{Epilogo 2° - Fine seconda parte}
"But I can't start your cold heart beating.
You're so far gone, but I'm not leaving,
when all I know is you.
I've been looking for a way to bring you back to life.
And if I could find a way, then I would bring you back tonight.
I'd make you look, I'd make you lie, I'd take the coldness from your eyes.
But you told me: «If you love me, let it die»."
-Starset, "Let it die"
[Epilogo secondo – Fine seconda parte]
Jane
Un tuono squarcia il silenzio. La pioggia ticchetta contro la finestra. L'acqua scivola lungo il vetro. Ogni goccia scandisce il lento scorrere del tempo, ma ogni secondo risulta essere sempre uguale all'altro. Fuori, a Londra, la tempesta infuria sulla città. Va avanti da ore. Magari da giorni. Non ne sono sicura. Forse perché si mescola alla mia bufera, si fonde con essa fino a divenire un solo urlo mai interrotto. Il tempo passa, ma io nemmeno lo sento. È già un mese che non lo sento. Ogni ora, ogni giorno... Ogni cosa sempre uguale, vista da questo letto. Niente di diverso, nessuna nuova sensazione. E forse non sentirò nulla del genere mai più.
«Jane?»
Spalanco gli occhi, con un moto di sorpresa che mi agita lo stomaco. Un attimo solo di improvvisa speranza che subito si affievolisce. Anche oggi ho sentito la sua voce. Mi capita spesso, ultimamente. Sento la sua voce ovunque. Nel silenzio e nella pioggia. La sento di giorno e di notte. E tutte le volte è improvvisa, una sorpresa. Mi capita addirittura di sostituire la voce degli altri con la sua. Senza pensare, senza volerlo, la ritrovo sempre con me. Ed ogni dannata volta, mi illudo che possa essere lui, che possa essere tornato per me. Sono attimi brevi di ritrovata gioia e che, come tutte le illusioni, si spengono e muoiono con la stessa improvvisa velocità con cui si presentano. Ed io, lentamente, non faccio altro che sprofondare nel buio insieme a loro.
«John sta prendendo da mangiare. Chiede se italiano va bene»
Mi stringo nelle spalle, avvolgendomi ancora di più nel lenzuolo. «Non ho molta fame, Al...»
Alan sospira, poi si stacca dallo stipite della porta su cui era appoggiato e torna a parlare al telefono. «Ha detto di non voler mangiare, ma tu prendile qualcosa lo stesso. Sì, penso che potrebbe andare bene. Sì... Okay. Grazie, John. Sei un amico»
Poi chiude la chiamata e se ne sta per qualche attimo in silenzio. Uno, due, tre, prima di sospirare. Di nuovo. Sono quasi tre settimane che è qui per aiutarmi col trasloco e sospirare è forse la cosa che si ritrova a fare più spesso. Quasi come se lui fosse addirittura più stanco di me.
«Jane?» mi chiama ancora, tornando in camera. «John ha detto che ti porta un po' di lasagna, okay?»
Non rispondo. Non accenno nemmeno ad un movimento della testa, delle spalle, delle mani... Nulla. Spero che così capisca che voglio stare sola. Che non voglio vedere né parlare con nessuno.
«Jane?» Rimane zitto, ad aspettarmi. «Ascolta...» riprende, dopo qualche secondo, sedendosi ai piedi del letto. «So che per te è un momento strano, ma... Sai che con me puoi sempre parlarne, no?»
Mi rannicchio di più su me stessa, cercando di allontanarmi da lui. Per paura che possa scoprire quanto sia effettivamente debole, oppure che non sono mai stata la ragazza forte che ammirava, o... Non lo so. Magari di deluderlo.
«Voglio soltanto stare da sola...» mormoro, nascondendo la testa sotto al lenzuolo.
«Jane...»
«Va' via, Al!» ripeto, alzando un po' il tono, come se cercassi di intimorirlo.
Non mi volto, ma posso benissimo avvertire il suo sguardo smarrito. Quasi potrei sentirmi in colpa, ma non lo faccio. Non so perché. È la prima volta che rimango impassibile davanti al dispiacere che ho provocato. Ma stavolta è diverso. Stavolta voglio solo stare da sola. Spero quasi che, vedendomi così scontrosa, mio fratello decida di andarsene. Che capisca che ho bisogno di altro tempo per elaborare, capire, accettare. E che devo farlo da sola.
Rimango per un po' con la testa nascosta sotto al lenzuolo, poi Alan si alza dal letto. Rimane qualche secondo in piedi, a fissarmi. Anche se gli do le spalle, so perfettamente che mi sta guardando, troppo imbarazzato per abbassare lo sguardo e troppo preoccupato per la mia incolumità per smettere di tenermi d'occhio. Lo conosco fin troppo bene. E per un attimo solo, posso quasi credere che abbia deciso di andare via. Che abbia finalmente capito che non voglio nessuno, adesso.
Ma capisco troppo tardi di star sbagliando.
Lo sento avvicinarsi di nuovo al letto e sdraiarsi al mio fianco. Mi cinge la vita con un braccio, stringendomi a sé, e appoggia la fronte sulla mia spalla.
«Dai, Al, vattene...» borbotto, cercando inutilmente di liberarmi dalla sua presa.
Ma lui, per tutta risposta, si lascia sfuggire un verso altrettanto stizzito, stringendomi ancora di più a sé. E allora rinuncio a lottare, anche solo a tentare di mandarlo via. Soprattutto perché nell'esatto istante in cui sento il suo respiro cominciare ad andare a tempo col mio, mi rammento di quanto per me la sua presenza sia fondamentale. Di quanto lo sia sempre stata. E la sua voglia di aiutarmi, che non scema mai nel corso del tempo, diventa persino più forte della tempesta su Londra e del mio grido di dolore. Supera entrambe, e urla di voler rimanere insieme a me.
«Come stai, oggi?» chiede, tentando subito di cavarmi qualche informazione in più dalla bocca, e non i soliti, stanchi ed incomprensibili borbottii.
E ora mi ritrovo, per la prima volta dopo mesi, davanti ad una domanda a cui non so dare una risposta. In effetti, non so nemmeno se me lo sono mai chiesto veramente.
'Come stai, Jane? Come stai davvero?'
«Non lo so...» è tutto quello che riesco a dire. «Non lo so, Alan...»
«Ti va di parlarne un po'?»
Un'altra domanda che mi lascia senza parole. Senza repliche. Senza nulla, oltre all'amaro in bocca.
'Parlarne mi aiuterà? In che modo?'
Non lo so. Ecco tutto. È ormai un mese che non so più niente a proposito di me, della mia vita, di come sto o non sto. Ormai un mese che non so più nulla di Sherlock, nonostante quel punto, quella fine che, minacciosa, aleggia sopra alla mia testa. Come una ghigliottina pronta a tagliare in due ogni mia ultima speranza. Ed io non voglio, non posso... Non più. Non voglio che questo sia l'ennesimo punto della mia vita. Non credo che, a lungo andare, riuscirei a sopportarlo. Non posso dire addio a Sherlock per sempre. Non ora. Non dopo quello che ho scoperto.
«Gliel'ho detto, Al...» mormoro, senza forza. «Stamattina, dopo averlo saputo, sono andata a dirglielo»
«Dirglielo?» ripete lui, confuso. «A chi?»
«A Sherlock...» rispondo, prima di fermarmi qualche secondo, ancora una volta. «Ho dovuto farlo, Al. Lui aveva il diritto di saperlo...»
Woolwich Cemetery, Londra, Inghilterra•17 Giugno 2012
«La senti, Sherlock? Riesci a sentire la pioggia? Cade. Cade senza sosta, goccia dopo goccia. Si schianta al suolo, senza farsi male, e riempie l'aria di quell'odore di umido che tanto mi piace. Cade a terra, su questo prato, cospargendo l'erba di dolci goccioline, e farà germogliare mille fiori, che porteranno tanta vita in questo luogo tanto triste. Si confonde con le mie lacrime, che non fanno altro che corrermi sul viso. Quasi fanno a gara tra loro, a chi per prima raggiungerà il suolo. A chi per prima raggiungerà te. Ed io, Sherlock... Io mi sento così sola... È più forte di me. È sempre più forte di me. Perché tu sei stato il mio "C'era una volta", e adesso... Adesso non ci sei più»
Jane arrestò di colpo ogni suo pensiero, risvegliandosi con un sobbalzo a causa del rombo di un tuono che spezzò in due le sue parole. Alzò in fretta gli occhi e si guardò attorno spaesata, come se avesse dimenticato dove si trovasse, in quel momento.
La pioggia cadeva lenta su Londra: nonostante la stagione estiva fosse ormai alle porte, il cattivo tempo aveva deciso di non rinunciare a buttar giù tutta l'acqua che gli pareva. E, infatti, quel giorno il cimitero era completamente deserto. Jane era sola, ferma nel bel mezzo di quel vasto prato, eccezion fatta per un ragazzo sui trent'anni, con un ombrello rosso e in piedi davanti ad una lapide, che la ragazza osservò per qualche attimo, prima di distogliere gli occhi e riportarli di nuovo davanti a sé. Ai propri piedi, si ergeva la tomba di Sherlock, nera nel grigio della pioggia, le lettere dorate che parevano brillare di vita propria. La vita che Sherlock aveva scelto di buttar via.
Jane era rimasta lì, immobile, con gli occhi fissi sulla lastra di granito scuro per chissà quanto tempo. L'ultima cosa che ricordava, prima che cadesse in balia dei ricordi e del rimorso, era l'aria fredda e le goccioline leggere che le bagnavano la testa. Nient'altro. E adesso che s'era risvegliata, riuscì a notare che la tempesta vera e propria era in procinto di cominciare. Ma lei non se ne curò più di tanto. Rimase ferma, ancora una volta, senza alcuna intenzione di muoversi. Osservò le lettere dorate per qualche minuto, mentre cercava, con ogni sua briciola di volontà rimanente e di forza sbiadita, un minimo di voce per tornare a parlargli, dopo tanto tempo. Ma le parole, stranamente, non le venivano. Le cercava, disperata, ma del tutto invano.
La pioggia, intanto, continuava imperterrita, ogni secondo con sempre maggiore forza, con rabbia crescente e violenta di attimo in attimo. Una forza che lei non avrebbe più ritrovato, e una rabbia a cui, inconsciamente, aveva permesso di divorarla, un poco ogni giorno.
Jane abbassò lo sguardo sulle proprie mani, che si torturavano l'un l'altra ininterrottamente, e domandò a sé stessa per quale motivo fosse andata lì. Perché farlo, sotto la pioggia e incontro al dolore, invece di aspettare, attendere che passasse altro tempo?
Perché di tempo non ce n'era più. Ecco perché. Non aveva fatto altro che rimandare, di secondo in secondo, ogni tentativo di poter rimettere a posto le cose. Passava ogni sua giornata a pentirsene. E adesso... Adesso non poteva più tornare indietro, ma solo continuare a camminare in avanti. Anche se nel buio più nero, brancolando ad ogni singolo passo.
«Io... Io non ce la faccio più, Sherlock...» mormorò, facendo uscire a fatica quelle parole dalle sue labbra. «Non posso più tentare di fingere davanti agli altri, pretendere che vada tutto bene, che non senta niente, che non mi importi più, che sto solo cercando di accettare questa tua decisione che considero così sbagliata... Perché so perfettamente che sarei solo un maledetta bugiarda, che non farei altro che mentire a tutti... Persino a te» Si fermò un secondo, preparando con cura le parole successive, che sarebbero state la sentenza definitiva che aveva deciso, col passare di quelle settimane, per entrambi. «Ma, in fondo, siamo pari, no? Ci siamo spezzati la vita a vicenda, pur di non ammettere quella che era ormai diventata l'evidenza»
Jane aveva già deciso quale sarebbe stato il suo primo passo per poter scontare quella pena che, in fin dei conti, s'era inflitta da sola: sarebbe andata via. Lasciare Londra, tornare a Nottingham... Sperava l'avrebbe aiutata ad andare avanti. A ricominciare con meno fatica, lontana da quel luogo che le riportava alla mente ricordi fatti di dolore ancora bollente. E non le importava se ciò voleva dire fuggire via, rompere la promessa fatta a Sherlock di rimanere la stessa persona di sempre, anche senza di lui. Lei non ci riusciva. Era sicura che non ci sarebbe mai riuscita.
«Perdonami se me ne vado via così, se non terrò fede alla parola data, ma... Non ci riesco. Non posso restare qui, a pochi passi da un 221B vuoto, dal quale non uscirà più una sola nota di un violino, un urlo annoiato, o una pallottola che trapasserà il vetro. Non riesco a pensare ad una Londra più in pericolo che mai, alle cascate di Reichenbach senza il loro eroe, ad un mondo senza te. Perché un pezzo di granito nero non potrà mai sostituire quel che eri, quello che eravamo...»
Sherlock non sarebbe stato d'accordo, per nulla. E lei lo sapeva. Sapeva che lui non glielo avrebbe mai permesso. Le avrebbe imposto di lottare, di farsi valere, di continuare a testa alta per la sua strada. Non l'avrebbe lasciata scappare. Lui avrebbe tirato fuori il meglio di lei, l'avrebbe spinta a sfruttare al massimo tutto il potenziale della sua intelligenza e forza d'animo. Come aveva sempre fatto, sin dal primo momento in cui si erano incontrati. Ma lui non c'era più. Sherlock non era più lì, insieme a lei. Jane era rimasta sola. E nessuno le avrebbe mai restituito la volontà di lottare.
Anche se combattere era diventata l'unica alternativa che le restava. Soprattutto dopo i risultati che John le aveva portato, quella mattina, e per i quali si era precipitata tanto in fretta da Sherlock. Ecco qual era il vero motivo per cui era andata al Woolwich Cemetery, incurante della pioggia e dei fulmini: per poterglielo dire, fiduciosa che lui l'avrebbe sentita. E mentre era lì, davanti a lui, si vide scorrere innanzi agli occhi le immagini di un finale alternativo. Pensò che, se Sherlock non si fosse buttato da quel dannato tetto, forse... Forse, con lui, sarebbe stata in grado di costruire quel futuro mai sognato, la vita ideale che non aveva mai sperato di ottenere.
«Quello che speravo saremmo stati, insieme...»
Ma Sherlock non c'era. Non più. Non avrebbe mai potuto risponderle, né tantomeno tornare indietro da lei. Era tutto perduto, ormai, e Jane sarebbe stata costretta ad andare avanti e lottare da sola, in un campo di battaglia già massacrato. Una guerriera solitaria in mezzo alla distruzione.
Aspettò ancora qualche secondo, sebbene sapesse che non sarebbe affatto servito. Ma era come se sperasse che, così facendo, nulla di tutto ciò si sarebbe mai avverato.
Prese un respiro, tanto profondo quanto il vuoto che aveva nel petto, e alla fine si lasciò sfuggire quelle due parole. Le sussurrò appena, soffiandole attraverso le proprie labbra. Attese immobile una risposta, un segno, pur sapendo che non sarebbero mai arrivati. E allora le ripeté, con ancora meno forza di prima, più per convincere sé stessa che tutto quello era reale. Più reale di quanto potesse mai volere. Avrebbe voluto ripetere per una terza volta, urlando, ma si rese conto che lui, probabilmente, l'aveva già sentita. E quel silenzio come risposta rappresentava la stessa replica che, di certo, lui le avrebbe dato.
Jane aspettò ancora, i pugni serrati e il cuore che le pulsava nelle tempie. Aspettò, sperando, e sperò aspettando. Ma sempre e solo inutilmente.
«Rispondimi...» riuscì a mormorare, ancora. «Andiamo, Sherlock, rispondimi!» Aspettò di nuovo, anche se, ormai, nemmeno sapeva più cosa. «Smettila di fare così!» urlò, non riuscendo più a trattenersi. «So che stai mentendo, tu menti sempre! Quindi adesso finiscila di raccontarmi balle, e dammi una maledetta risposta!»
Il tono di Jane cresceva ad ogni parola, tanto da superare l'urlo della pioggia, attirando persino l'attenzione del ragazzo con l'ombrello rosso.
«La colpa è anche tua, Holmes, quindi adesso piantala di fare il cretino! Torna qui e aiutami a trovare una soluzione!»
Il silenzio che ne seguì fu rotto da un ennesimo tuono. Le gocce di pioggia fendevano l'aria come lame, cadendo a terra con un suono assordante.
«Smettila...» disse ancora Jane, furente. «Smettila di fingere, e torna immediatamente indietro!»
Il dolore si tramutava in rabbia, la rabbia di nuovo in dolore, come un pendolo che oscillava tra le sue continue indecisioni, la sua perenne confusione... E alla fine si fermò. Esattamente nel mezzo, dove non aveva ragion d'essere. E poi fu un secondo. Un secondo solo, e tutto il nero del mondo oscurò la mente di Jane, come un telo spesso intessuto di tutta la pena che non aveva ancora esternato. Si gettò al suolo, senza pensare, e cominciò a buttare via la terra umida con le mani. Scavava e urlava. Senza smettere, senza ragionare. Non più.
«Torna qui, Sherlock, torna qui!» gridava, spezzandosi le unghie, piangendo disperata. «Torna, torna, torna...» Rallentò, sentendosi d'improvviso troppo stanca persino per essere arrabbiata. «Ti prego...» singhiozzava. «Ti prego, Sherlock, torna indietro... Ho bisogno di te...» Posò la fronte sulla terra bagnata, i pugni chiusi posati sull'erba. «Noi abbiamo bisogno di te...»
"And you left me more dead than you'll ever know,
when you left me alone."
-Starset, "Let it die"
Sin da piccola, Jane poteva dirsi non sicura di tante cose. Poteva dire di non essere sicura dell'infinità del tempo, della vastità dell'universo, del livello di stupidità della gente. Poteva dirsi non sicura di quello che ne sarebbe stato di lei, nel futuro. Della sua carriera, dei suoi voti, dei suoi studi. Ma quando promise alla sé stessa bambina che lei non si sarebbe mai innamorata... Beh, decise che quella sarebbe stata l'unica certezza assoluta ed inviolabile che avrebbe avuto su sé stessa, sul suo futuro, sulla sua vita. Sarebbe diventato il cardine principale attorno al quale avrebbe fatto ruotare tutta la sua esistenza. L'amore sarebbe stato l'unico sentimento verso cui non si sarebbe mai azzardata a muovere anche un solo passo. Non se lo sarebbe mai permesso.
Quella sua opposizione durò per molti anni, durante i quali Jane imparò a conoscere il dolore, la solitudine, la paura. Conobbe la rabbia e l'odio, ma solo per poter poi meglio capire e apprezzare la felicità, la fiducia. Conobbe l'affetto. Imparò dalla speranza. Ma l'amore no. L'amore mai.
Era ormai riuscita a convincersi che tra lei e l'amore sarebbe stata capace di erigere per sempre un muro, così alto da risultare insormontabile da tutti. Persino da lei.
Quello che non sapeva, però, è che l'amore non può essere fermato da dei semplici mattoni. L'amore è talvolta tanto potente da buttare giù tonnellate di cemento con un solo dito. L'amore arriva all'improvviso, senza farsi vedere. Si insinua di nascosto nell'anima e la cattura. La tiene in ostaggio e l'unica soluzione, a volte, risulta essere arrendersi. Anche se l'amore è disarmato. Anche se l'unica arma di cui si avvale sono le parole. L'amore abbatte i muri. E non soccombere ad esso diventa la sfida più difficile contro cui tentare di vincere.
Jane se ne rendeva conto solo adesso. E capire per la prima volta di essere così impotente la faceva sentire... Debole. Lei, che era sempre rimasta in piedi, che non si era mai piegata sulle ginocchia, sconfitta da un nemico senza armi. E adesso che era là, davanti a quella lapide, ora che tutto era diventato inutile, che senso aveva continuare a resistere a sé stessa, se arrendersi e accettare la realtà dei fatti non era che l'unica opzione rimasta?
«Mi scusi?»
Jane si tirò di scatto di lato, nel sentire una mano che, leggera, le si era posata sulla spalla. Il respiro accelerava, mentre la pioggia continuava a cadere dal cielo.
«Si sente bene?»
La ragazza alzò lo sguardo e tentò di mettere a fuoco la figura inginocchiata davanti a lei, nonostante gli occhi, ancora bagnati di lacrime, e le gocce di pioggia fitta. Piano piano, iniziò a distinguere un volto dall'espressione preoccupata, un paio di occhi verdi che la guardavano con intensità, una massa di capelli biondi e un ombrello rosso. I due si scrutarono per parecchi secondi, il ragazzo in attesa di una risposta e Jane intenta a trovarne una. Il tempo, intanto, correva veloce davanti a loro, e la tempesta si faceva sempre più forte.
Alla fine, il ragazzo sorrise. «Venga, o si prenderà un bel raffreddore» azzardò, tendendo a Jane la propria mano. «Le offro un tè. Le va?»
Lei rimase ferma a guardarlo. Si rannicchiò come un gatto spaventato, il respiro frenetico. Scrutava l'altro con fare sospettoso e si chiedeva, confusa, se fosse il caso di accettare la sua proposta. Avrebbe voluto alzarsi e fuggire, correre veloce sotto alla pioggia, ma qualcosa la bloccava. Nemmeno lei sapeva bene cosa. Forse quel sorriso, così stranamente calmo e rassicurante.
Alla fine, accettò. Con una leggera incertezza, alzò la mano e la allungò verso quella del ragazzo che, una volta afferrata, l'aiutò ad alzarsi in piedi.
Il resto Jane non lo ricordava. E anche se fosse stato, tutto quello che le rimaneva nella memoria era solo una serie d'immagini confuse e sconnesse.
Una strada. La pioggia. L'asfalto bagnato. L'odore di umido. L'insegna luminosa di un locale. L'aria calda. Un ombrello rosso poggiato alla parete.
Alla fine, si ritrovò seduta su una poltroncina di vimini, davanti ad un tavolino, con una giacca non sua poggiata sulle spalle. Alzò lo sguardo e si voltò verso la finestra, dall'altra parte del locale, attraverso cui si poteva appena intravedere il muro di recinzione del cimitero.
Nei pochi attimi in cui si trovò sola, si chiese cosa ci faceva ancora lì. Si chiese per quale maledetto motivo era finita per ridursi in tale stato. Si chiese perché quella sorte era dovuta capitare proprio a lei. Si chiese perché stava permettendo a sé stessa di disperarsi ancora, di soffrire ancora. Si chiese perché non si era buttata anche lei, quel dannato giorno.
«Ecco il suo tè»
Il ragazzo dall'ombrello rosso si avvicinò al tavolo con due tazze fumanti, posate su un vassoio insieme ad un piattino con dei biscotti. Lo poggiò sulla superficie in legno chiaro, posizionando poi una tazza davanti a Jane e l'altra davanti a sé, dopo essersi seduto di fronte alla ragazza.
«Faccia attenzione, ché è ancora bollente» disse, con un sorriso amichevole.
Jane lo squadrò per qualche secondo, prima anche solo di decidersi a toccare il manico della tazza con la punta delle dita.
«Grazie...» mormorò, ricambiando timidamente il sorriso.
«È stato un piacere, signorina...»
«Oh, Jane»
«Paul, molto lieto» si presentò il ragazzo, allungandole la mano da sopra il tavolo, e che lei strinse appena, prima di abbassare gli occhi, imbarazzata.
Tra i due cadde una coltre pesante di totale silenzio, durante il quale Jane cominciò a ruotare il cucchiaino nella tazza, fissando come ipnotizzata la fettina di limone che seguiva quel dolce movimento, in una coordinazione assurdamente perfetta. Si ritrovò a desiderare che anche i suoi pensieri potessero mettersi d'accordo su qualcosa di razionale e preciso...
«È sempre così, i primi tre mesi»
Jane alzò di scatto lo sguardo verso il ragazzo biondo, che era intento a mordicchiare un biscotto alla cannella. Rimase in silenzio per un po', a bocca aperta e senza alcuna parola. Come se non avesse ben intuito ciò che l'altro le aveva appena detto.
«Come, scusami?»
«Quando perdi qualcuno, voglio dire» specificò lui, a bocca piena. «I primi tre mesi sono i peggiori, di solito. Poi passa, anche se lentamente e in modo piuttosto doloroso»
Jane inarcò le sopracciglia, guardandolo con aria sospettosa. «Come fai a sapere che sono ancora i miei primi tre mesi?»
«Ho letto la data sulla tomba» rispose l'altro, con semplicità.
«Ah, sì...»
«Era il tuo fidanzato, giusto?»
Le parole si persero nell'aria calda del locale, spegnendosi con il brusio degli altri clienti. Jane rabbrividì, non appena si rese conto del significato di quella domanda. Non sapeva se per quel "era", quel tempo al passato che rendeva Sherlock ancora più morto, o se perché nemmeno lei conosceva la risposta. Dopotutto, nemmeno era sicura se per lui la loro "storia" non era stata altro che un bluff o meno.
«Era il mio vicino di casa» rispose, infine, dandosi poi della stupida per la risposta talmente poco credibile.
«Non per mancarti di rispetto, eh, ma quella non era una scenata che si fa ad un vicino di casa»
Jane prese un respiro, per poi cominciare a mordersi il labbro con insistenza. Si sentiva come un ladro colto sul fatto e a cui non restava altro che confessare. Eppure non se la sentiva di confidarsi con uno sconosciuto. Non poteva parlargli di sé e del suo dolore, che nessuno avrebbe mai capito. Quindi, alla fine, decise di mascherare appena la verità, così da ritrovarsi a metà strada tra il mentire e il non farlo.
«Eravamo amici, ma...» cominciò, fissando il tè nella sua tazza. «Insomma, credevo che stesse per nascere qualcosa, ecco...»
In fin dei conti, non era una bugia. Lei aveva sperato davvero che potesse esserci qualcosa di più. Aveva sperato davvero che Sherlock fosse quell'eccezione che aspettava inconsciamente da tempo immemore.
Paul annuì, iniziando poi a sorseggiare il suo caffè nero. «Capisco...» mormorò, posando poi la tazza sul tavolo. «Brutta storia, eh?»
«Si è suicidato»
Jane lo disse senza pensare. Anche se quella non sarebbe dovuta essere la risposta a quella domanda, né a nessun'altra domanda su Sherlock che le avrebbero posto. Eppure, fece semplicemente uscire quelle parole dalle sue labbra, che le avevano trattenute per troppo tempo, fino a diventare un peso insopportabile in fondo alla gola. Si sentì sollevata per un attimo, solo per poi rendersi conto di quanto terribile fosse la realtà dei fatti. Terribile ed immutabile.
«Oh» fece Paul, improvvisamente a disagio. «Mi... Mi dispiace davvero. Io non avevo idea...»
«È tutto okay» tentò di rassicurarlo Jane, con un gesto della mano, portandosi poi la tazza alle labbra, nel tentativo di interrompere al più presto le proprie parole.
«Mi dispiace davvero tanto...» continuava lui, torturandosi le mani con fare nervoso. «Deve essere stato difficile, per te»
Tutto quello che lei fu in grado di fare in risposta fu scrollare le spalle. Non aveva più parole, né frasi, né spiegazioni. Nemmeno per sé stessa. Nulla, se non gesti banali e apparentemente superficiali che, però, nascondevano più parole di quante sarebbe stata in grado di dire, e tanti sentimenti troppo difficili da esprimere.
«E tu?» chiese, infine, tentando di sviare il discorso da sé. «Come mai qui, nonostante questa pioggia?»
«Ah, ehm...» fece l'altro, abbassando improvvisamente lo sguardo. «È per un anniversario, a dirla tutta. Sono quattro anni che ormai non ne manco uno, e...» Si bloccò d'un tratto, mentre fissava il vuoto. Poi tentò di sorridere, riuscendo solo a fare una smorfia triste e malinconica. «Sì, insomma... Non potevo non venire a causa di quattro sole gocce, no?»
Jane si lasciò sfuggire una risatina leggera, nel sentire quelle parole, perché erano le stesse che si era detta lei quella mattina, nel decidere di correre al cimitero. Erano le stesse parole con cui aveva lasciato Alan, convinta che nemmeno la pioggia, i fulmini, i tuoni e l'aria fradicia sarebbero riusciti a fermarla.
«So come ti senti, comunque, se la cosa può esserti d'aiuto» continuò Paul, gli occhi fissi sul biscotto lasciato a metà. «Anche io ho perso la persona che amavo»
«Davvero?» chiese lei, accigliandosi appena per la strana coincidenza.
Il ragazzo annuì, il capo ancora chino. «Non che lui si sia suicidato, eh, ma è... Solo per dirti che so bene come tu possa stare, adesso. Ricordo che i miei primi tre mesi sono stati un vero inferno, ma poi sono stato costretto ad imparare ad accettare la cosa»
'Lui?'
«Oh» fece Jane, fermandosi con la tazza a mezz'aria. «Oh, mi dispiace» disse, poggiandola di nuovo sul tavolo. «Com'è successo?»
«Cancro» rispose Paul, con semplicità, rialzando lo sguardo. «Era malato da tempo, quindi in realtà sapevo cosa stava per succedere, ma... Dirgli addio ha fatto male lo stesso. E, ad essere sincero, la sua assenza in casa è qualcosa a cui faccio ancora fatica ad abituarmi»
«Era molto che...» Jane si fermò, abbassò improvvisamente lo sguardo e si mise a cercare con cura le parole adatte da utilizzare. «Che stavate insieme?»
«Oh, andiamo!» rise Paul, in una maniera tanto spontanea e limpida da fare quasi invidia. «L'omosessualità non dovrebbe più essere considerata un tabù, o sbaglio?»
«Oh, no, no!» s'affrettò a precisare Jane, muovendo una mano. «È solo che... Ecco, non vorrei...»
«Cosa, offendere la mia sensibilità, o qualcosa del genere?» completò lui, continuando a sorridere. «Beh, non penso che tu possa dire niente di peggiore di quanto facciano già gli altri, no?»
«No, ma...» Si lasciò sfuggire una risatina, nel tentativo di abbassare la tensione. «Non so come comportarmi, ecco...»
«Comportati come ti comporteresti con qualunque altro sconosciuto che si mette a parlare con te dei tuoi lutti» rispose il ragazzo, rivolgendole uno sguardo complice, prima di bere un altro sorso di caffè. «Comunque sì: eravamo fidanzati dai tempi dell'università e abbiamo vissuto insieme per quasi cinque anni, prima della sua morte»
Jane chinò la testa, fissando gli occhi nel liquido scuro che si stava gradualmente raffreddando. «Deve mancarti davvero molto...»
Paul sospirò, diventando improvvisamente malinconico. Più malinconico di quanto il suo sorriso fosse capace di nascondere, ma meno di quanto i suoi occhi potessero esprimere. «Non sai cosa darei, per potergli parlare di nuovo, per poter fargli sapere che continuo ad amarlo, nonostante tutto» Poi si strinse nelle spalle, come per scrollarsi di dosso quella patina di tristezza. «Ma che ci vuoi fare? Non si possono cambiare le cose con un semplice schiocco di dita»
La ragazza si fermò a guardarlo. Si concentrò sui movimenti fluidi delle mani, sul sorriso che ormai sapeva essere falso, sugli occhi persi verso la finestra. Poi abbassò di nuovo lo sguardo, si scostò una ciocca di capelli umidi dietro l'orecchio e prese a fissarsi le dita della mano destra, ancora strette attorno al manico della tazza. Perché, in fin dei conti, lei ci aveva già provato centinaia di volte, a cambiare le cose, ma ogni tentativo risultava essere sempre una delusione dopo l'altra, che non faceva altro che farle perdere fiducia in sé stessa.
«Già...» mormorò, dopo poco, con un filo di voce tanto sottile da sembrare inesistente.
'Proprio non si può...'
«In ogni caso, penso che lo sappia già» riprese, alzando la testa. «Dopotutto, devi aver avuto l'occasione per farglielo sapere, o sbaglio?»
«Perché, tu no?»
Jane si bloccò. Perché, con una semplice domanda, Paul era riuscito a trovare il suo rimorso più grande, la colpa che l'afferrava di notte e non le permetteva di dormire. E lei, inerme, glielo lasciava fare, perché sapeva che era l'unica pena in grado di farla redimere.
«Ancora non sapevo che dirglielo sarebbe stato così importante...»
Se lo diceva tutte le notti, la sola scusa che era riuscita a trovare, e tutte le notti lottava contro la voglia di smetterla, di desiderare di non svegliarsi mai più. E quando, al mattino, si ritrovava ancora in vita, si diceva che, forse, non aveva ancora sofferto abbastanza.
«Cosa gli diresti, allora?» le domandò a quel punto Paul. «Se ne avessi l'occasione, cosa vorresti che sappia?»
Ancora una volta, Jane si ritrovò senza parole. Si fermò a pensare, cercare qualcosa che doveva fargli sapere a tutti i costi. E, con sorpresa, si chiese cosa sarebbe stato. Cosa, oltre alle parole che gli aveva già detto, gli urli che gli aveva lanciato, le lacrime che aveva versato.
«Gli direi che...» cominciò, fermandosi subito, ma per un momento solo. «Gli direi che le sue bugie non mi importano più» rispose, alla fine. «Gli direi che per me rimane una persona meravigliosa, anche se con tutti i suoi difetti. Gli direi che per me era speciale, perché riusciva a far sentire speciale anche me. E gli direi anche che mi dispiace per come mi sono comportata, e che mi sento responsabile per tutto quello che è successo, e...» Si fermò di nuovo, per prendere un po' di fiato. Per prepararsi, ancora una volta, a mettere in fila i suoi pensieri ed affrontarli. «E gli direi che, nonostante tutto, io non cambierei nulla, di noi due. Nulla, se non come sono andate a finire le cose. Gli direi che sono disposta a rinunciare a tutto il mio orgoglio, pur di evitare di mettere una fine tra noi»
Avrebbe rinunciato alle sue debolezze. Avrebbe rinunciato ai suoi principi. Avrebbe rinunciato a tutto, persino alla sua vittoria, solo per potergli parlare di nuovo. Avrebbe venduto l'anima al diavolo, per farlo.
Paul la guardò per un lungo minuto, prima di sorriderle con dolcezza, quasi capisse tutto il dolore e il rimpianto in quella voce rotta dalla stanchezza, dalla rabbia, dal rimorso.
«Sono certo che anche lui lo sappia già, in qualche modo»
E a quel punto, anche Jane riuscì a sorridere. Sorrise con fare sollevato, anche se sapeva che sarebbe stata solo una sensazione temporanea, che i suoi demoni sarebbe tornati a tormentarla, prima o poi. Però sorrise lo stesso, dimenticandosi per un momento solo le sue colpe e le sue paure.
Lo squillo breve di un telefono interruppe bruscamente il brusio di sottofondo. Jane si mise a frugare velocemente all'interno della propria borsa, tirandone fuori il cellulare. Osservò per un attimo lo schermo illuminato e sospirò, con fare stanco.
«Tutto bene?» le chiese Paul, inclinando la testa di lato.
«Sì, è solo mio fratello» rispose Jane, riponendo in fretta il telefono. «Inizia a chiedersi dove diavolo sia finita»
«Vuoi che ti dia uno strappo fino a casa?»
«No, figurati» lo fermò lei, alzandosi in piedi. «Ho la macchina, tranquillo. E poi non dovresti scomodarti così per me. Mi hai già offerto un tè»
«Beh, ne avevi proprio bisogno!» ridacchiò lui, imitando la ragazza. «Avevi davvero un pessimo aspetto»
«Già» tentò anche lei una risatina. Fissò negli occhi il ragazzo, si tolse la sua giacca dalle spalle e gliela allungò. «Grazie mille, Paul»
«Figurati, è stato un piacere» rispose l'altro, sorridendo. «È stato bello conoscerti, Jane»
«Anche per me» disse Jane, prima di tendergli la mano. «Allora... Ci vediamo»
Paul la guardò appena qualche secondo, prima di stringerla con calore. «Ci vediamo»
La ragazza sorrise e si voltò, pronta ad andarsene. A lasciare una parte di sé in custodia ad un estraneo che, sapeva, non avrebbe mai più rivisto. Mosse un paio di passi verso l'uscita, quando Paul la chiamò un'ultima volta, facendola voltare.
«Congratulazioni, comunque» le disse, alzando appena la voce. «Ho sentito, mentre glielo dicevi, quindi...»
«Oh, sì...» fece lei, interrompendolo, e si strinse nelle spalle. «Non so nemmeno se esserne felice o no»
«Beh, dovresti» le rispose il ragazzo, risoluto. «Almeno sei certa che una parte di lui continuerà ad esistere»
«Sarebbe esistita comunque» replicò Jane, con ancora maggior convinzione. «Non avrei mai permesso che morisse anche il ricordo di lui e di quello che era»
Questa era l'unica promessa che, ormai, aveva deciso di mantenere. Non ne avrebbe fatte di altre, né ne avrebbe mai infrante. Rimaneva solo quella, alla quale Jane aveva deciso di tener fede anche a costo della vita, e con cui se ne andò via, senza nessun'altra parola. Non credeva che ce ne sarebbero mai state altre per esprimere in modo diverso quanto pensava o voleva da sé stessa. Né per Paul, né per Alan, né per John, neanche per Sherlock. Neanche per lei.
Se ne andò, e Paul rimase da solo. La vide uscire dal locale luminoso ed entrare nel grigiore di una Londra ancora umida. La osservò mentre si allontanava dalla vetrina, a passo spedito, verso una meta che non gli aveva detto ma che lui già conosceva.
Si tastò le tasche dei pantaloni e tirò fuori il proprio telefono. Compose in fretta un numero, si portò il cellulare all'orecchio e attese in silenzio, un secondo dopo l'altro, uno squillo dietro il successivo. Poi, alla fine, qualcuno rispose.
«L'hai trovata?» chiese subito una voce calma dall'altra parte.
«Sì, signor Holmes» rispose Paul, con distacco. «Le ho parlato»
«Ti ha scoperto?»
«Pareva perplessa, ma non mi è sembrato che si ponesse troppe domande» Paul aspettò qualche attimo, prima di continuare. «Ho un messaggio per suo fratello, signor Holmes»
«Sa bene che mio fratello non può essere contattato, agente Daniels. La sua copertura è molto delicata»
«Lo so, ma... È da parte della ragazza»
«È davvero tanto urgente?»
«Talmente urgente che credo dovrò dirglielo di persona»
«Se è così che stanno le cose, può benissimo riferire a me: vedrò di fargli recapitare il messaggio quanto prima»
Paul sospirò, con fare scocciato: certe volte, il suo capo risultava essere davvero irritante. Ma, dopotutto, obbedire agli ordini era l'unica cosa che gli veniva richiesta.
«Gli dica che a lei dispiace. E che stanno bene entrambi»
«Entrambi?» ripeté confuso il suo capo.
«Sì» confermò Paul, guardando di nuovo fuori dalla finestra, giusto in tempo per vedere Jane svoltare l'angolo e sparire per sempre dalla sua vita. «Entrambi»
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