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Eighty Second Shade [R]

Leah avanzava a balzelloni lungo le strade di Hersham, godendosi il calduccio estivo.

L'arrivo della bella stagione aveva messo di ottimo umore la biologa; quel sole vivace le ricordava un po' gli anni trascorsi nel Pacifico e il tepore dei raggi sulla pelle la faceva sentire bendisposta verso tutti.

Convinta che in una giornata così bella una passeggiata all'aperto rappresentasse la cura a ogni male, Leah aveva deciso di trascinare Damon con sé nonostante non fossero ancora le otto: per questo, dopo una rapida colazione, si era messa in marcia verso casa Zimmermann.

Quando Damon rispose al campanello era fresco di doccia e con un'espressione sorpresa sul volto.

«Leah, tesoro!» esclamò con un gran sorriso. Subito la scelta di parole gli sembrò infelice; il suo sorriso si restrinse, ma lui si sforzò di mascherare il proprio imbarazzo, che gli sembrava persino peggiore dell'aver chiamato Leah "tesoro". Eppure aveva sempre usato quel genere di appellativi affettuosi, con lei: cominciava a pensare di stare diventando matto. «Che ci fai qui?»

«Sono venuta a prenderti: andiamo a fare una passeggiata» annunciò lei. «Non devi lavorare, vero?»

«No, comincio il turno nel pomeriggio» rispose l'uomo. Prese le chiavi e chiuse con cura la porta. «Sai già dove vuoi andare?»

«Ovunque ci siano alberi e prati» rispose Leah.

Damon ridacchiò mentre uscivano dal giardino. «Allora potremmo restare qui... o andarcene nella tenuta di Rick: quella villa nel Derbyshire è maestosa e ha un gran bel parco».

«Mi chiedo perché quello zuccone non la sistemi: sarebbe bellissimo trascorrere qualche giorno lì tutti insieme» replicò lei.

L'uomo sorrise tra sé, ricordando come Agathe avesse detto la stessa cosa a Richard giusto qualche giorno prima. «Oh, dagli tempo: finora non ha avuto nessun buon motivo per affrettarsi, ma credo che potrebbe decidersi presto a ristrutturare il maniero».

Leah gli scoccò uno sguardo curioso e perplesso. «Ah sì? E perché?»

Damon fece un gesto vago con la mano. «Intuizione».

Per nulla convinta, la donna gli agitò contro un dito. «Tu non me la racconti giusta... ma prima o poi scoprirò tutto». Gli angoli della sua bocca si sollevarono all'insù. «Quella villa mi ha sempre fatto pensare a Orgoglio e pregiudizio della Austen».

Il suo migliore amico ridacchiò. «Be', Richard è sicuramente abbastanza arrogante da poter essere Mr. Darcy» commentò.

«Ma non abbastanza bello!» replicò lei, ridendo di gusto. «No, no, no: a parte l'arroganza, tu potresti essere Mr. Darcy molto più di Richard».

Damon inarcò le sopracciglia. «Davvero?»

«Sì» rispose convinta Leah. Arrossì appena. «Tu sei molto più bello di Rick; e poi la dichiarazione romantica e appassionata di Mr. Darcy a Elizabeth... be', non ce lo vedo, Richard, a farsi trasportare così dai propri sentimenti, mentre da te me lo aspetterei».

Stavolta fu Damon a ridere forte. «Sottovaluti Richard, piccola: quello che hai appena detto su di lui era vero un tempo, ma sono cambiate un po' di cose nell'ultimo anno!»

«Mi stai dicendo che Richard è diventato un romantico?» chiese scettica la biologa, inarcando le sopracciglia.

«Non immagini quanto» confermò Damon con fervore.

«Quanto mi piacerebbe vederlo!» disse Leah, divertita. «E soprattutto, mi piacerebbe conoscere la donna che ha operato un simile cambiamento in lui» proseguì con malizia.

«Sono certo che prima o poi avrai questa fortuna» rise l'uomo sotto i baffi.

Leah scosse la testa tra sé. «Non immaginavo che Richard avesse comprato quella casa enorme» commentò. «Se mai mi sposerò, mi piacerebbe da morire farlo in un posto simile» aggiunse sognante.

Damon la guardò affettuosamente mentre Leah indugiava in quella fantasia. Per un attimo si vide nel parco privato del maniero, in piedi sul prato soffice pieno di gente allegra con abiti eleganti, con indosso uno smoking e Richard accanto, mentre aspettava di veder comparire una Leah vestita di bianco e sorridente, diretta verso di lui.

Sentendosi di nuovo tradito dalla propria mente, l'uomo scosse con forza la testa, scacciando quelle immagini. Non poteva sapere come anche i pensieri di Leah fossero andati in quella stessa direzione: nel momento in cui aveva pronunciato quelle parole, infatti, la biologa si era vista incedere in quello stesso prato che giorni prima aveva soltanto potuto intravedere, con la luce del tardo pomeriggio che tingeva d'oro e di rosa il suo abito da sposa, e Damon che la aspettava sorridendo emozionato.

Per qualche momento entrambi tacquero, imbarazzati e senza il minimo sentore che l'altro provasse le stesse emozioni che li scuotevano, quando il telefono di Damon accorse in loro aiuto, iniziando a trillare.

«Dannazione, è l'ospedale» sbuffò il medico, rispondendo velocemente. Pochissimi scambi di battute e riagganciò. «Devo andare, oggi sono in reperibilità ed è arrivato un paziente da operare d'urgenza».

«Non ti preoccupare» replicò Leah; si alzò sulle punte dei piedi e gli scoccò un bacio sulla guancia. «Chiamami quando sei libero, così ci vediamo e magari facciamo due chiacchiere».

«Alla prima occasione» rispose lui con convinzione, abbracciandola per un breve istante. «Goditi il bel tempo anche per me».

«Lo farò!» gli gridò dietro Leah mentre Damon tornava quasi correndo verso casa propria. Lei scrutò la schiena del suo migliore amico allontanarsi rapida e sospirò delusa: il sole splendeva esattamente come un minuto prima, ma di colpo la giornata le sembrava molto meno allegra.

******

Agathe parcheggiò l'auto e si avviò a passi rapidi verso uno dei tanti edifici antichi di Londra.

Quel mattino, spazientita dal malumore di Gisèle – che sembrava essersi alzata con il piede sbagliato – era uscita di casa molto prima del solito, convinta che sarebbe stato meglio aspettare per mezz'ora l'arrivo del custode davanti al cancello della scuola piuttosto che in compagnia di sua madre.

Quando si era quasi scontrata con Damon e Leah non aveva potuto che congratularsi con se stessa per la scelta fatta e ringraziare la fortuna, mentre correva a nascondersi per osservarli senza essere vista.

Quello che la diciottenne aveva sentito era bastato a cancellare ogni traccia del suo malumore. Anche se si comportavano normalmente, ormai Agathe ne aveva viste e passate troppe, per non saper cogliere i dettagli: il suo occhio allenato aveva notato subito l'imbarazzo di Damon e il modo in cui evitava di guardare Leah negli occhi, né le era sfuggito il rimpianto con cui Leah aveva osservato andar via il suo migliore amico, quel mattino. Quella titubanza somigliava troppo a quella che aveva visto sui volti di Lara e Thomas prima che si decidessero a stare insieme; la malinconia era identica a quella di Moses nelle settimane in cui pensava ad Alan senza trovare il coraggio di dichiararsi; la frustrazione derivante dall'ostinazione a negare i sentimenti che provavano rispecchiavano punto per punto quella che avevano provato Richard e lei stessa.

Insomma, secondo Agathe c'erano dei segnali promettenti riguardo quei due: e l'impazienza di raccontare a Richard tutto quello che aveva visto e sentito era tale che le ore di lezione le aveva trascorse persa nei propri pensieri.

Ma non avrebbe aspettato ancora a lungo: ormai era nel palazzo in cui aveva sede la casa editrice di Richard, ed entro qualche minuto sarebbe stata seduta nel suo ufficio.

Purtroppo per lei, non aveva fatto i conti con Helen.

Una volta trovati gli uffici che le interessavano e guadagnata l'entrata sfoderando il suo miglior sorriso alla receptionist, Agathe si addentrò lungo i corridoi, abbastanza spedita da confondersi con gli impiegati. Alla fine individuò proprio quello che cercava: un doppio battente scuro e, a poca distanza, una segretaria dall'aspetto discreto ed elegante piazzata dietro una scrivania ingombra.

Quando la donna – che a occhio doveva avere qualche anno più di Gisèle – la vide, il cipiglio battagliero con cui stava per accoglierla si spianò: le sopracciglia di distesero e così le labbra, che si piegarono in un sorriso.

«Buongiorno signorina» disse in tono materno. «Come posso aiutarti?»

Agathe le rivolse un sorriso abbagliante. «Salve, signora» rispose mielosa. «Sono una studentessa della St. Margaret: lavoro per il giornale scolastico e stiamo preparando, per la chiusura dell'anno, un articolo sui principali benefattori dell'istituto. Abbiamo contattato Mr. Prescott per sapere se fosse disposto a rispondere ad alcune domande e si è detto disponibile a incontrarmi più o meno... adesso».

La segretaria si accigliò appena. «Non avevo capito che avesse un appuntamento per quest'ora» disse tra sé, sfogliando febbrilmente l'agenda.

Agathe sgranò gli occhi, fingendosi costernata.

«Eppure mio padre mi ha detto di avergli parlato un'oretta fa e che aveva detto di avere tempo... forse ho capito male...» inventò di sana pianta.

«Suo padre?» le fece eco l'altra donna.

La ragazza sorrise spocchiosa, pronta a giocare il jolly. «L'avvocato Evan Williams».

Come aveva previsto, a quelle parole gli occhi della segretaria di Richard divennero grandi come piattini.

«Ah, è sua figlia!» disse infatti, di nuovo tutta zucchero. «L'avvocato chiama spesso ed è anche passato di qui, qualche settimana fa. Sicuramente lei ha capito bene: con ogni probabilità Mr. Prescott si è solo dimenticato di avvertirmi, è sempre tanto occupato! Lavora troppo, secondo me».

Agathe trattenne un ghigno. Non c'erano dubbi sul fatto che Richard fosse sempre molto impegnato: ma che impiegasse tanto del proprio tempo a badare agli affari, era qualcosa che la convinceva meno. Se la povera segretaria che aveva di fronte avesse saputo che negli ultimi tempi il suo adorato datore di lavoro aveva impiegato la maggior parte delle proprie energie a elaborare scherzi crudeli, tentare di far scattare la scintilla tra due dei suoi migliori amici e fare l'amore con lei in ogni angolo della propria casa, probabilmente si sarebbe sciolta in lacrime di delusione.

«Dovrà aspettare qualche minuto» proseguì la donna, distogliendo Agathe dai propri pensieri. «Al momento è in riunione con uno degli editor, ma dovrebbe aver quasi finito».

«Nessun problema» rispose placida la diciottenne.

Come aveva detto la segretaria, dopo soli cinque minuti la porta scura si aprì e ne emerse una donna sui trent'anni, impeccabile in un tailleur scuro e tacchi alti: non aveva un capello fuori posto, e Agathe fu tentata di toccarla per accertarsi che fosse fatta di carne proprio come lei.

«Ah, Helen, avete finito» l'accolse la segretaria.

«Sì». Helen squadrò Agathe dalla testa ai piedi con un'espressione che alla ragazza ricordò Séline in modo quasi inquietante. «E tu chi sei?»

Agathe rispose al suo sguardo snob con un sorrisetto irritante, certa che avrebbe avuto lo stesso effetto che suscitava in sua zia: si appoggiò allo schienale del divanetto imbottito su cui era seduta e accavallò le gambe con fare rilassato. «Non credo che la cosa la riguardi».

Helen strinse le labbra e si voltò d'istinto verso la terza donna presente, come a richiedere spiegazioni.

«È qui per vedere Mr. Prescott» fu la risposta lapidaria della segretaria.

La giovane editor parve infiammarsi di sdegno.

«Mr. Prescott è molto occupato: non ha tempo da perdere con i ragazzini» disse sussiegosa.

Stavolta Agathe non si trattenne dal sogghignare provocatoria.

«Vogliamo scommettere?» replicò con voce di velluto. Si voltò verso la segretaria. «Signora, ce lo chiama, per piacere?»

La donna scrollò le spalle, poi andò lesta alla porta dell'ufficio e mise dentro la testa. «Mr. Prescott? Le spiace venire un momento?»

Pochi secondi più tardi, lo storico varcò la soglia e scrutò con evidente sorpresa le due donne che si fronteggiavano.

«Miss Williams» salutò prontamente. Andò dritto da Agathe e, nel farlo, passò davanti a Helen senza degnarla di uno sguardo. Prese la mano della ragazza e ne baciò il dorso per parecchi lunghi istanti, guardandola negli occhi con tale intensità da farla arrossire. Non importava che ormai Richard conoscesse ogni centimetro del suo corpo: quando la fissava in quel modo, Agathe sentiva i propri neuroni andare in corto circuito. «Cosa la porta qui?»

La domanda quasi sussurrata ebbe il potere di riportare Agathe alla realtà.

«Ehm...». La ragazza batté le palpebre, cercando di fare ordine nella propria mente. «L'in... l'intervista per il giornale scolastico della St. Margaret» riuscì a farfugliare.

Richard colse al volo lo scopo di quella bugia. «Giusto: me n'ero dimenticato. Venga, Miss Williams, venga nel mio ufficio».

«Ma... Mr. Prescott...» protestò Helen. Lui non si voltò nemmeno: condusse con gentile fermezza Agathe nel proprio ufficio e, dopo aver ordinato discretamente alla segretaria di non disturbarlo, si chiuse la porta alle spalle.

La diciottenne si era appena lasciata andare in una delle poltroncine di fronte alla scrivania quando Richard la raggiunse e le posò un bacio sulla curva tra il collo e la spalla.

«Allora» le mormorò mentre passava a sfiorarle la pelle dietro l'orecchio con le labbra, «qual è il vero motivo della tua presenza qui?».

Agathe farfugliò parole senza senso; poi si contorse nella poltrona e spinse via lo storico. «Se fai così, non riesco a concentrarmi» sbuffò.

«Quindi non è per godere della mia compagnia, che sei venuta fin qui» considerò Richard con calma mentre si appollaiava sul bordo della scrivania.

La ragazza storse il naso di fronte all'ambigua scelta di parole di Richard. «Forse più tardi, se avanza tempo» concesse. «Adesso sono qui per dirti cos'ho visto stamattina».

«Sentiamo: cos'hai visto?»

Le labbra di Agathe si schiusero in un gran sorriso. «Lo zio Damon». Fece una pausa, ignorando l'espressione impaziente dello storico. «Insieme alla zia Leah».

Di colpo negli occhi di Richard si accese una scintilla d'entusiasmo. «E come ti sembravano?»

«Molto affiatati» rispose soddisfatta Agathe. «E molto delusi quando hanno chiamato lo zio dall'ospedale ed è dovuto tornare a casa». Trattenne con scarso successo una risata. «Ho origliato la loro conversazione: a quanto pare lo zio Damon è più bello e romantico di te» sghignazzò.

Senza rispondere, Richard si inginocchiò davanti a lei: le fece scivolare lentamente le mani lungo le gambe, accarezzandole e schiudendole di fronte a sé. Si appoggiò alla poltrona e afferrò Agathe sotto le ginocchia, trascinandola sull'orlo del cuscino mentre teneva gli occhi fissi nei suoi.

«E tu cosa pensi? Credi anche tu che io non sia abbastanza bello e romantico?» le chiese, stringendole i fianchi. «Ma forse Leah ha ragione» si rispose senza permettere ad Agathe di farlo. Le sue mani tornarono sulle gambe di lei e strisciarono impudiche sotto la gonna, lungo la pelle nuda. «Non sono l'uomo che le donne sognano; Damon lo è, lo è sempre stato; ma quello che stiamo per fare io e te in quest'ufficio...» mormorò, sfilandole le mutandine e baciando l'interno della sua coscia, «loro non lo faranno mai».

Agathe annaspò, alla disperata ricerca d'ossigeno. Non si aspettava quell'assalto: non in quel momento, non nel suo ufficio, dove chiunque poteva entrare.

«Richard» sussurrò con urgenza mentre tentava invano di ignorare le piacevoli sensazioni che la bocca di lui le trasmetteva. «Fermati! Se... se entrasse qualcuno...»

«Non entrerà nessuno» rispose lui, interrompendosi solo per un istante.

«Ma la porta...» balbettò ancora la ragazza.

Richard si fermò e alzò lo sguardo fino a incontrare gli occhi di Agathe. Lei deglutì a fatica: guardarlo mentre la osservava dal basso, con le mani ancora artigliate alle sue cosce e la testa pronta a raggiungerle, le impediva di pensare lucidamente.

«Non entrerà nessuno» ripeté Richard, scandendo con cura le parole; subito dopo le sorrise, malizioso. «E in ogni caso, tra un minuto non te ne importerà più così tanto da doverti preoccupare. Adesso posso continuare?»

«Come se potessi dirti di no» bofonchiò Agathe, nascondendo il proprio sorriso. Lo storico non se lo fece ripetere; la ragazza si rilassò, e poco dopo gli avrebbe dato ragione, se la sua mente non fosse stata occupata da cose infinitamente più piacevoli.

******

Alan percorreva i corridoi fischiettando allegro.

A quell'ora, gli uffici della casa editrice dell'amico fervevano di attività: in fondo erano solo le tre e mezzo del pomeriggio, sapeva con certezza che quel giorno Richard aveva intenzione di restare lì fino alle cinque ed era ragionevolmente convinto che avrebbe trovato un po' di tempo per sentire quello che aveva da dire.

Dopo lo spiacevole tête-à-tête che aveva avuto con il giudice Pearson, era stato abbastanza saggio da non intromettersi più tra Damon e Leah; dopo pranzo, però, aveva avuto il piacere d'incontrare per caso l'amica, e nel racconto della biologa su come Damon fosse dovuto correre al lavoro, abbandonando lei e la passeggiata che avevano appena iniziato, aveva scorto con chiarezza un disappunto troppo profondo perché fosse scaturito solo dal naufragare di un progetto così futile. Dunque, pur non avendo spinto o punzecchiato Leah in alcun modo, aveva sentito rinascere dentro di sé la speranza che la questione irrisolta tra i due arrivasse alla sua naturale conclusione; e altrettanto forte era stata l'impellenza di raccontare subito tutto a Richard.

Quando lo vide comparire, la segretaria del suo migliore amico sorrise cordiale.

«Mr. Bell, che piacere vederla!» salutò: le gentilezze di Alan nelle sue precedenti, seppur rare visite, davano ora i loro frutti.

«Signora, anche per me è sempre un piacere» rispose gioviale. Accennò con la testa alla porta dell'ufficio. «Lui c'è, vero?»

«Sì». La donna assunse un'espressione di scuse. «Purtroppo è occupato».

«Oh, lui è sempre occupato, ma quasi mai ne è felice, quando è chiuso in un ufficio» replicò Alan, accostandosi alla porta per origliare. «Di che si tratta stavolta? Una riunione? L'incontro d'affari con un cliente? Una divergenza con un fornitore?»

La segretaria lanciò uno sguardo tale alla porta che Alan non ebbe più dubbi: lì dentro c'era una donna, e non una di quelle che lavorava per Richard.

«Be', è con una signorina» ammise lei di fronte allo sguardo benevolo ma indagatore del giornalista. «Un'intervista per il giornale scolastico della St. Margaret...»

Sorprendendola, Alan scoppiò a ridere e si allontanò dalla porta, ogni interesse per quel piccolo segreto ormai svanito.

«Vorrà dire che gli parlerò stasera» si congedò, avviandosi di nuovo lungo il corridoio.

«Ma... non insiste...?» chiese la donna, confusa.

«No, non insisto, perché so perfettamente chi c'è lì dentro...» Alan ammiccò, «e il mio amico non mi perdonerebbe mai, se adesso entrassi in quell'ufficio».

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