio dal telefono, in attesa che scemassero. «Ma io... io non capisco!» ripeté in tono di supplica. «Le fonti erano attendibili, vicine agli interessati... ho verificato, ho avuto documenti...». L'ennesimo scoppio d'ira dell'interlocutore lo zittì. «Ero certo della veridicità delle notizie! Mai ho pubblicato notizie false, lo sa benissimo!». Il direttore della rivista per cui Alan lavorava più assiduamente blaterò qualcos'altro e le ginocchia del giornalista tremolarono come gelatina. «Come, licenziato?» guaì. Tacque per un istante e fissò con occhi stralunati il ricevitore del telefono che ancora teneva in mano: il suo capo gli aveva appena chiuso la chiamata in faccia.

Alan barcollò verso la poltrona più vicina e vi si lasciò cadere.

«Licenziato, sono licenziato!» disse in tono lamentoso a nessuno in particolare. Si coprì il volto con le mani, disperato. «Capisci? Tutti quegli scoop per cui ero tanto felice... tutte montature! Tutte menzogne!»

Richard fissò Alan senza alcuna pietà, poi la sua espressione si ammorbidì un po' e si sporse a dare un paio di pacche consolatorie sulla spalla dell'amico. «Via, via, non fare così. Sono cose che capitano. Troverai un'altra rivista con cui collaborare...»

«Non capisci?» scattò l'altro, che la disperazione per l'accaduto aveva reso incline all'ira. «Nessuno accetterà più un articolo scritto da me! Tutti mi riterranno inaffidabile, un cialtrone... la mia carriera è rovinata! Distrutta! Finita!». Evitò Richard, che tentava di consolarlo. «Vattene, Richard. Ho bisogno di stare da solo» disse secco.

Con una scrollata di spalle, Richard recuperò la propria giacca e fece come gli era stato chiesto. Mentre si chiudeva il cancello alle spalle sentì, forte e chiaro nonostante mura e finestre, il trillare del telefono dell'amico e pochi istanti dopo la sua voce furiosa.

«Direttore! Che significa, che Agathe Williams mi porge i suoi ossequi

******

Jacques Romain Dubois in passato era stato uno dei migliori professori di storia dell'arte dell'intera Francia. Tuttora spendeva parte del proprio tempo scrivendo articoli come critico d'arte per numerose riviste specialistiche del settore e in occasione di svariate mostre.

La sua vera passione però, quella in cui aveva convogliato la maggior parte del proprio impegno da quando aveva smesso di insegnare, erano gli orologi.

Jacques amava gli orologi, antichi e moderni. Gli orologi erano piacevolmente prevedibili, regolari, rilassanti, con il loro tranquillo ticchettare e la meccanica perfetta; se si rompevano sapevi con certezza dove guardare e come intervenire; e queste erano qualità che aveva imparato ad apprezzare quando era diventato, nell'ordine, marito di Dahlia e padre di Gisèle prima e di Séline poi.

Quando un vicino di casa di suo genero, lo storico di chiara fama Richard Prescott – proprio quel Richard Prescott che aveva fatto perdere la testa a sua nipote e che lui aveva tentato invano, insieme a un Alan sorprendentemente collaborativo, di riportare sulla retta via cercando di fargli incontrare casualmente Agathe – era andato da lui per riferirgli di aver letto i suoi articoli sull'argomento e di essere in procinto di scrivere lui stesso un libro sull'importanza storica della capacità di misurare il tempo, per poi domandargli con garbo estremo se sarebbe stato disponibile a organizzare una mostra con i suoi pezzi più pregiati, Jacques aveva capito di volerlo come genero. O come nipote. O come qualsiasi cosa l'avrebbe reso un eventuale matrimonio con Agathe.

Gentilmente spronato da Richard, che l'aveva messo in contatto con un suo amico – il proprietario di una galleria d'arte che a detta sua avrebbe fatto follie per poter ospitare una mostra del genere – e si era anche assunto le incombenze organizzative insieme al sopracitato gallerista, Jacques aveva presto ceduto al fascino lusinghiero che una tale richiesta suscitava in lui: andava estremamente fiero della propria collezione, e il pensiero di poterla esporre lo faceva fremere.

Così, una settimana più tardi, Jacques percorse orgoglioso i locali della galleria, ora colmi dei suoi tesori. Si fermò accanto alla pendola seicentesca che di solito suonava l'ora nella sua casa di Angers e la fissò con amorevole benevolenza, mentre Agathe arrivava leggiadra alle sue spalle.

«Buonasera caro nonno» lo salutò, baciando la guancia dell'uomo. «Pronto a mettere in mostra i tuoi tesori?». Controllò l'orologio. «In fondo manca poco. È quasi mezzanotte, e domattina apriranno le porte ai visitatori...»

«Oh, non posso credere che questo giorno sia arrivato» disse commosso il francese. «Lo sai, ormai era da tempo che desideravo esporre le mie piccole gioie!»

Agathe gli batté una mano sull'avambraccio. «Lo so, grand-père, lo so».

Mentre parlavano, alcuni addetti ai lavori si affaccendavano intorno a loro: controllavano i sistemi di sicurezza, la disposizione dei pezzi, le luci. Fu proprio durante questi ultimi preparativi che, di punto in bianco, gli orologi impazzirono: alcuni si bloccarono, altri accelerarono o rallentarono il proprio moto, altri ancora si misero a suonare impazziti.

Assordato dai rintocchi della pendola, stordito dal cinguettio del passerotto di un vecchio orologio a cucù della Foresta Nera, Jacques si guardò intorno terrorizzato. Le sue "piccole gioie", come le definiva affettuosamente, gli si stavano rivoltando contro: la loro tranquillizzante regolarità era appena andata a farsi benedire. Sparita. Sfumata. Puff.

«Che... che succede?» biascicò, esterrefatto.

Agathe si strinse nelle spalle. «Si direbbe che il tuo regno stia crollando» commentò. «I tuoi orologi sono impazziti».

La faccia di Jacques si afflosciò come un soufflé malriuscito. I suoi baffi pendevano molli e privi di vita ai lati della bocca semiaperta, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. L'uomo prese a girare lentamente su se stesso, avvicinandosi ora a questo, ora a quell'orologio, stordito, incredulo, e talmente assorto dalla propria personale disgrazia da non notare più nient'altro all'infuori dell'ormai perduta armonia dei suoi orologi.

Silenziosa come un gatto, Agathe si ritrasse nell'ombra e andò lesta verso la porta. Proprio mentre usciva, gli orologi tacquero; udì il fragoroso sospiro di sollievo di suo nonno, poi dei passi e delle parole mormorate. Infine, l'urlo rabbioso di Jacques.

«Che vuol dire, che Mr. Prescott si augura che io mi sia goduto la serata?»

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