{69° Capitolo}
[Capitolo sessantanovesimo]
Regno Unito•17 Gennaio 2017, ore 16:59
Jane correva per la strada, cercando di evitare nastri blu e bianchi e blocchi umani in divisa che tentavano di impedirle di passare. Correva lungo quel marciapiede che mille altre volte aveva battuto, veloce e lenta, felice o arrabbiata, speranzosa o spaventata. Correva e cercava di farsi largo, angosciata, incredula. Quando riuscì ad arrivare a pochi metri dal 221B di Baker Street, sentì quasi mancarsi il respiro, le sembrò che la sua anima si stesse unendo a quella esalata dall'edificio, trasportata in alto da un rivolo di fumo grigio che si levava lento sopra le macerie sventrate dell'appartamento. Tutt'intorno, vigili del fuoco e forze dell'ordine si adoperavano per spegnere l'incendio che si faceva strada attraverso le finestre, quasi a fuggire per la via.
Come fosse in trance, Jane provò ad avvicinarsi ancora di più, ma venne prontamente fermata da mani decise e gentili. La ragazza quasi non le sentiva, lo sguardo fisso davanti a sé, e talmente era attonita dallo spettacolo grottesco cui si trovava ad assistere che nemmeno si rese conto di aver preso a singhiozzare come una bambina disperata. L'ispettore Lestrade la strinse ancor di più a sé, cercando di tranquillizzarla, sebbene nemmeno lui riuscisse ancora a credere a quanto era successo e continuava a succedere davanti ai loro occhi. Restarono così a lungo, spettatori immobili e inermi della disfatta di un luogo che avevano imparato a conoscere ed amare, la distruzione del simbolo che rappresentava, roccaforte delle domande senza risposta a cui, invece, Sherlock Holmes riusciva sempre a replicare.
Quando finalmente anche l'ultimo lembo di fuoco venne soffocato, Jane riuscì a smettere di piangere e, come risvegliatasi da un lungo incubo, si voltò verso Lestrade.
«Dove sono Sherlock e John?»
L'ispettore ricambiò lo sguardo, trattenendo a stento un sospiro. «In ospedale»
«Quale?»
«Non posso dirglielo, purtroppo»
«Perché no?»
«Questioni di sicurezza»
«Ispettore...»
«Jane, ancora non sappiamo bene chi abbia fatto tutto questo. Perciò bisogna essere cauti»
«Cauti? Ma di cosa parla?»
Lestrade si avvicinò di più a lei, per farsi sentire. «Crediamo che sia stato un attentato» le bisbigliò. «Ma per ora è tutto quello che sappiamo»
Quelle parole, proprio come ciò che significavano, detonarono dentro alla testa di Jane, lasciando la sua mente distrutta e bruciata dalla sorpresa e dalla paura. Spalancò gli occhi e li fissò sull'ispettore, senza davvero guardarlo. Immobile e incredula, Jane volse la testa verso Baker Street, ridotta ormai ad una carcassa fuligginosa, e restò a guardarla.
«Posso... Posso almeno rimanere qui?» chiese poi. «Solo per un po'»
Non sapeva cos'altro dire, cos'altro chiedere, e sicuramente Lestrade ben comprese la sua confusione, quindi acconsentì alla sua richiesta, prima di scusarsi e sparire in mezzo alla calca di volanti e agenti. Jane si allontanò piano dal perimetro delle forze dell'ordine, pur restando all'interno del nastro che chiudeva la strada in entrata e in uscita. Si sedette sul bordo del marciapiedi, al lato opposto della strada e proprio davanti al portone di quella che una volta era stata casa sua. Rimase lì molto più di quel "un po'" che aveva promesso all'ispettore, ma nessuno venne a chiederle conto della sua presenza, e allora lei rimase ad osservare pompieri che entravano ed uscivano dall'edificio, i curiosi che si fermavano al di là del nastro a ficcanasare, giornalisti e reporter, poliziotti, e tutti si muovevano come danzando su quell'enorme palcoscenico improvvisato.
Jane faticava a capire cosa fosse successo, proprio come per uno spettacolo teatrale dalla trama complicata o un film dalla sceneggiatura ostica. Chi aveva scritto quel copione? Chi aveva pensato di far saltare un intero edificio, perché? Per qual risvolto di trama, quale fine narrativo? Jane non lo sapeva ed era però ben consapevole del fatto che scoprirlo sarebbe stato piuttosto complesso. Probabilmente a saperlo già era Sherlock. Dov'era? Stava bene?
La ragazza tirò fuori dalla tasca della giacca il cellulare e compose automaticamente il numero del detective, nonostante si aspettasse già che nessuno avrebbe risposto. Probabilmente il telefono era andato distrutto nell'esplosione o nel successivo incendio, ma l'idea inizialmente non la sfiorò neanche. Compose il numero, dunque, ma la linea non fece in tempo ad attaccare che subito cadde, lasciando a Jane un vuoto "tu-tu" che le rimbombò nella testa. Riabbassò il telefono e lottò a lungo contro la voglia di riprovarci, e riprovarci, senza fermarsi, fino a quando qualcuno non avesse risposto. Perché doveva succedere, prima o poi, che qualcuno rispondesse, no?
Abbassò il cellulare e con lo sguardo tornò all'appartamento davanti a lei. Poi si alzò molto lentamente e, con le mani dentro le tasche, si avviò verso Marylebone Road. Camminò senza pensare più a niente, riempiendosi la testa di sirene e clacson e persone, e non pensò a niente nemmeno quando entrò in una tabaccheria, non pensò a niente quando tornò verso Baker Street con un pacchetto di sigarette e un accendino nuovo di zecca, non pensò a niente quando oltrepassò il nastro blu e bianco, e non pensò a niente nemmeno quando sedette di nuovo sul marciapiedi di fronte al 222B, né quando si accese una sigaretta con dita tremanti.
Fece tutto questo meccanicamente, sospinta da un'emozione più che da un ragionamento o uno scopo. Con i polmoni in fiamme e la bocca che sapeva di fumo, Jane inspirò attraverso il filtro e poi lasciò andar via un filo sottile dalle labbra, investita dal ricordo di quella sera di Natale di così tanti anni prima, alla notte di gennaio sul ponte di Westminster, e alla nostalgia che l'odore del tabacco le infondeva fin dentro al cuore. Jane socchiuse gli occhi, mentre un soffio di vento le accarezzava i capelli e spingeva il fumo lontano da lei, lontano anche dal 221B. Entrambe fumavano, lei e la casa, lei e il passato, lei e il porto sicuro che dopo tanta fatica pensava di aver trovato. Tutto in fumo, distrutto, come la coda della sigaretta di cui altro non rimaneva che cenere, spettro di quanto una volta era stata. Era tutto quello a cui riusciva a pensare, Jane. A quell'analogia con la sigaretta, al dolore che sapeva di star provando ma che aveva gettato in un angolo per evitare di venirne sopraffatta. Era tutto quello a cui riusciva a pensare: che tutto era distrutto. E Sherlock? E John?
Nel frattempo, su un'isola rocciosa sperduta da qualche parte in mezzo al mare del Nord, tutto precipitava inesorabilmente nell'abisso della follia. Le onde che si spezzavano contro gli scogli, con la spuma bianca come unica nota di bagliore nel grigio del cielo e dell'orizzonte, sembravano rappresentare quello stato di precarietà che Sherlock, John e Mycroft si erano ritrovati a vivere in quel momento: un attimo in cui il mare sembrava ritirarsi seguito subito da un nuovo spezzarsi dell'acqua. Nuotatori esperti in mezzo alle acque più devastanti, senza un attimo di pace.
Impietrito, Sherlock cercò di muoversi verso la stanza successiva di quell'enorme labirinto a indizi e indovinelli, ma i suoi occhi rimasero incollati al vuoto in cui solo pochi attimi prima tre uomini pendevano oscillando macabramente sopra alla marea. Nella testa rimbombava ancora l'eco delle loro grida terrorizzate, e nelle retine lampeggiavano le ombre sfocate di persone che appena pochi secondi prima erano state ed ora non erano più. Vite spezzate, come le onde contro gli scogli, come i pezzi della sua sanità mentale che si sforzavano in ogni modo di restare integri. Così fragile ogni cosa.
Prese un respiro e, con grande sforzo, distolse lo sguardo e si decise ad entrare nella nuova stanza, tenendo con entrambe le mani la pistola ottenuta all'inizio di quell'assurdo esperimento. Nel nuovo ambiente, l'aria sapeva di umido e stantio a causa dell'assenza di finestre che rendeva il luogo buio e soffocante, senza spiragli verso l'esterno, la libertà. Accanto alla porta d'entrata, vi era uno schermo piatto e, poco più in là, un'altra porta ad apertura scorrevole. Una telecamera li spiava dall'alto. Le uniche fonti di luce artificiale, al centro del soffitto, illuminavano una bara bianca, aperta e vuota, che si trovava proprio in mezzo alla stanza. Nessuno dei tre fece in tempo a porsi domande né dedurre nulla, poiché interrotti dall'altoparlante, dal quale proveniva la voce della loro crudele sperimentatrice.
«Un minuto da passare al telefono»
La voce cambiò subito dopo. Sherlock fu quasi sollevato dal sentirla di nuovo.
«Ho paura, tanta paura» ripeteva la bambina che da ore stavano cercando di aiutare.
«Va tutto bene» cercò di tranquillizzarla Sherlock. «Non ho molto tempo, quindi ho bisogno di sapere cosa vedi fuori dall'aereo»
Anche lei, come le onde, rischiava di infrangersi contro il suolo.
«Il mare» rispose. «Riesco a vedere il mare»
«Ci sono delle navi?»
«Niente navi. Vedo delle luci in lontananza»
«È una città?»
«Penso di sì»
«Un aereo su una città senza pilota» mormorò Mycroft, con tono terrorizzato. «Dobbiamo guidarla noi»
John gli lanciò un'occhiata accipigliata. «Guidarla?»
«Pronto? Ci siete ancora?» chiedeva la bambina.
Sherlock alzò la voce. «Siamo qui! Dacci un minuto»
«Per portarla lontano dalla terraferma e dalle aree popolate e farlo cadere in mare» continuò il maggiore degli Holmes.
«E la bambina?»
«Beh, dottor Watson, è lei che lo farà cadere»
«No» obiettò John. «La aiutiamo ad atterrare»
«E se falliamo e cade su una città? Quanti ne moriranno?»
«E come facciamo a convincerla?»
Mycroft prese un breve respiro e un attimo di silenzio. «Temo che dovremo darle una speranza»
«Sei sicura che nessuno possa aiutarti?» chiese allora Sherlock, di nuovo ad alta voce. «Hai controllato bene?»
«Dormono tutti» ripeté la piccola, con voce rotta dalla paura. «Mi aiuterete?»
«Faremo tutto il possibile»
«Ho paura, ho tanta paura...»
«Va tutto bene, io...»
«Ora torniamo al nostro problema»
Eurus tornò al centro dello schermo, col suo solito sorriso inquietante a far trasparire le future intenzioni. Sherlock gliele lesse in volto, quel volto da sorella che avrebbe dovuto conoscere e ricordare, e che invece le era ancora sconosciuto ed impenetrabile, non solo per la serie di circostanze che lo aveva costretto a cancellarne l'esistenza dalla propria memoria, ma piuttosto per via del sadismo che lei non si curava minimamente di nascondere. Sherlock non riusciva a leggerla, a capirla, non perché gli fosse estranea, ma perché ne era profondamente terrorizzato, senza nemmeno riuscire a capire bene perché.
«Una bara! Problema: qualcuno sta per morire. Sarà probabilmente una tragedia: tanti giorni non vissuti, tante parole non dette... Eccetera, eccetera, eccetera, eccetera...»
«Sì, sì, sì» la interruppe allora il detective, girandosi verso il centro della stanza. «E questa presumo sarà la sua bara»
Si avvicinò alla cassa di legno, lentamente, quasi temendola, come se qualcosa, dentro di lui, lo stesse già avvertendo.
«Ti prego, comincia a dedurre» continuò Eurus, melensa. «Tra un momento aggiungerò il contesto»
Sherlock allora prese un respiro, per immergersi nelle sue deduzioni, come in apnea.
«Date le dimensioni, direi che questa bara è per qualcuno alto tra un metro e sessantacinque e un metro e settanta, probabilmente una donna»
«Non un bambino?» chiese John. «È bianca»
«Le bare per bambini sono più costose. Anche se questa non è di certo economica»
Iniziò a girarvi attorno, in cerca di indizi che potessero aiutarlo ad individuare la futura vittima del gioco perverso di Eurus.
«Anzi, direi che non lo è affatto, dato il colore delle rifiniture e il rivestimento di raso all'interno»
«Qualcuno di ricco»
No, nessuno di ricco. Glielo diceva quella sensazione nello stomaco, quel senso di angoscia e repulsione che sembrava gridargli di stare attento, sebbene lui non riuscisse a trovarne il senso logico.
Poi, d'un tratto, si arrestò, mentre camminava lungo il lato destro della bara. Si piegò col busto e passò piano le dita sopra ad una linea di legno scheggiato che tagliava una parte del bordo. Come se...
«È stata forzata...» mormorò. «È stata chiusa, e qualcuno ha fatto pressione per aprire il coperchio»
Un pensiero, un ricordo, attraversò veloce la mente del detective, lo fece risalire verso la superficie dell'acqua, ma lui subito lo scacciò via. No, non poteva essere...
«Con una pala, forse...»
Il cuore gli batteva dentro al cervello, i vasi sanguigni pompavano dentro alle orecchie, e lui capiva, e non capiva, e il senso di nausea scendeva e saliva, come fa la marea prima di inghiottire un naufrago.
«Dici questo coperchio?»
A Sherlock non sarebbe servito guardare. Sherlock era già riemerso dalle sue deduzioni, già sapeva di chi era quella bara, chi vi era stato rinchiuso dentro. Gli erano bastati pochi elementi, non serviva dedurre molto altro. Non serviva cercare di capire di chi avrebbe potuto essere. Dimensioni, fattura, elaboratezza... Niente di tutto ciò. Lui lo aveva già capito, e comunque non avrebbe voluto. Non voleva crederlo, no, no, no...
«Ti dice qualcosa?»
Ma quando Mycroft tirò via dalla parete il coperchio mancante e lo girò, diventò ormai inutile negare l'evidenza.
«Oh, mio Dio...»
Lungo la superficie candida, una scritta inquietante si allungava verso l'alto, la vernice rossa che colava come sangue da ogni lettera. Una provocazione che, nel rivedere, pietrificò ogni muscolo del corpo di Sherlock.
"Endgame?"
«Jane Aldernis...»
«È perfettamente al sicuro, al momento» trillò dunque Eurus, prima di lasciare posto, sullo schermo, alla figura di Jane seduta sul marciapiedi di fronte al 221B di Baker Street, ormai ridotto ad un cumulo di fumo e macerie.
Sebbene la risoluzione delle immagini non fosse granché, probabilmente perché Eurus si era collegata ad una delle telecamere per la sicurezza stradale, Sherlock poteva benissimo notare gli occhi attenti e tristi con cui Jane osservava quel che restava dell'appartamento distrutto, mentre tra le dita teneva una sigaretta accesa da cui saliva un sottilissimo filo grigio e diafano.
«Si trova a Baker Street, che un drone farà saltare di nuovo in aria fra tre minuti. A meno che tu non lo faccia, ovviamente»
Sherlock spalancò gli occhi, un secondo soltanto mentre lentamente realizzava la richiesta che sua sorella stava per fargli. «Fare cosa?»
Eurus fece di nuovo capolino sul monitor, un sorriso ovvio sulle labbra. «Spezzarle di nuovo il cuore, naturalmente. Purtroppo dovremo accontentarci del senso non letterale, ma...»
«Spezzarle il cuore?» la interruppe allora il detective, con una risata canzonatoria. «Non credo che lo farò»
«Perché no?» chiese allora l'altra, con tono quasi deluso. «Hai paura che stavolta sarà l'ultima e che non tornerà più da te?»
«Non lo farò, Eurus» ripeté Sherlock, sperando che la fermezza della sua voce potesse fare da deterrente, pur rimanendo ben consapevole che le probabilità che ciò accadesse erano a dir poco inesistenti.
«Ma guardati!» lo canzonò la sorella, con pena. «Sei terrorizzato dall'idea di fare del male, di nuovo. Da quando ti importa delle reazioni degli altri al tuo comportamento?»
«Eurus, stai superando il limite»
«Credo che anche tu abbia superato il tuo da un pezzo con lei» ribatté l'altra, ora stizzita. «È per questo che voglio capire. Per quante volte ancora ti perdonerà? È un'interessante domanda di ricerca»
«Oh, per favore! Aldernis è soltanto una ragazzina in cerca di attenzioni. Mi fa quasi compassione»
Disperato, Sherlock tentò di convincere Eurus a fidarsi di un distacco che ormai da anni aveva smesso di fingere di provare. La chiamò per cognome, cercò di convincersi anche lui di non provare nulla. Sperò che quella zona di grigio in cui si trovava il loro rapporto potesse finalmente essere utile proprio perché confondente. Poteva essere un modo per convincere Eurus a tenere Jane fuori da tutta quella insensata faccenda famigliare.
«Mi sono preso gioco di lei così tante volte!»
D'altronde, se non avevano mai avuto il coraggio di portare la loro relazione ad un livello successivo era sicuramente perché nessuno dei due, alla fine, ci teneva davvero.
«Ci sfruttiamo a vicenda, e questo è quanto»
Ma Eurus non sembrava affatto convinta dal distacco del fratello. Lei sapeva, probabilmente da sempre, che l'unico motivo per cui non era mai successo nulla di più serio era da imputare a diverse cause.
«Davvero? Perché a me sembra che quella donna ti abbia cambiato, invece. Da quando l'hai conosciuta non sei più tu. Sei diventato patetico»
«Ti sbagli. Non sai niente di me, e non sai niente di lei»
«Però so che faccia hai fatto quando io e Jim l'abbiamo rinchiusa in quella bara che hai alle spalle»
Il sorriso beffardo di Sherlock si oscurò. Per un attimo le emozioni che presero posto sul suo volto furono sul punto di tradirlo. Si riprese in fretta, tornando nel personaggio per ignorare il brivido di ribrezzo che gli gelava la schiena.
«È il mio lavoro, salvare le persone»
«È il tuo lavoro anche avere figli, con queste persone?»
«Circostanze»
«Vuoi persino che vengano a vivere a Londra con te, come una bella famigliola felice!»
Eurus sorrise, allungando lentamente gli angoli della bocca e contraendo i muscoli attorno agli occhi, fino ad assumere quella sua tipica espressione di lucida pazzia.
«Sarebbe un peccato lasciare orfano il piccolo Aden, non pensi?»
Sherlock chiuse gli occhi, ingoiando il groppo di terrore che gli era salito in gola. Strinse i denti, cercando di mantenersi calmo e lucido.
«Eurus, per favore...»
Ma ormai non poteva più essere lucido. Non poteva più fingere quel distacco, non di fronte a quelle minacce tanto reali. Tentò comunque di giocarsi un'ultima, disperata carta, sperando in un colpo di fortuna, o di ragionevolezza.
«Jane non ci crederà mai»
«Allora trova qualcosa di convincente da dire, Sherlock, e spezzale il cuore. Fallo, o l'addio sarà più definitivo di quello che ti dirà lei»
Il detective aprì gli occhi e a lungo fissò l'espressione rigida della sorella, ben consapevole che anche lei stava sostenendo il suo sguardo. Non dissero altro, si guardarono e basta, ed Eurus capì.
«Bene. La chiamo dal tuo numero. Oh, una limitazione importante: non puoi fare menzione in alcun modo che la sua vita è in pericolo. Non potrai dire in nessun momento che si tratta di un'emergenza. Se lo farai, concluderò la conversazione e la sua vita. Siamo intesi?»
Sherlock annuì, un movimento appena percettibile della testa, prima che il monitor tornasse ad inquadrare Jane che, ancora seduta sul marciapiedi, finiva lentamente un'altra sigaretta.
Quando sentì il telefono vibrarle in tasca, ebbe un sussulto di spavento che le fece venire la tachicardia. Si mise la sigaretta tra le labbra e prese il cellulare. Non appena vide il nome comparire sullo schermo, la tachicardia aumentò, e la sigaretta le cadde dalla bocca in un tripudio di cenere e scintille. Scattò in piedi e rispose nei pochi istanti richiesti dalla sua mano tremante.
«Sherlock?»
Lui, dall'altra parte, sentì la gola chiudersi all'interno di una morsa cocente. Pronto a riprendere fiato e ributtarsi sott'acqua.
"Non farlo, non farlo..."
«Jane»
Lei impiegò qualche istante per accorgersi di cosa stava accadendo, e quando finalmente riuscì a realizzare che Sherlock era vivo, e stava bene, e la chiamava, si lasciò andare ad un lungo respiro che le sciolse la pesantezza dalla testa e dal cuore.
«Oh, Dio, stai bene! Sei vivo!»
Sherlock annuì, accompagnando il gesto con un'affermazione laconica. «Sì»
«Ma dove sei? Lestrade ha detto che siete in ospedale. Qui... Casa tua è tutta distrutta, hanno parlato di un attentato, e...»
«Va tutto bene» la interruppe lui. «Io e John stiamo bene. Stiamo indagando» Si voltò verso il dottore, e verso suo fratello, per scambiarsi con loro un breve cenno d'intesa. «C'è anche Mycroft»
«Risparmiale i dettagli, fratellino, sono già passati trenta secondi»
L'informazione della presenza di entrambi gli Holmes impiegò pochissimo a raggiungere Jane, ma non ebbe il tempo di venire processata adeguatamente, perché il detective, sotto la pressione di Eurus, cambiò subito discorso.
«Ma non è per questo che ti ho chiamata»
Jane aggrottò la fronte, interdetta. «Che succede?»
«Devo... Devo chiederti una cosa»
Sherlock sapeva cosa Jane si sarebbe aspettata, nel sentirsi parlare così. Avrebbe atteso la richiesta di un favore, di essergli d'aiuto, come sempre, secondo il modo in cui ormai si erano abituati a scandire il proprio rapporto.
«Cosa devo fare?»
Ma Jane non poteva immaginare alcuna delle circostanze in cui Sherlock si trovava invischiato in quel momento, non aveva alcun indizio che avrebbe potuto aiutarla a capire, perché lui l'aveva tenuta all'oscuro proprio per evitare tutto questo, per evitare che lei si mettesse in mezzo, si mettesse in pericolo. Per salvarla, un'ultima volta. Ma nessuna delle sue precauzioni era stata sufficiente, e ora Sherlock si trovava costretto a sprofondare giù, giù, verso l'abisso, a cercare i fili del cuore di Jane che l'avrebbero fatta esplodere prima che esplodesse il resto del mondo attorno a lei. Sapeva cosa fare, dove andare, quali corde toccare, per farle nuovamente del male.
«Ho... Ho incontrato una persona che ho conosciuto tanti anni fa»
La prima immagine che gli balenò trai pensieri fu quella di Irene Adler, tornata dagli Inferi per scuotere la sua vita e la sua testa, e che lo aveva attratto con il suo fascino in poco meno di qualche messaggio.
«Questa persona sa di te e di Aden»
Però Sherlock sapeva a chi in realtà si stava riferendo, questo ostacolo che non voleva il suo bene: Eurus, di cui pochi giorni prima nemmeno ricordava l'esistenza, e che era tornata dalle sue memorie per rovinargliela, la vita.
«Ma non vuole che io mi frequenti con voi»
Jane sbatté piano le palpebre, come a volersi sincerare di non essere svenuta per via del freddo e dell'angoscia. Sapeva cosa stava per succedere, cosa stava per risuccedere. Avrebbe potuto benissimo non farglielo dire, ma aveva bisogno di una conferma.
«Quindi?»
Così gli mise il cuore proprio tra le mani, disposta a farselo pugnalare.
«Quindi...»
L'orologio aveva da poco superato il minuto e mezzo, con i secondi ritmati dallo schioccare della lingua di James Moriarty e dal lampeggiare di una luce rossa che invase la stanza.
«Credo che sia meglio che tu ed Aden non veniate più a vivere a Londra»
Jane respirò a bocca aperta, un filo di fiato simile al fumo della sigaretta che le scappava dalle labbra. Si guardò intorno, confusa, incapace di fare qualsiasi cosa. Di parlare, rispondere, urlare, correre. Scappare. Non riusciva a fare niente, tanto era confusa.
«Jane?»
Allora attaccò. Guardò lo schermo col nome di Sherlock che indicava la chiamata conclusa, prima che si spegnesse e le mostrasse il suo riflesso oscuro. Restò immobile qualche istante, cercando di unire i puntini del discorso attraverso un filo anche solo minimamente logico, ma non ci riuscì. Perché chiamarla per dirle una cosa del genere? Perché proprio ora, dopo quello che era successo a Baker Street? Perché durante un'indagine, perché...
Quando lo squillo del telefono riempì di nuovo la fredda e grigia stanza, Sherlock alzò gli occhi da dentro le sue mani e li posò sullo schermo.
Eurus, ancora nascosta alla loro vista, ridacchiava divertita. «Vediamo che altro ha da dirci, la tua vicina di casa» e, facendo ripartire il conto alla rovescia, rispose alla chiamata.
Sherlock si aspettava un urlo dirompente che avrebbe squarciato il silenzio, uno di quelli a cui da anni si era abituato. Ciò non avvenne ma, anzi, accadde il contrario: Jane, con la voce rotta dall'emozione, o dalle tante che la abitavano in quel momento, iniziò a parlare, precisa ma agitata.
«Ascolta, Sherlock... Io non so chi sia questa persona. Non so come tu l'abbia conosciuta, che tipo di rapporto ci sia tra di voi, né tantomeno perché ti sia deciso a farmi presente della sua esistenza proprio in questo momento. Però mi pare di capire che sia qualcuno di abbastanza importante da convincerti di questa tua scelta. Va bene, lo accetto»
Sherlock restò in silenzio ad ascoltare, ora che avrebbe voluto risalire su, verso l'aria, ma quelle parole, pesanti come macigni, lo trattenevano e lo trascinavano verso il basso, di nuovo verso l'abisso di disperazione.
«Ma sappi, che una volta fatto, non ti permetterò di tornare indietro. Non ti permetterò di cambiare idea. Non ti permetterò di prenderti gioco di Aden come ti diverti a prenderti gioco di me. Non ti permetterò di essere così incostante nella sua vita, non ti permetterò di apparire e sparire a tuo piacimento. Scordatelo, Sherlock, hai capito? Perché io a Londra ci vengo a vivere lo stesso, e non sarà per te. Sarà per me, per Aden. Sono stanca di battermi per le persone e sbagliare, sono stanca di essere lasciata sola. Quindi fatti la tua vita, non ti fermerò, ma se è questo quello che vuoi ti prego di fare l'adulto e di lasciarci in pace, se quello che possiamo darti non ti è sufficiente»
Si fermò a prendere fiato e nel farlo, chiudendo gli occhi, due lacrime calde le corsero lungo il volto, due fiumi in piena che rassomigliavano le sue parole.
«Perché devi sempre rovinare tutto?»
Scandì bene ogni sillaba, ogni argine che si spezzava e lasciava uscire tutte quelle emozioni imbottigliate all'interno del suo corpo. Sherlock avrebbe voluto dire altro, forse urlarle la verità, rischiare di metterla in pericolo, pur di disinnescare la bomba della sua anima e farla smettere di soffrire. Aveva la cura proprio tra le mani, dentro la bocca, ma sapeva di non poterla usare. Ad appena sei secondi dalla fine del conto alla rovescia, vide Jane allontanarsi il telefono dall'orecchio, fissarlo ancora con una smorfia di rabbia e dolore che si propagò, e propagò, fino a detonare nel resto del corpo e farla piegare in due, accasciare al suolo, accanto alla sigaretta fumata per metà.
Sherlock chiuse gli occhi, stringendoli forte, prima di nascondersi il volto tra le mani, la pistola ancora stretta tra le dita. Con uno slancio per cui non sentiva di avere più le energie, riuscì finalmente a risalire verso l'alto, lasciando il dolore lì, da qualche parte, in attesa di affrontarlo.
«Sherlock, so quanto sia stato difficile, ma...»
«Eurus, ho vinto!» interruppe Mycroft, alzandosi di scatto, pur sentendosi ancora in apnea. «Ho vinto! Avanti, rispetta le regole. La bambina sull'aereo. Devo parlarle»
Nel notare l'assenza di qualsivoglia replica, positiva o negativa che fosse, dallo schermo, il respiro di Sherlock si fece più veloce, il suo tono più furioso.
«Ho vinto, ho salvato Jane Aldernis!»
A quel punto Eurus sospirò. E non era un sospiro di resa, ma di qualcos'altro. Delusione.
«Salvata?» ripeté. «Da cosa? Sii ragionevole, ho già usato un drone per far esplodere il tuo appartamento. Perché sarei stata così maldestra da utilizzarne un altro, davanti a tutti quei poliziotti?»
Il sangue di Sherlock gli si gelò nelle vene, facendosi più lento, più denso, fino ad arrivargli alla testa, bloccandogli il cervello.
«Non hai vinto. Hai perso. Guarda cosa le hai fatto, guarda cosa hai fatto a te stesso»
Alzò gli occhi verso lo schermo: Jane non c'era più, ovviamente, dal momento che non faceva più parte del gioco. Allora si girò, dando le spalle al volto di Eurus che lo rimbeccava per la sua mancanza di giudizio, la mente ormai impressa con la memoria indelebile di Jane e del suo corpo piegato in due, dei suoi occhi lacrimanti, la disperazione, e la delusione, e la paura.
«Tutte quelle complicate emozioni, ho perso il conto! Contesto emotivo, Sherlock. Ti distrugge ogni volta»
E ora, mente girava attorno a quella maledetta bara bianca, si chiedeva come, come, come sarebbe stato in grado di convincerla che tutto quello che era successo era dovuto a forze esterne a lui, più forti, più malvagie, più violente.
«No, ti prego, rimettiti in senso, voglio che tu stia bene. La prossima volta non sarà così facile»
Sulla sinistra dello schermo, la porta d'uscita si aprì con uno sibilo metallico e assordante.
«Prenditi tutto il tempo»
Eurus concluse e il segnale sparì, lasciando sullo schermo una serie di linee simili a neve grigia. John e Mycroft, alle sue spalle, si mossero lentamente verso la stanza successiva, senza aggiungere alcuna parola che potesse turbare ulteriormente lo stato emotivo di Sherlock, già scosso fino alle sue fondamenta. Lui, nel frattempo, si avvicinò al coperchio della bara, nuovamente appoggiato alla parete opposta a quella d'entrata e d'uscita. Lo prese tra le mani, gli occhi fissi sulla scritta color sangue, e lo mise al suo posto, sopra alla cassa. Ne sfiorò il legno con le dita, passando sopra ad ogni sbavatura di vernice rossa, alle lettere che gli si ripetevano incessanti nella testa.
"Endgame?"
Era davvero la fine dei giochi, stavolta? Il loro rapporto poteva dirsi chiuso, come quella bara? Jane non sarebbe più tornata, vero?
No, certo che no. Lo aveva reso abbastanza chiaro, non glielo avrebbe più permesso. Non dopo le promesse che lui le aveva fatto, le belle parole, le prospettive, che fino a pochi istanti prima sembravano ben chiare davanti ai loro occhi. Progetti, finalmente, chiarezza tra le labbra. Ora che lui voleva mettere tutto a posto, ora che lei sembrava convinta delle sue buone intenzioni, non era più possibile tornare indietro. Aveva rovinato tutto, come sempre. Era stato costretto, certo, ma alla fine che differenza poteva fare? Jane non l'avrebbe mai saputo. Oppure sì, e non ci avrebbe creduto. Oppure sì, ma non sarebbe stato sufficiente, e lei sarebbe rimasta ferma sulla sua decisione, perché non importava il motivo per cui le aveva di nuovo spezzato il cuore, quanto piuttosto che glielo avesse di nuovo spezzato e basta.
Sherlock nuotava, dentro di lui, ancora in apnea, e cercava di spingersi verso la superficie il più velocemente possibile per tornare a respirare. E non ci riusciva, non ci riusciva, non...
«Sherlock?»
John lo chiamò, cercando di distoglierlo dalla sua titubanza, ma fuori imperversava la tempesta, la stessa che Sherlock sentiva dentro e non sapeva come fermare, se non attraverso un gesto inconsueto, così poco nel suo stile, così poco da lui. Fece un ultimo scatto verso la superficie, e quando la sua testa ruppe finalmente la linea dell'acqua, chiuse la mano in un pugno, che poi batté sul coperchio bianco, proprio all'altezza della scritta rossa, che si crepò ulteriormente. E continuò, ancora e ancora, a spezzare, e fracassare, e urlare di rabbia, e di tristezza, e di delusione, e di paura, e di insoddisfazione per quel destino che sembrava ripetersi nella sua vita e contro cui poco valeva provare a ribellarsi. No, no, no, non poteva finire così, non voleva che finisse così, no, no, no...
Continuò a lungo, o forse per poco, non seppe quanto. Continuò, e continuò, fino a quando ogni centimetro di bara non fu ridotto in scheggia, e lui non riuscì a riprendersi, boccata dopo boccata, tutta l'aria di cui aveva bisogno.
"So tell me to leave, I'll pack my bags, get on the road.
Find someone that loves you better than I do, darling, I know.
'Cause you remind me every day I'm not enough, but I still stay."
-Noah Cyrus, "July"
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