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{70° Capitolo}

[Capitolo settantesimo]

Carissima Jane,

spero vivamente che questa mia lettera ti trovi in salute e finalmente felice. Vorrai perdonarmi per il metodo un po' all'antica, ma purtroppo era l'unico mezzo a mia disposizione per essere certo che questo mio messaggio ti sarebbe stato recapitato in maniera sicura.

Mi chiamo Paul Daniels, agente del MI5 del Governo Britannico dal 2003 e in servizio sotto Mycroft Holmes, anche se tu mi hai conosciuto solo come Paul, il ragazzo con l'ombrello rosso che al Woolwich Cemetery ha rivisto il proprio lutto nel tuo. Ed io sono anche quel Paul lì, su questo posso rassicurarti, anche se potresti non credermi, e in realtà ne avresti ogni ragione per farlo. Potresti pensare che il nostro incontro sia stato in realtà una macchinazione effettuata alle tue spalle con l'unico scopo di tenerti d'occhio, che questi siano stati gli ordini del mio capo. In effetti, mi hanno raccontato molto di te, tanto che quando ti ho effettivamente incontrata mi è sembrato di conoscerti da una vita. Ovviamente, il nostro interscambio non era stato calcolato, dal momento che avrei dovuto tenermi lontano da ogni interazione con te, ma quel giorno ti ho vista tanto disperata che non ce l'ho fatta a seguire gli ordini.

Presentarmi col mio nome completo è dunque il primo motivo per cui ti sto scrivendo. In pochi giorni, infatti, partirò per una missione piuttosto pericolosa, e temo che questa sarà l'ultima occasione utile per farti conoscere una parte di verità che altrimenti potrebbe rimanerti oscura. So che quanto stai per leggere, se non quanto hai già letto, potrebbero farti sentire confusa, magari persino arrabbiata, ma ti prego, prima di giungere a conclusioni affrettate, di leggere questa mia lettera fino in fondo.

Al momento della stesura di questa lettera, ad ottobre 2014, Sherlock Holmes dovrebbe essere già di ritorno dall'oltretomba. Ciò significa che tu, adesso, ti ritrovi a stringere tra le dita una fortuna che non è per chiunque. Ed ecco, in realtà, l'altro motivo per cui sto scrivendo questa lettera: perché potresti non essertene ancora accorta.

Potresti non esserti ancora accorta che ti è stata data quella tanto desiderata possibilità di rimediare a tutti i silenzi che si sono posti tra voi due. Potresti non esserti ancora accorta di aver ricevuto in dono altro tempo, tempo preziosissimo, e potresti aver dimenticato che questo tempo in più che ti è stato dato non sarà eterno. Potresti aver dimenticato che la paura che ora ti blocca presto o tardi si trasformerà in rimorso, ma ora che hai di nuovo tempo, ora che sei ancora in tempo, puoi finalmente prendere in mano quel coraggio che non hai mai creduto di avere e aprirti, così come hai avuto il coraggio di aprirti con uno sconosciuto come me.

So che molte cose sono cambiate da quel pomeriggio al cimitero. So che ora hai un figlio e che stai cercando di mantenere la pace che tanto faticosamente ti sei guadagnata, il che rende sicuramente difficile fare quanto ti sto chiedendo. Ma credimi se ti dico che non è da tutti provare un amore tanto forte come il tuo, e non è per tutti ricevere un'occasione tanto fortuita per poterlo finalmente gridare al mondo.

Di certo la presenza di Sherlock Holmes dovrebbe essere simile ad un temporale nel deserto, e la sua fredda fama lo precede di molto, di essere una persona incapace di esprimere o ammettere ogni qualsivoglia tipo di sentimento. Però ecco qualcosa che so, e che forse tu non sai ancora: che anche lui prova lo stesso, quello stesso terremoto che provi tu. Me lo ha detto lui, che si considera fortunato ad averti nella sua vita tanto quanto tu ti consideri fortunata ad avere lui nella tua.

Per questo, ecco, ho voluto scriverti questa lettera: per ricordartelo. Per ricordarti quanto davvero lo ami, e per farti sapere quanto anche lui ami te. Purtroppo, in mio potere è solo cercare di convincere te a fare il primo passo, perché aspettarselo da Sherlock Holmes richiederebbe una pazienza che molti esseri umani non posseggono. Troppe premesse, troppe parentesi. Con te, invece, posso andare dritto al punto consapevole che capirai ogni mia intenzione.

Diglielo, dunque. Digli quello che provi, e che non cambieresti niente di voi due, e tutto quello che hai detto anche a me. Dillo a lui, perché ne ha bisogno. Ne avete bisogno entrambi.

Perdonami ancora per il metodo poco consono, od originale. Avrei tanto preferito parlarti di tutto ciò di persona, ma non credo avrei mai trovato il momento o il modo giusto. Spero solo che questo pezzo di carta possa farti da memorandum per ogni volta che ne avrai bisogno: penso che tu abbia bisogno di qualcuno che ti ricordi che, no, questo che ti è stato dato non è tutto il tempo del mondo. È solo tempo tuo. Fanne buon uso.

Nella speranza di rivederci, prima o poi,

con tanto affetto,

Paul Daniels, MI5

Jane

Apro lentamente la portiera della volante della polizia e, con movimenti cauti, scendo dall'auto e me la richiudo alle spalle. Resto un secondo ferma, guardando attorno a me il mondo muoversi ad una velocità che mi pare raddoppiata rispetto al tempo che scorre dentro di me. Mi avvicino piano al posto di blocco, che finora ho osservato da dentro l'abitacolo col cuore in gola e la confusione nella testa, mentre adesso le pupille passano da un elemento all'altro di questo nuovo ambiente dai contorni surreali. Osservo il giardino, dove le erbacce crescono indisturbate su ogni centimetro di prato, e osservo la villa, il tetto crollato come segno di un antico passato sepolto chissà dove. Osservo anche una donna mentre viene portata via in manette, con gli occhi disperati e rossi di pianto, la tunica una volta candida ora macchiata e lacerata. Osservo Lestrade, il volto stanco, e John, avvolto in una grossa coperta, e Sherlock, le mani in tasca e lo sguardo perso. Li osservo mentre parlano e osservano a loro volta le situazioni che girano attorno ai loro corpi, le luci accecanti delle sirene, i rumori, le parole mormorate in bocca ai poliziotti. Cerco di indovinare i loro discorsi dal labiale: cosa staranno dicendo, quali deduzioni, quali conclusioni?

Lestrade ora si stacca dai due e, notandomi, si avvicina a me. Mi legge le intenzioni nello sguardo, e vi risponde, prima ancora che io chieda niente.

«È tutto okay» dice. «Stanno tutti bene»

Socchiudo gli occhi per un breve istante, in un gesto che sembra quasi mimare uno svenimento, la testa piegata verso l'alto.

«Oh, grazie...» mormoro, senza davvero sapere cos'altro dire.

«Se vuole può andare a parlare con loro» aggiunge, accennando con la testa alle proprie spalle.

Lancio di nuovo un'occhiata verso John, e verso Sherlock. Lo guardo, lui non guarda me. Non sono nemmeno sicura che si sia accorto della mia presenza qui, e forse per questo dovrei avvicinarmi e palesarmi. Sorrido a Lestrade, ringraziandolo di nuovo, e lui poi scompare in mezzo alle volanti dalle sirene silenziose, e mi lascia qui in preda all'indecisione.

Resto per un po' ferma nel mio piccolo angolo dietro il nastro di plastica che ondeggia ben teso sotto la brezza invernale, a tormentarmi le dita. Così vicina eppure così lontana, allo stesso tempo, in questa notte arrivata così veloce e che però mi pare già infinita. Da lontano lo guardo parlare ed essere sé stesso. Essere Sherlock. E per un secondo vorrei poter entrare nella sua testa, vedere cosa pensa, chi pensa, farmi male nel non trovarmi in mezzo alle sue emozioni, silenziose quanto le mie.

Ecco, solo ora, nel guardarlo, mi rendo conto di quanto abbia sbagliato a tenermi sempre dentro tutto, e a reprimere quei sentimenti come si reprime un'erba cattiva, o un brutto ricordo. Non pensare a loro, non curarli, ma piuttosto tenerli sotto ad un vaso di coccio per evitare che crescessero. Ed ora quelli, proprio come le piante, si sono adattati ad ogni situazione, e non sono affatto andati via. Sono rimasti e cresciuti, continueranno a crescere, se non verranno sradicati. Lo faranno in silenzio.

Solo poche ore fa, ho creduto che quei sentimenti fossero destinati a morirmi dentro al cuore, che per l'ennesima volta non avrei potuto farli uscire, e correre, e gridare, che avessi perso tempo per ricercare il momento migliore per farlo. Ho creduto che si fosse fatto troppo tardi, che Sherlock si fosse stancato di aspettarmi, e che Paul Daniels avesse ragione, che il tempo mi si era finalmente ribellato contro e non sarebbe più stato dalla mia parte.

"Potresti non esserti ancora accorta di aver ricevuto in dono altro tempo, tempo preziosissimo, e potresti aver dimenticato che questo tempo in più che ti è stato dato non sarà eterno."

Ho creduto, e temuto, di non aver fatto abbastanza. Di non essere stata abbastanza per Sherlock, come per lungo tempo mi sono ritenuta. Di essere così come sono, e non come lui vorrebbe. E adesso io vorrei soltanto che tutti questi sentimenti non lo fossero, silenziosi, né timidi. Vorrei che fossero coraggiosi, che gridino il suo nome dentro al vento, per farlo perdere nell'aria, per portarlo lontano, come una storia tramandata. La storia di un consulente investigativo e della stupida ragazzina della porta accanto che l'ha amato con tutte le sue energie. Di come quella ragazzina ingenua non sia stato in grado di dirglielo, di come l'abbia sempre respinto per timore di rimanere ferita, di come lui, alla fine, abbia trovato qualcun altro da amare, e di come non valga niente, niente, niente di quanto gli dirò. Niente di quanto farò. Niente, assolutamente niente, per farlo tornare da me.

John, accortosi del mio sguardo insistente, mormora qualcosa a Sherlock, prima di staccarsi da lui e incamminarsi nella mia direzione. Istintivamente gli sorrido e, ancor prima che lui possa superare il nastro, mi butto verso di lui per abbracciarlo, esclamando a mezza voce il suo nome.

«Va tutto bene» mi rassicura, dandomi dei leggeri colpetti sulle spalle. «Stiamo tutti bene» Quando si stacca da me per guardarmi negli occhi, si lascia andare ad un lungo sospiro. «Ho decisamente bisogno di una vacanza» Lo dice sorridendo, ad occhi chiusi e scuotendo la testa. «Tu come stai?»

Cerco di scacciare via una piccola lacrima di emozione sfuggitami dagli occhi. «Preoccupata, fino ad un attimo fa»

«Lestrade ci ha detto che sei stata tu a trovarci»

«Sì...» mormoro, per poi scacciare l'argomento con una mano. «Lunga storia, ti risparmio volentieri i dettagli» Il mio sguardo fugge veloce verso Sherlock. Accenno nella sua direzione con la testa. «Lui come sta?»

John si volta a guardarlo, girando solamente il busto. «Come uno che ha scoperto di avere una sorella psicopatica di cui aveva completamente rimosso l'esistenza dalla memoria» Alza le spalle, rivolgendo di nuovo la sua attenzione su di me. «Credo gli ci vorrà un po' per riprendersi»

Annuisco, costringendomi con tutte le mie forze di distogliere gli occhi, un tentativo inutile per diminuire l'ansia che mi sta gonfiando il petto. «Capisco...»

«Puoi sempre andare a chiederglielo di persona»

Alzo di nuovo la testa verso John, prima di scuoterla con veemenza. «Oh, no, non credo che sia il caso»

«Per quello che ti ha detto al telefono?»

Centro. La bolla d'ansia continua a gonfiarsi, rendendomi difficile respirare.

«Sai che è stato costretto, vero?»

«Le circostanze non cambiano il fatto» replico. «Specialmente se lo pensa davvero»

«Tu sei sicura che lo pensi davvero?»

No, ovvio che no. Altrimenti perché chiedermi di tornare a Baker Street, appena qualche settimana fa? Perché l'insistenza, nei mesi passati, nel cercare di coinvolgerci l'uno nella vita dell'altra?

«Non lo so...»

E allo stesso tempo perché allontanarsi così spesso? Perché tenermi all'oscuro delle cose? Perché tutta questa opacità? Perché chiedermi, adesso come prima, come all'inizio, di ritornare ad essere niente l'una per l'altro, due conoscenti che hanno troppe cose da condividere, ma che non hanno più il coraggio di guardarsi negli occhi?

«Allora chiediglielo!» sbotta John. «Se non lo fate ora, non lo farete mai più»

Lo credo anch'io, e forse è proprio per questo che non vorrei farlo ora. Per evitare, e rimandare, sempre con questa speranza di avere tutto il tempo del mondo.

"Questo che ti è stato dato non è tutto il tempo del mondo. È solo tempo tuo."

Come se già più volte la vita non mi avesse dimostrato l'esatto contrario.

«Forza»

John mi dà un leggero colpetto dietro la schiena, poi alza il nastro ed esce dalla zona delimitata, costringendo invece me ad entrarvi.

«Io vado a cercarmi dei vestiti asciutti» dice. «Però voi parlatevi!»

Si gira, anche lui lasciandomi con questa intimidazione dietro cui però percepisco un consiglio sincero, da cui vorrei scappare. In fondo, però, ha ragione: è una cosa che devo fare. Che posso fare. Che voglio fare.

Allora prendo un lungo respiro e mi volto, gli occhi ancora chiusi che, quando si riaprono, si ritrovano immediatamente dentro quelli di Sherlock. Anche lui sembrava aspettare solo questo momento. Ci fissiamo, mentre io mi avvicino, le braccia annodate al petto, e lui si raddrizza, le mani ancora dentro le tasche del cappotto. Le nostre solite posizioni, difesa e innocenza, attacco e incasso. Pronti.

Quando arrivo davanti a lui, sappiamo già cosa ci diremo, il perché di questo ennesimo confronto. Per questo ci prepariamo, come nostro solito, a parlarci nel silenzio, prima, e valutarci. Prima delle parole che spesso sanno essere bugiarde. Prima di tutto il resto.

Sherlock aggrotta le sopracciglia, e chiede: «Come hai fatto a trovarci?»

La domanda, in verità, mi spiazza come primo colpo, sebbene non dovrebbe: dopotutto, sono queste le conversazioni che gli interessano di più, quelle che lo intrattengono.

«Dovresti saperlo, dato che l'idea è stata tua»

Scoprire i ragionamenti altrui, vedere se sono gli stessi suoi.

«O almeno così ho dedotto»

Va bene, allora. Lo intratterrò, prima di passare alle cose serie.

«Perché mi hai detto che Mycroft era con voi. Nel senso, era possibile che tutti e tre fosse stati ricoverati nello stesso ospedale come mi aveva detto Lestrade, però ha cambiato subito espressione quando gli ho detto che la chiamata era la tua, il che mi ha fatto subito capire che non eravate affatto in ospedale, quanto piuttosto in giro ad indagare sull'esplosione a Baker Street»

L'ispettore, ovviamente, non me lo ha confermato, ligio al suo dovere, ma di certo non avevo bisogno delle sue assicurazioni per convincermi di avere ragione.

«Quindi mi sono chiesta perché Mycroft fosse insieme a voi, dal momento che lui odia andare in giro ad indagare, a malapena lascia il suo ufficio per tornare a casa sua»

Sherlock sorride. Un secondo solo di distacco dalla situazione, dal caso circostante.

«Quindi mi sono detta» continuo. «che se tuo fratello era con te e John era perché questo caso era molto più grande di un possibile attacco terroristico. Qualcosa che forse lo riguardava da vicino. E allora ho contattato il suo ufficio che, dopo molta insistenza, si è fatto sfuggire che le uniche volte in cui Mycroft si è assentato dal lavoro è stato per andare a trovare un certo Sherrinford, che supponevano essere un parente malato. A quel punto ho pensato che probabilmente tua madre sarebbe stata in grado di darmi qualche informazione in più, ma quando le ho chiesto di parenti malati o pericolosi ha subito nominato Eurus»

Lancio uno sguardo alle mie spalle, verso la camionetta blindata della polizia, e subito lo distolgo.

«Lei... Pensa che sia morta»

«Lo credevo anche io. Anzi, non...» Sherlock sospira, scuotendo piano la testa. «Non ricordavo nemmeno di avercela, una sorella»

«Sì, tua madre me lo ha detto» confermo. «Che non ricordi niente, dell'incidente, o di questo posto, ed io... Non so, ho pensato che forse vi avrei trovati qui, per qualche ragione»

Mi fermo, sospiro. Lui annuisce, un sorriso ad un angolo della bocca.

«Hai pensato bene» dice. «Sei stata brava»

«Sì, beh, il processo deduttivo è stato molto più lungo di così, ovviamente, e cercare di farmi dare informazioni dall'ufficio di Mycroft mi ha portato via delle ore, infatti credo che scriverò un'e-mail di reclamo al governo per lamentarmi di questa inaccessibilità ai cittadini, e...»

«È stato comunque notevole» mi interrompe lui, e allora io chiudo la bocca.

Deglutisco, cercando di schiarirmi la gola. «Grazie»

Sherlock tira meglio gli angoli delle labbra, entrambi, ma non dice altro. Mi schiarisco di nuovo la gola, mi stringo ancora di più le braccia al petto, abbasso gli occhi.

«Come... Come stai?»

«Beh, ho una lunga chiacchierata da fare con i miei genitori, quindi...»

Rialza gli occhi, anche io rialzo i miei, quasi chiamata dai suoi.

«Tu?»

«Bene» rispondo velocemente, quasi a chiudere il discorso, o a volerlo scansare. «Ora che so che è tutto risolto...»

«Non è tutto risolto»

«Sì, beh, credo che quella chiacchierata con i tuoi non sarà affatto facile, però...»

«Sai che non mi riferisco a questo»

Oh, no, certo che lo so. È per questo che sono qui. Per questo che sono venuta, per questo che non me ne sono andata subito. Che mi sono avvicinata a sfiorare il dolore a pochi centimetri da me.

«No, lo so...» sospiro. «Solo... Ne vuoi parlare adesso?»

«Credo che se non lo facciamo adesso non lo faremo mai più»

Scuoto la testa, un piccolo sorriso a muovermi le labbra. «John lo ha detto anche a me» Socchiudo le palpebre, sospirando di nuovo. «Okay, allora. Parliamone. Anzi, parlo prima io»

Sherlock affonda ancora di più le mani nelle tasche, e altrettanto a fondo accoglie aria nei polmoni.

«Quello che mi hai detto... Non so se sia successo davvero o no, John dice che sei stato costretto, ma se è vero... Va bene»

L'aria che Sherlock ha preso sembra essere scomparsa dall'ambiente circostante, tanto che a me pare quasi impossibile tornare a respirare.

«Forse hai ragione, è troppo presto per tornare a Londra, dovrei almeno aspettare che Aden inizi le elementari, così avremo tutti più tempo per capire cosa vogliamo. Non importa. Anzi, lo capisco, se vuoi provare ad andare avanti, l'ho fatto anch'io, e come tu hai accettato la mia decisione, io dovrò accettare la tua. E se ciò significa non parlarsi più me ne farò una ragione, ma Aden... Lui non lo merita, ed io questa cosa la intendo sul serio. Mi sta bene se non vorrai più vedere me, ma non mi sta bene che tu scompaia dalla sua vita, perché sei il padre migliore che potrebbe avere, anche se tu potresti non crederlo» Lascio andare via l'aria rimanente, che va a formare una piccola nuvola di fiato caldo sfilatosi dalle mie labbra. «Ecco, ti chiedo solo questo» concludo poi, riducendo la bocca ad una linea sottile, quasi cucita.

Sherlock annuisce, allargando il petto, come a farsi più alto, e solenne, e pronto al confronto. Alle spiegazioni che dovrà dare, alle ferite che non gli sto chiedendo di medicare.

«Non è successo davvero»

Dice solo questo, all'inizio. Poche parole, in tono neutro, per disinnescare subito una paura, l'ansia che mi porto ancora dentro e che lui cerca di aspirare via.

«Anche se è vero che sono stato ricontattato da una persona che ho conosciuto anni fa. Ed è vero che ci siamo sentiti per qualche mese, ma era tutto lì, non ci siamo nemmeno mai visti di persona» Abbassa lo sguardo, poi lo rialza, ma non verso di me. «Lei avrebbe voluto, credo. Però a me sembrava di tradirti»

Che buffa parola, "tradire"... Tradire chi, poi, cosa? Quale sentimento inesistente, quali speranze di futuro, chi? Non me. Non noi. Noi che non siamo mai stati davvero nulla, oltre ad un indovinello e qualche risata, qualche sguardo complice. No, non era per quello che mi sono sentita tradita. Io volevo solo proteggere Aden dalla stessa perdita che alla sua età avevo subito io. Non volevo Sherlock per me. Sarei stata disposta a lasciarlo andare, pur di evitare che mio figlio provasse inutile dolore.

«Sherlock...» continuo allora io. «È la tua vita. Frequenti chi ti pare. Io e te nemmeno stiamo insieme»

«Ma dovremmo, no?»

Aspetto qualche secondo prima di stringermi nelle spalle, cercando di farmi cadere di dosso la domanda, la stessa che mi pongo da mesi, ormai. Cos'è che io e Sherlock siamo diventati? Che nome dargli?

«Non so. Tu che ne pensi?»

«Sinceramente, io penso che non dovremmo»

La sua risposta, così schietta e rapida, per un momento mi pare sconcertante, e mi turba. Riesco appena a commentare con un "oh" confuso, ma subito dopo mi sento addirittura sollevata nel sentirglielo dire.

«Credo di aver più volte dimostrato di non essere quel genere di persona. Non sarei mai in grado di darti quello di cui avresti bisogno, e la mia presenza espone inevitabilmente te e Aden a pericoli da cui non sempre mi ritengo in grado di proteggervi»

Per quanto difficile, quindi, mi costringo a tenere ben fissi i miei occhi nei suoi, e dentro vi leggo un cortocircuito che a lungo ho sentito anche io: l'inesorabile scontro tra il totale rifiuto di considerare Sherlock il mio punto debole e il desiderio di esserlo, per lui, di essere importante, e non un'inutile distrazione.

«Io... Io lo so che io e te non siamo niente, e che non lo siamo mai stati perché io e te non ci bastiamo. Non ci basteremo mai, è questa la verità. E forse funzioniamo meglio quando siamo lontani»

Un piccolo groppo freddo mi sale alla gola, ed io cerco di mandarlo via deglutendo per l'ennesima volta. Non ci riesco, e quello rimane là, a togliermi aria, costringendomi ad affrontare la paura.

Apro la bocca, pronta a dire che va bene, di nuovo, e che lo capisco. Per far uscire un addio, "non voglio che rinunci a quello che sei per me". Voce rotta e senza fiato.

Ma lui è più veloce del mio dolore e delle mie conclusioni, e mi interrompe prima che io possa dire qualsiasi cosa.

«Ma anche se non saprei dare un nome a questo niente che c'è tra di noi, a me piace essere così. Perché essere niente ci permette di essere tutto, e questa è forse la cosa migliore al mondo. Questo nostro non identificarci con niente, questa incertezza dentro cui viviamo, ci definisce, e qualsiasi cosa sia quella che abbiamo noi, io ci credo, e mi basta. Mi basta sapere che ci sei, come ci sei sempre stata, senza doverci incastrare in convenzioni sociali alle quali non crediamo. Mi basta essere consapevole che senza di te sarei una persona di gran lunga peggiore, e che tu sei ciò che a volte vorrei essere anch'io»

Sherlock dice ognuna di queste parole con una calma enfasi, come se volesse spiegarmi passo per passo perché crede in ognuna di esse. Le lascia lì, a volare e librarsi tra noi, e l'aria ora non è più fredda ma calda, e mi abbraccia, e mi scioglie il nodo alla gola, e le spalle, e il resto del corpo, e il mio viso si lascia andare ad un sorriso grato e sincero, e i miei occhi alle lacrime.

Abbasso lo sguardo, scuotendo la testa e chiudendo le palpebre per evitare di fargli vedere la mia commozione. Ma è inutile, lo è sempre con lui. Quindi continuo a scuotere la testa, e a sorridere, e a piangere anche. Sento che dovrei dire qualcosa, ma non mi viene nessuna parola vagamente intelligente che possa anche solo sostenere il tono di questa conversazione, e una battuta rovinerebbe del tutto il momento.

Decido allora di non dire nulla per dimostrare qualcosa, ma piuttosto di fare. E lo abbraccio. Attacco il mio petto al suo, mi prendo il ritmo del suo respiro, apro e chiudo la mia gabbia toracica assieme alla sua, affondo piano il viso tra la sua spalla e il suo mento. Dopo qualche secondo, breve e confuso, sento le sue mani avvolgermi il busto, appena sotto le scapole, e stringere, stringere, stringere, togliendomi l'aria ma non il respiro.

Non diciamo niente, perché non serve mai, quando siamo insieme. Lui capisce ogni mia emozione, anche quando non lo sa, o quando io non lo credo possibile, e forse è proprio questo a definire la nostra relazione. L'amore vero, l'amore eterno, l'amore a prima vista, sono dei concetti forse troppo semplici per cercare di capirci, e per questo non li usiamo mai per descriverci, o identificarci. Gli innamorati crescono, cambiano, si lasciano, litigano, non ragionano, non risolvono, mentre a noi non serve dirci niente, o dimostrarci tanto di più, perché ci basta fidarci l'uno dell'altra, essere ad una distanza tale da metterci nelle condizioni di ferirci a vicenda poiché ben consapevoli che non lo faremmo mai. Ci basta, ci basterà sempre, sapere che sarà sufficiente toccarci per ritrovarci. Io sono lui, lui è me, e incontrandoci abbiamo trovato noi stessi. E questo amore qui è proprio quello di cui abbiamo bisogno.

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