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Reika's pov
Ero seduta su uno sgabello azzurro, la testa poggiata contro il freddo legno del bancone. I miei capelli giacevano sparsi su di esso, incontrandone il bordo fino ad oltrepassarlo per poi cadere a penzoloni; le ciocche erano aperte in una matassa di onde disordinate, eppure lunghe abbastanza da sfiorare la cassa a pochi centimentri di distanza con le loro punte scure. Osservai insistentemente il bordo del mio cellulare, com'ero ormai occupata a fare da quasi un'ora; percepivo la guancia destra indolenzita, causa il troppo tempo trascorso immobile in quella posizione. Inoltre, avevo la non poca certezza che una volta alzata, il corpo mi avrebbe ringraziato con un fastidioso torcicollo per averlo torturato in quel modo.
Ciononostante, del dolore fisico m'interessava ben poco.
In un momento critico come quello, era la sua controparte mentale il vero mostro da cui guardarsi le spalle.
L'ansia mi stava infatti mangiando viva. La sentivo cibarsi di ogni mio organo mentre viscida li corrodeva uno ad uno, provocandomi un doloroso senso di vuoto, accompagnato allo stesso tempo da un'incessante pesantezza alla bocca dello stomaco. Imitando il prototipo di un automa perfetto, ricopiai alla letterla gli stessi gesti di dieci minuti prima; agguantai quindi il telefono, inserii la password sbloccando lo schermo ed una volta constatato che non vi fossero nuovi messaggi sbuffai, lasciando scocciata che l'oggetto ricadesse sulla superfice dura con un tonfo sordo.
«UGH! Perché diavolo non risponde?! Possibile che quel maledetto esame non sia ancora finito?!» Sbottai esasperata, poggiando la fronte sulle mani unite e nascondendo così il volto.
Odiavo trovarmi all'oscuro degli eventi, qualsiasi cosa essi riguardassero. Per non parlare dell'essere paziente, il quale era un vanto che da quando avevo memoria, di certo non mi era mai appartenuto.
Con la coda dell'occhio e senza alzare il capo, gettai uno sguardo all'orologio appeso alla parete del Minimarket.
Quest'ultimo era collocato esattamente alla destra di un manifesto multicolore, su cui potevano leggersi a caratteri cubitali le offerte della settimana riguardanti i prodotti in vendita.
12:47
Riportavano le lancette. Ciò implicava che più di tre fossero passate da quando il test di Ren aveva avuto inizio. Ma più di ogni cosa, che fossero passate tre ore da quando lui e Bakugou erano stati richiamati e fatti entrare a forza all'interno dell'edificio, causa il loro breve "scontro" in cortile. Metabolizzare il fatto che fra tutti i possibili aspiranti eroi che potevo incontrare quella mattina ci fosse proprio quel biondino ingrato e dall'evidente rabbia repressa, sembrava impossibile; un vero e proprio tiro mancino, ecco a mio parere la reale natura di quel risvolto ingiusto.
Insomma, perché dovevo accettare una realtà che, inevitabilmente, costringeva i miei occhi a brillare di una luce furiosa ogni volta che mi ritrovavo a pensare al suo atteggiamento altezzoso?
Non so se quella cazzata della telepatia fra gemelli funzioni davvero, ma nel caso tu mi stia ascoltando, Ren: fai a strisce quel suo culo sodo.
«Ehi! Non permetto l'uso dei quirk in orario di lavoro!» Ad allontanarmi definitivamente dai miei pensieri di vendetta fu la responsabile del Minimarket, la signora Shimizu; una gracile vecchina dagli occhiali a mezza luna e più nicotina in corpo che ossigeno.
Seguii la traiettoria del suo sguardo imperioso, rimanendo un istante dopo del tutto sorpresa alla visione dei miei artigli, i quali giacevano ora in bella vista sul bancone.
Avevo iniziato a lavorare per lei da qualche giorno ormai: la paga era buona, il luogo distava solo due fermate di metropolitana da casa e i turni consistevano in tre pomeriggi a settimana. Ad essere onesta, dato che papà aveva speso molto a causa del trasloco improvviso e noi eravamo in quattro, mi sembrava giusto aiutarlo dando un piccolo contributo.
«Non me n'ero resa conto. Chiedo scusa.» Mi affrettai a rispondere, ritraendo alla svelta gli artigli. Lei fece schioccare la lingua contro il palato, alzando la mano sinistra e puntandomi con aria accusatoria il dito contro.
«È ovvio che non te ne sia accorta, se da quando sei arrivata l'unica cosa che hai guardato è stata il cellulare! Al tuo ragazzo non importa che stai lavorando?»
A quelle parole, sentii un leggero bruciore pizzicarmi le guance. «R-Ragazzo?! No, è del tutto fuori-»
«Dà retta a chi ha mezzo secolo in più, signorina: è meglio evitare gli uomini, sono peggio della peste. Un minuto prima dicono di amarti e quello dopo li ritrovi alla serata Bingo del tuo condominio il giovedì sera, mentre dividono una scheda con la signora Kariya del terzo piano e lei gli spiega la sua ricetta per gli Anpan.» Concluse, mettendo mano alla tasca e tirando fuori il solito pacchetto di sigarette.
Io, d'altro canto, mi limitai a guardarla silenziosa; pregavo inoltre che le lenti appannate le impedissero di notare l'espressione perplessa sul mio volto.
«Mhm...grazie del consiglio.» Iniziai, bloccandomi per tossire quando una ventata di fumo grigio m'investì in pieno, occupando ogni via respiratoria. Fantastico, lo shampoo di ieri si era appena trasformato in due ore di tempo sprecate. «Ma lei ha frainteso. Ora come ora, non ho alcun interesse verso l'amore. Preferisco rimanere single.»
«Oh.»
Per qualche ragione, la mia confessione aveva portato i suoi occhi marroni e circondati da rughe a sbarrarsi.
Con la mano libera mi afferrò il viso e delicatamente cominciò a girarlo in varie direzioni, esaminando attenta ogni centimetro di pelle un istante prima di lasciarsi andare ad un sospiro dubbioso.
«La vedo difficile col tuo aspetto, ma ti auguro buona fortuna.» Detto ciò mollò la presa, s'infilò nuovamente la sigaretta tra le labbra sottili e, arpionando un pacchetto di biscotti alla frutta da uno degli scaffali, svanì nel retro bottegha.
Eppure, avrei giurato di sentire l'accenno di una risata prima che si chiudesse la porta alle spalle.
«Scusami.» A parlare fu una voce delicata. Il suo tono gentile entrò nelle mie orecchie quasi di soppiatto, mentre ne seguivo la scia con la testa fino ad incontrarne il proprietario.
Si trattava di un ragazzo, e dall'altezza dedussi che avesse all'incirca la mia età; i capelli arruffati erano di colore verde scuro, mentre gli occhi enormi luccicavano di una sfumatura più leggera, quasi menta, esattamente come la tuta che aveva indosso. Il tutto era incorniciato da un viso spruzzato di lentiggini e, per qualche ragione a me sconosciuta, anche marchiato da dozzine di graffi.
«Ciao! Dimmi pure.»
«Dovrei pagare questi.» Davanti a me ora si trovavano una confezione di bende, un pacchetto di cerotti e una bottiglietta d'alcol.
Annuii svelta, iniziando a passare gli oggetti sulla luce rossa dello scanner. Ed una volta che lui ebbe pagato inserii ognuno di essi all'interno di una basta, consegnandogliela. Lo osservai allungare il braccio per afferrarla, ma non appena ciò accadde il suo viso dapprima sorridente mutò in un'espressione di pura sofferenza.
«Ma che...?!» Con uno scatto fui subito in piedi.
Agitata feci il giro del bancone, piegando le ginocchia così da accovacciarmi alla destra del ragazzo ora rannicchiato su sé stesso. Lo guardai stringere e fissare intensamente il braccio, mentre tentava di soffocare un gemito di dolore mordendosi il labbro inferiore.
«Ehi, cos'hai?! Ti serve un'ambulanza?!» Istintivamente gli misi una mano sulla spalla, in un banale quanto inutile tentativo di dargli un briciolo di conforto.
Sta tremando...
«N-No...! È soltanto una...fitta passeggera. Non...non preoccuparti...!» Riuscì a dire, pronunciando ogni singola parola a denti stretti.
Sotto il mio sguardo ansioso cominciò ad eseguire a ripetizione una serie di respiri profondi; azione che parve riscontrare l'esito desiderato, dal momento che il suo corpo smise di agitarsi in preda agli spasmi ed i lineamenti del viso si addolcirono, abbandonando pian piano quella maschera di dolore fino a lasciarla svanire completamente.
Entrambi infine ci alzammo, e gli occhi di quel ragazzo trovarono subito i miei.
«Mi dispiace davvero averti spaventata.» Mormorò, ancora leggermente scosso, portandosi il braccio buono dietro al collo in segno d'imbarazzo. Aveva separato i nostri sguardi, decidendo di raccogliere da terra la roba da lui comprata ed una volta finito, concentrarsi sugli scaffali alla nostra sinistra. «Accidenti, l'esame mi ha sfinito più del previsto...»
Un attimo...ha detto "esame"? Possibile che...?
Sebbene quella frase fosse sgusciata via dalle sua labbra, travestita da semplice borbottio sottovoce con l'intenzione di non venire ascoltata da nessun'altro se non lui stesso, il morbo della curiosità mi aveva tuttavia già contagiata.
«Senti...non vorrei fare la parte dell'impicciona, ma per caso ti stai riferendo all'esame d'ingresso alla Yuuei?» Chiesi speranzosa, incrociando mentalmente le dita.
«Mhm? Sì, perc-...un attimo!» Veloce come un fulmine accorciò la distanza fra noi. Il suo sguardo diede l'impressione di analizzarmi dalla testa ai piedi. «Ma certo! Come ho fatto a non accorgermene prima?! Sei identica al ragazzo che era nel settore B con Kacchan! È tuo fratello, vero?»
Ti prego, fa che si riferisca a Ren.
«Dipende. Ricordi se per caso questo ragazzo avesse i capelli neri legati in un codino, gli occhi azzurri e fosse decisamente meno attraente di me?»
«Proprio lui!» Rivelò. E mentre io annuivo confermando la sua ipotesi e lasciando che un sorriso sollevato venisse dipinto sul mio viso, lui spalancò gli occhi e svelto si coprì la bocca con ambedue le mani. «C-Cioè...non che io ti trovi attraente. O meglio si, p-però...no aspetta! Intendevo dire...insomma, sei davvero molto bella ma...oddio, cosa sto dicendo?!»
Se prima il verde si era limitato unicamente ad evitare di guardarmi, il livello d'imbarazzo nel suo corpo aveva raggiunto un nuovo picco ancor più alto, il quale lo aveva costretto addirittura a darmi le spalle nel tentativo di nascondermi la vista del suo volto paonazzo.
Sebbene, a dirla tutta, dovevo ammettere di essere non poco solleticata dalla tentazione di dirgli che non aveva alcuna ragione per vergognarsi tanto.
Specie perché l'unica cosa in grado di guadagnarsi la mia attenzione in quel momento, era la risposta ad una domanda che, maligna, mi tormentava il cervello.
«Cos'è successo all'esame per provocarti tanto dolore al braccio?»
Ci fu qualche istante di silenzio prolungato, prima che si voltasse e rispondesse. «Me lo sono rotto distruggendo un robot di quindici metri.»
Immediatamente avvertii il cuore mancare un battito e salirmi in gola.
«Ma quei robot erano innocui, vero? I-Insomma, immagino fosse un test per valutare la vostra forza...o roba del genere.»
«Oh, no. Dovevamo distruggerli per evitare che ci attaccassero e ferissero. Ora che ci penso, chissà come se l'è cavata tuo fratello...»
Ed eccola lì, quella sensazione di angoscia mista ad apprensione che per nulla mi era mancata.
Prima che me ne rendessi conto avevo agguantato ancora una volta il cellulare, aggrappandomi ingenuamente alla speranza che Ren si fosse degnato di rispondere ad almeno uno dei diciassette messaggi che gli avevo inviato; fu tutto inutile. Anche stavolta, ogni accenno di qualsivoglia speranza venne scaraventata al suolo e schiacciata da un blocco di cemento pesante cento tonnellate. Riuscivo a scorgerne i cocci ditrutti e sparsi sul pavimento bianco.
Era una tortura, e proprio quando sentivo di essere in procinto di dare definitivamente in escandescenze, il trillo di una suoneria congelò ogni accenno di movimento.
Sfortunatamente, quella suoneria non apparteneva al mio telefono.
«Aah, è mia madre. Mi sa che ora devo andare, ma è stato bello conoscerti...»
«Reika Uzumaki.» Dissi, sforzandomi di assumere un'aria più serena.
«Piacere, io sono Izuku Midoriya!» Con un sorriso a trentadue denti mi porse la mano. Prontamente l'afferrai, ricambiando la sua stretta vigorosa. «Spero di rivederti in giro! Ciao!»
Nell'attimo in cui la porta scorrevole venne chiusa alle spalle di Midoriya, un'idea cominciò a prendere forma nella mia mente; lo sguardo saettò sulle lancette dell'orologio, le quali scandivano l'andamento dei secondi.
13:05. Giusto in tempo.
«Signora Shimizu! Vado in pausa pranzo!»
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«Sono a casa!» Urlai una volta che la serratura fu scattata dietro di me. Come al solito abbandonai scarpe e borsa all'entrata, dirigendomi a passo svelto verso la cucina.
La porta scorrevole che separava quest'ultima dal soggiorno era chiusa. Con un solo colpo secco mi affrettai ad aprirla, finendo tuttavia col restare immobile sull'uscio di essa quando vidi cosa, o meglio chi, vi si trovasse oltre.
Shouta Aizawa, meglio conosciuto come il Pro Hero Eraser Head e vecchio amico di mio padre, sedeva al tavolo della cucina. Alla sua destra, un Ren silenzioso mi scrutava impassibile; il viso e le braccia tappezzate di cerotti.
«La tua voce è troppo rumorosa.» Iniziò l'uomo in tono apatico, massaggiandosi stanco gli occhi. «Persino con la porta chiusa siamo stati in grado di sentirti urlare; direi che a distanza di anni l'influenza di Mic continua a farsi sentire. Ad ogni modo...»
Con la mano scostò la sedia vuota difronte a mio fratello, in un chiaro invito ad occuparla.
«Vorrei mi spiegassi perché hai deciso di essere tanto stupida da sprecare un quirk come il tuo non facendo domanda alla Yuuei.»
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