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6.


La Zündapp KS 750 affrontò l'ultimo rettilineo alla ragguardevole velocità di ottanta chilometri all'ora. Il rombo scoppiettante spaventò alcuni passeri, che si alzarono in volo coperti dalla polvere.

La motocarrozzetta fece un gran baccano quando entrò dal cancello aperto e seminò sassi intorno contro la parete dell'edificio di guardia. I prigionieri che lavoravano il cemento non sollevarono le teste rapate e proseguirono nell'impegno della giornata; fra loro, un Philippe conscio del ritorno dell'ennesimo ufficiale nazista dopo una sortita nel Campo principale di Natzweiler-Struthof – così vociferavano i francesi da quella mattina.

Tuttavia, con la coda dell'occhio, 55694 vide il guidatore poggiare la lunga gamba coperta di stoffa grigioverde e reggere il manubrio dopo aver inclinato la motocarrozzetta. Seguì la gestualità delle mani che sollevavano gli occhiali da motociclista e li appoggiavano sopra la visiera del berretto.

Il viso immoto di Andreas Jüttner ricambiò la fissità diagonale di Philippe.

Dopodiché la SS lasciò la Zündapp KS 750 a un attendente – non prima di aver preso un plico di documenti dalla borsa con le fibbie, legata al parafango della ruota posteriore –, e si diresse verso la Sede del Comando. Aprì la porta. Sul pavimento scorse la danza di foglie scricchiolanti entrate dalla finestra lasciata aperta e in là, di spalle a un armadio, uno degli uomini più fedeli di Buck.

«Il Comandante?» chiese .

«Arriva, è andato al bagno.»

Buck tornò con un'espressione disgustata, preceduto dal passo lento della gamba di legno, e si accomodò sulla poltrona. Salutò Jüttner in un tono secco e mentre si sistemava la cintura da seduto gli chiese: «Allora?»

«Ho inoltrato la vostra risposta e non hanno obiettato.»

«Qui ci sono pochi prigionieri per essere mandati alla fabbrica dell'Audi. E adesso che lo dite, ce ne sono già molti che lavorano per l'officina meccanica della Mercedes-Benz.»

«Comunque ne vogliono almeno duecento per il Campo Principale.»

«Ancora con quella storia?»

«Sì. Vogliono braccia per estrarre il granito dalla cava.»

Il Comandante Buck guardò il soffitto di legno, picchiettando i baffi scuri che scendevano ordinati sugli angoli della bocca, e poi abbassò gli occhi e li puntò verso la finestra.

Le colline erano diventate grigie e marroni, con gli ultimi pascoli d'altura ricoperti di un'erba corta color oro e malachite. Resistevano i ceppi rossi dei faggi; le montagne erano blu in lontananza e vi aleggiavano nubi bianche e nebbie azzurre.

«Gli daremo gli ebrei. Laggiù c'è il crematorio.» Buck toccò con il dorso della mano i documenti e la richiesta che il sottoposto aveva appoggiato al tavolo. «A questo proposito, mi trasferirò in via definitiva a Natzweiler-Struthof. Lascio a voi e a un mio fidato la gestione di questo porcile.»

Andreas Jüttner annuì.

Buck accarezzò la gamba sinistra e ne sentì la solidità. Per un breve attimo pensò alla guerra e ai combattimenti che si protraevano da quattro anni. Per tutti gli altri sarebbe finita come con la Prima Grande Guerra, ma non per il Reich. «Ho sentito che di tanto in tanto portate qualche prigioniero al magazzino delle provviste. Continuate a divertirvi a farli spasimare, eh? Siete sadico. Ma d'altronde, questa teppaglia è qui perché non sa resistere all'istinto. Un sottocampo è la soluzione adatta, almeno finché si possono recuperare. Con quelli che non hanno speranza è meglio farla finita in fretta.»

Fuori della finestra, la natura affaticata di ottobre calamitava l'interesse di Buck.

«I peggiori sono senz'altro gli ebrei, e farò in modo di mandarli tutti là, nessuno escluso, a costruire strade e a darsi da fare nelle fabbriche. È finito il tempo in cui li pregavamo di prestarci il denaro, quando il denaro gli girava fra le mani e se lo tenevano stretto. Adesso sentiranno il peso delle libbre di carne corrotta che si portano addosso.»

Jüttner pensava alla strada che aveva percorso da Natzweiler-Struthof a Schirmeck. A circa un chilometro e mezzo dal Campo Principale era situata la camera a gas che i medici avevano chiamato "sperimentale". Aveva accettato di diventare direttore del Campo Schirmeck per prevenire l'eventualità che l'atterriva di più. L'Alsazia era vicina al Reich. Il dialetto alsaziano ricordava molto la lingua della Repubblica di Baden dov'era cresciuto. Gli bastava oltrepassare il confine per essere in Francia. Ci andava in vacanza, gli piacevano i luoghi dove predominava la natura e che avevano un odore pastorale.

«Confido che mi segnalerete gli irrecuperabili. Soprattutto i brauner(1). Un medico mi ha detto che non c'è verso di trasformarli. Gli ebrei no, ci penserò io a toglierveli di torno. Per gli arschficker(2) non dovrete preoccuparvi, fra poco il puff sarà attivo.»

«Non mancherò, Comandante.»

«E sguinzagliate i cani, di quando in quando. Conosco la vostra fama, siete riuscito a far impazzire più d'un prigioniero.»

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Quattro anni di guerra. Un cugino morto. Un anno nel Campo alsaziano, l'unico sul suolo francese.

Sei cose che mi sono capitate.

Il fumo della sigaretta saliva verso il cielo, il pastore tedesco al fianco uggiolava. Da quando il Comandante Buck era partito, quella mattina d'ottobre, con i soldati e i prigionieri schierati per il saluto, Andreas avvertiva un sentore di finitudine nell'aria e non gli piaceva. Sentiva di aver rubato qualcosa, e la parte ariana della sua coscienza, la parte che aderiva all'idea nazista e cercava di seguire lo stile salutista di Hitler, si rivoltava al pensiero di cosa avrebbe fatto ora con la libertà di azione. Ma l'altra, quella che apparteneva alla bestia del Gévaudan – sì, aveva buone orecchie per le voci del Campo – gli ricordava di essere corrotto. Ma non dava la colpa ai genitori o agli antenati. Era un cancro emotivo che aveva dentro e non poteva estirpare.

Si chiese, allontanando la sigaretta dalla bocca, se anche lui sarebbe finito scoperto ed epurato.

A sedici anni aveva visto due uomini che si palpavano in un vicolo, due intellettuali. Era successo all'uscita dell'Eldorado, quando aveva svoltato in un vicolo per fuggire dalla baldoria dei travestiti. Gli era parsa la più bella immagine della Berlino invernale. I due emanavano una luce bianca dai visi e dalla pelle scoperta, fulgida a contrasto coi cappotti neri slacciati e nel buio attorno, un'oscurità muta e gravida di neve sopra la quale incombevano gli edifici di cemento armato e acciaio, le cupole e le file di finestre uguali con le persiane chiuse. Una curiosità avida l'aveva forzato a presenziare all'azione dell'uomo inginocchiato, la cui testa spariva oltre i lembi del cappotto dell'amante. L'altro uomo teneva la nuca appoggiata al muro e guardava il ragazzino in piedi all'imboccatura del vicolo con occhi famelici, di una fame che non aveva niente a che vedere con i bisogni dello stomaco.

Era la forma dell'amore, di un sentimento che Andreas, dopo di loro, aveva cercato in lungo e in largo, fra le colline, nei vigneti, oltre cancelli e palizzate. Ma gli sfuggiva, nessuno riusciva a resuscitare dentro di lui la stessa potenza e perfezione, e se da una parte era rassicurato di non dover essere messo in condizioni di resistere all'impulso, dall'altra la mancanza generava in lui il cilicio del rancore.

La sua era una famiglia di cene silenziose e orari inflessibili. Di ragazze che gli venivano presentate e che lui analizzava per cercare il punto debole: la vanità, l'intelligenza, la remissività, la lussuria. Quando lo trovava le torturava, diventava per loro un delirio, finché non si allontanavano o pregavano le madri in lacrime di rompere il fidanzamento o gridavano fuori della porta della villa come gatte in calore e dovevano venire gli infermieri del manicomio. Era facile per lui odiarle, odiare ogni intralcio in una vita dove niente andava nella direzione che auspicava, dove non accadevano miracoli per quanto sperasse pregasse imprecasse e supplicasse.

E si distrugge quello che si odia. L'assunto definiva la sua natura nazista. Andreas schiacciò la sigaretta fumata a metà sotto il tacco dello stivale. Quattro delle sue future spose si erano uccise e ne aveva scritto i nomi sulla carta da parati della sua stanza sopra il Paragrafo 175.

Spenta la campana a morto dell'ultima, il padre aveva maledetto il figlio in un interrogatorio durato una notte intera. Si chiedeva come fosse possibile che un uomo ligio al dovere com'era lui, un poliziotto della Sipo tenuto in gran conto, avesse piantato un seme del genere nel terreno degli Jüttner.

Nel suo talento, Andreas non era stato furbo. Il padre aveva covato il sospetto a lungo prima di chiamarlo nello studio e dirgli che l'aveva iscritto al Partito Nazionalsocialista Tedesco.

«Se devi finire in una lista, non sarà di quelle che mi passano sotto il naso ogni santo giorno.»

Poi, nel 1940, il figlio dello Jüttner della Sipo era finito nel grande ingranaggio del Leitstelle der Germanischen SS, dove un funzionario l'aveva esaminato e aveva deciso che il giovanotto dovesse entrare nelle SS-Totenkopfverbände(3).

Alla fine del 1942, in un giorno uguale alle decine che erano trascorse, mentre nella Sede del Comando Andreas era seduto a un tavolo davanti al quale venivano portati i prigionieri – prigionieri che portavano sul corpo le stigmate della tortura che li costringeva a vergare di propria volontà il foglio su cui era scritto che sarebbero stati imprigionati per il loro reato – era comparso un giovane francese omossessuale, catturato in casa di un altro omossessuale in atteggiamenti indubitabili. Era l'ennesimo umano difettoso condotto al Campo satellite di Schirmeck dalla divisione Kripo della Gestapo.

Andreas aveva afferrato il foglio con le generalità del prigioniero – Philippe Lefebvre, residente a Foix, ventitré anni – con le mani che tremavano. Quel giovane calamitava i suoi occhi, gli scuoteva il corpo come una febbre.

La SS Jüttner aveva ordinato che i capelli di Lefebvre facessero da imbottitura alla giacca della sua uniforme invernale, aveva assistito lo scrivano che incideva il numero d'inchiostro e aveva voluto consegnare di persona la blusa e i pantaloni di treliccio a righe e gli zoccoli di legno a 55694. Nel farlo l'aveva scavato con lo sguardo, nello stesso modo in cui il prigioniero di lì a qualche giorno avrebbe rivoltato la terra. Ma fra lui e il ragazzo che aveva cercato per undici anni si frapponeva lo spazio dell'aria gravido di imposizioni, gerarchie, rischi.

Voglio toccarlo. Andreas si guardò le mani dentro i guanti neri e si portò la destra alla bocca.

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Nel pomeriggio, la SS chiamò il prigioniero, lo portò al magazzino e gli diede del cioccolato.

Philippe lo mangiò davanti all'ufficiale, in piedi, una masticazione veloce e senza piacere. Al Campo si andava di corsa.

«Mangia con calma. Non verrà nessuno.»

Philippe avrebbe voluto congratularsi con l'ironia che era parte del suo essere, dire all'ufficiale: «Congratulazioni, riuscite a eliminare la vostra stessa razza», parlare delle notizie di seconda mano che giravano fra le baracche e vedevano Jüttner nuovo Comandante del Campo, ma non parlò. Non lo fece per paura né per tenersi una via di fuga né per ingraziarsi il soldato. Non gli veniva di dirlo. Era più della noia, più dell'esaustione. La voglia si spegneva al pensiero dello sforzo. Si portò il terzo quadratino al naso e annusò l'odore del cacao dolce. Rallentò il triturare dei denti.

«Siediti.»

Philippe fece due passi indietro, aveva già individuato una botte con una scritta in tedesco, e sedette. Riprese a sciogliere il cioccolato in silenzio e a esaminare ogni oggetto e particolare della baracca. Ormai riusciva a sognarla, la sua era la mente di un cartografo.

«Ti piace?»

«A chi non piace il cioccolato?»

«A tanti.»

Andreas si era tolto i guanti e li aveva posati sulla mensola. In piedi, assaporava gli unici istanti di salvezza della sua esistenza.

«Su cosa sono seduto?»

«Cosa?»

Philippe cercò nel dizionario del Campo i termini tedeschi che potevano aiutare la conversazione. «Sedere io su cosa?» Con le nocche della mano libera batté sul legno della botte.

«Verdura in salamoia. Conservata con sale. Ma in primavera farò fare orto dove adesso ci è...» Andreas scostò gli occhi dal prigioniero, cercava un vocabolo sfuggente, non riuscì a rintracciarlo e lasciò la frase senza compimento.

«Grazie» disse Philippe a voce bassa. Nonostante la SS gli muovesse il cuore in un frullo continuo, quasi il cuore fosse un uccello prigioniero dentro una gabbia, aveva ben chiara la natura di un boia. La cosa più importante era non permettere che Jüttner lo facesse impazzire. Quando finì di mangiare si alzò, e la SS raddrizzò le spalle.

Philippe vide la pistola nella fondina e restò nella posa di uno spaventapasseri. La permanenza prolungata nel Campo dava agli uomini la parvenza di burattini con il corpo di pezza e la testa di legno, i cui volti ogni giorno trascorso perdevano un tratto. Spariva la vitalità degli occhi che guardavano spalancati il nulla, spariva il naso che si assottigliava, spariva la bocca rattrappita e consumata dalla disidratazione e dalle ulcere.

Giorni addietro, in una pozza d'acqua, Philippe aveva visto la sua immagine di uomo disegnato da uno scolaro elementare e per un breve istante aveva avuto l'istinto di cavarsi gli occhi.

L'ufficiale ordinò al prigioniero di voltarsi, poi si slacciò la fondina della pistola e la nascose dietro una delle casse. Quindi tornò da Philippe, gli sfilò accanto, gli si mise davanti e gli chiese di togliersi la casacca.

Philippe obbedì, era il prezzo del cioccolato.

Il cibo delle ultime settimane aveva fermato il deperimento, ma Andreas trovò il ragazzo magro e pallido. Era uguale alle moltitudini che aveva visto avviarsi al giaciglio dopo l'appello della sera e non presentarsi all'appello del mattino. Quando accadeva, doveva andare con le altre guardie nella baracca, allertato dal Kapò, a constatare il decesso. Chiuse gli occhi e scosse la testa. Allungò una mano per toccare il petto del prigioniero, posò il palmo su una carne calda e compatta con qualche pelo ricresciuto che ne aumentava la sofficità.

Philippe, a occhi aperti, si lasciò palpare dalla mano ruvida con le dita spalancate e le unghie pulite che grattava la superficie della pelle e accelerava il respiro. Dentro il riquadro di sole che entrava dalla finestra sporca, in alto, vide la danza della polvere. Il vento faceva traballare i vetri. «Posso chiedere un favore?» si trovò a dire.

Andreas Jüttner provò un breve moto di stizza per le parole che avevano interrotto l'estasi che si stava raccogliendo. «Chiedi.»

«Arriva l'inverno e abbiamo freddo. Ho freddo. Mi lascereste prendere i sacchi vuoti del cemento?»

La pupilla della bestia del Gévaudan era dello stesso nero del ventre dei boschi alsaziani di notte. Aveva qualcosa di disarmante, immobilizzava. Philippe pensò alle centinaia di vittime che il lupo della leggenda aveva sparso sul suolo francese. «Vorrei imbottire la casacca.»

«D'accordo. Tu non rubare, ti do io. Li metto in un posto che decidi.»

Philippe si chiuse in un silenzio che dentro di lui era milioni di parole che si ammassavano e urlavano e prima di arrivare alla bocca si dissolvevano.

«Ti piace?» Andreas smise di toccare il prigioniero.

Privato del calore delle mani dell'ufficiale, il corpo di Philippe protestò. Era piacevole e consolante essere toccati. Dentro le mani di un altro era vivo. «Sì, ma mi toccate come un medico.»

Andreas prese un polso di Philippe, che teneva la mano inerme, e lo condusse alle sue dita. «Muovi tu come ti piace.»

«Ma perché?» Nella voce di Philippe c'era la spina aspra che faceva gridare il passero che voleva passare fra i rovi. «Perché io? Cosa volete?»

«C'è una cosa che voglio, ma non posso prenderla. Non voglio se non sei tu a darmela.»

«Cosa volete? Il culo?»

«C'è parola, in tedesco, Sehnsucht. È più di desiderio, più di volere. Tu sei quello.» Andreas aveva una voce che spaventò Philippe. «Tu sei chi ho cercato sempre, ovunque. So che è folle, tutto, qui dentro e fuori di qui.»

Folle? Per Philippe il vocabolo era troppo stretto per contenere le sopraffazioni della cattura, la vita imposta dai tedeschi, l'amore virile, la castrazione, i bastoni spezzati che le SS infilavano nel retto dei prigionieri, l'indifferenza con cui facevano ogni cosa passava loro per la testa.

Andreas era attratto dalla nudità del ragazzo francese. Lo prese per le spalle e lo spinse contro di sé.

Un moto di orgoglio scosse Philippe. «Non sentite? Sento io quest'odore disgustoso che mi porto dietro, non potete non sentirlo voi.»

Andreas respirò per calmarsi. «Se non vuoi...»

«Lo sentite che lo voglio.»

Un cane, fuori dal magazzino, si mise ad abbaiare.

«Stasera, qui. Ti porto sapone e c'è una... vasca.»

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Philippe guardava l'acqua gialla e bianca della tinozza, il pezzo di sapone che si passava sulla pelle. Dovevano essere gesti consueti, ma erano spaventosi. Non riusciva a gioire del trattamento, non gli interessava davvero puzzare o essere pulito, non aveva voglia, semplicemente, di lavarsi. Lasciò che la mano cadesse sul fondo di quella che la SS aveva chiamato "vasca".

Andreas, che fino a quel momento aveva guardato il mucchio sporco di indumenti a righe, sul quale Philippe aveva cucito storto il numero e il triangolo, venne richiamato dal pluf dell'acqua. «Ti aiuto.»

Philippe si costrinse a sollevare il braccio. Passò la saponetta, su cui si erano formate bolle piccole e vicine, disgustose, e pensò che se avesse allungato un rasoio o una cinghia o un bastone non gli sarebbe importato nulla.

All'ufficiale parve di lavare un cane mansueto. Philippe era seduto a gambe incrociate, la sua posizione preferita, e guardò il tatuaggio nero sull'avambraccio sinistro.

«Questo inverno a chi merita darò vestiti in più. Tu lavori tanto.»

«Perché io? Perché non sono ebreo o zingaro?»

Andreas muoveva il polso in movimenti circolari.

«Perché vi do retta? Avete capito che sono uno che si può raggirare? Sono bello? Vi ho visto umiliare gente costringendola a correre per il Campo mentre abbaiava.»

«Puoi parlare piano? Capisco francese alsaziano, ma se parli piano.»

«Da dove venite?»

«Stoccarda. Andavo in Alsazia per vacanze, da piccolo.»

«E l'avete trovato un bel posto per farci un recinto di maiali. Ho detto che avete fatto correre i miei compagni e avete voluto che facessimo versi da cane.»

«So come sono fatto, c'è un modo di chiamare la colpa.»

«Con me però è diverso. Non ho mai dovuto recuperare il berretto dalla rete, non sono stato bastonato dopo le torture della Registrazione, mi sfamate. Non capisco se siete buono o se... mi fate sentire uno schifoso, uno che se ne approfitta, cosa che è vera, in fondo. Voglio sopravvivere. E preferisco che sia un altro a morire. Sono schifoso e voi riuscite a tirare fuori da me ancora più orrore. Il bello è che cerco di dirlo, ma non me ne frega niente.»

«Io voglio tutto di chi amo, ma non mi importare nulla di altri. Anzi, posso odiare in modo assoluto e spregevole se mi ostacolano.» Andreas continuò la frase nella mente, era difficile tradurre l'urgenza e la collera. Se vivono quello che io non posso vivere, se godono quello da cui io sono escluso, se mi mostrano la loro felicità, se non fanno niente e sono innocenti ma io so, nel profondo, che sono colpevoli. A loro insaputa sono colpevoli di non vedere l'effetto che fanno, dovrebbero amarsi nel buio e nel silenzio. Ma vogliono la luce, vogliono che il mondo intero sappia quanto sono fortunati, uccidono a ogni uscita, a ogni parola, ogni maledetto giorno che per loro è degno, ogni giorno che li fa piangere perché è andato ed era troppo bello e non si è fermato, mentre per quelli come me non è che una marcia di minuti senza significato

L'ufficiale gettò la saponetta nella tinozza, si slacciò la giacca grigioverde, tendendo i bottoni in una furia di scatti e di imprecazioni che piegava e distendeva la muscolatura. Abbassò i calzoni, si accorse degli stivali e allora si gettò sul pavimento di legno a sedere, afferrò la pelle nera e la stropicciò, tirò in un movimento verso l'esterno finché lo stivale di sinistra sbatté contro la botte di salamoia e il destro uscì senza sforzo e venne lasciato in piedi come quando il Comandante Buck si levava la gamba di legno e la gamba di legno restava in disparte, inutile e impressionante.

A Philippe venne da ridere, un riso isterico e allo stesso tempo quasi dolce.

Andreas finì di svestirsi.

Philippe lo guardò dai polpacci al viso, il corpo di un uomo in salute. Ne vedeva parecchi nella vita prima della prigionia. Rimase impressionato e commosso. Quel corpo portava il sentore di una vita che sapeva perduta per sempre, anche nel caso fosse riuscito a uscire vivo dal Campo. Ma quel corpo apparteneva a un ariano con i peli biondi e un membro tutt'altro che floscio e avvizzito.

Andreas sollevò Philippe e lo spinse contro di sé, come aveva fatto il pomeriggio. Adesso il ragazzo era circondato dal profumo sottile di pino della saponetta e dalla frescura dell'acqua che gli scorreva addosso.

Senza abiti i due non avevano l'identità che il Campo e il Reich imponevano.

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Sei minuti.

«Voglio tutto prima che sia finita. Lo vuoi anche tu?»

«Lo voglio.»

La grande luna sbiadita era quasi intera. Il vento soffiava dalle montagne e sgombrava la nebbia. Andreas sentiva che il suo corpo era fluido e malleabile, una marea. Philippe sentiva di essere tornato alla sua forma originaria, una forza risorta dal nulla.

«Sono felice di toccarti, di parlarti. Voglio venire per stare un po' dentro di te. La mia anima è umida come la notte. Com'è possibile restare indenni non lo so. Anche quando non dici nulla basta la traiettoria del tuo sguardo a immobilizzarmi. Il tuo viso. Le tue scapole nude. I tuoi fianchi combattono battaglie segrete, dialogano con la morte. Appoggiati al muro, fidati di me. Non prego, ma sono in ginocchio davanti a te.»

Philippe ascoltò il suono della lingua tedesca. Il fiato si disperdeva.

«Rivolgi te al muro, fidati di me.»

«Aggiungerai il mio nome alla tua lista.»

«Cosa?»

«Tu scrivi il mio nome sulla lista. Durchstecherei(4).»

«No, non voglio. Non posso. Heines, anche lui. Lui scriveva lettere d'amore.» E in tedesco, Andreas disse: «Tu sei quel fantasma che ingrossa le mie notti.»

«Ho provato. Ho provato con il dito» disse Philippe. C'erano altri prigionieri con il triangolo rosa, ma lui non li considerava, gli facevano ribrezzo.

«Lo so. Siamo uguali.»

«Vieni.»

Sei minuti.


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(1) Espressione usata dalle SS per identificare Rom e Sinti.


(2) Letteralmente "Fotte in culo". Prima del triangolo rosa, gli omosessuali portavano la lettera A sulla casacca.


(3) Letteralmente "Unità Testa di Morto", reparto speciale adibito alla custodia, alla disciplina e alla rieducazione dei prigionieri nei Campi di Concentramento.


(4) Termine in uso nei Campi con cui si definivano i rapporti illegali fra detenuti e SS, e gli scambi clandestini di corrispondenza.

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