{68° Capitolo}
[Capitolo sessantottesimo]
Sherlock
La luce che dalle mie spalle entra di taglio in Baker Street filtra attraverso la polvere sollevata da tappeti e suppellettili rimasti lontani dall'arnese piumoso della signora Hudson poiché vittime per due mesi della mia crescente follia. Attraverso di essi, come attraverso una foschia, riesco a vedere John, e comunque senza vederlo davvero. Siede alla sua poltrona, beve tè da una tazza a pallini colorati, e per un attimo mi illudo che tutti sia tornato a come era prima, e che questo mio sacrificio, o sedicente tale, sia davvero valso a qualcosa. Ma lo so che non è così, lo capisco da quel sorriso di circostanza e cortesia che mi rivolge da tutto il giorno. In realtà so che non vede l'ora di andarsene.
«Molly sarà qui tra venti minuti» dice infatti, controllandosi l'orologio.
«Credo di poter resistere venti minuti senza supervisione»
Abbozzo anche io ad un sorriso, tentando di abbassare la tensione. Non funziona, perché quello di John scompare.
«Ne sei sicuro?»
Il dottore nasconde la sua espressione scontrosa dietro la tazza, beve un sorso e poi la posa sul tavolino alla sua destra.
«Scusa, è che...» continua poi, accennando ad alzarsi. «Sai, Rosie»
Socchiudo gli occhi e scuoto un attimo la testa. «Sì, certo, Rosie»
«Te la caverai per venti minuti?»
«Sì, sì» ripeto, e faccio di nuovo oscillare la testa. «Scusami, non stavo pensando a Rosie»
Talmente mi sono illuso che tutto fosse tornato come una volta che nemmeno mi sono ricordato di un elemento così fondamentale, un cambiamento tanto stravolgente. Basta pensare a lei, a Rosie, per rendersi conto che davvero niente sarà più come prima.
John si rizza, mi guarda dall'alto. «Tranquillo» dice, ma so che non lo pensa.
«Devo venire... A trovarla, presto»
«Sì»
Si avvicina alla porta, fa per uscire senza nemmeno voltarsi a salutarmi. Prima non lo avrebbe mai fatto, ma adesso... È tutto diverso.
«A proposito, la registrazione forse non sarà ammissibile»
John rientra nella stanza. «Scusa, come?»
«È stata estorta, quindi potrebbe non essere valida» spiego, lasciandomi sfuggire una risatina. «Non che abbia importanza, non ha più smesso di confessare»
«Perfetto»
Annuisco. «Già»
Il gelido distacco di John ben riesce a farmi capire che non importa cosa dirò, niente riuscirà a trattenerlo qui. Neanche il caso di Culverton Smith, il serial killer mascherato da filantropo, quello del piano per salvarlo da me e sé stesso. Ma non serve a niente, perché John mi guarda per un secondo solo, e poi si volta, pronto ad andarsene di nuovo. Lo fa, lo farà, ma io non posso permetterglielo. Non posso permettere che tutto rimanga lo stesso, che tutto cambi in peggio. Non dopo quello che ho fatto, quello che ho rischiato. Non posso farlo.
Guardo la tazza, poi di nuovo John, che ormai è fuori, e glielo chiedo.
«Stai bene?»
La mia domanda, ovviamente, lo fa scattare, come se l'elastico che teneva teso ogni suo muscolo nello stare qui, con me, si sia rotto e lo abbia lanciato in avanti verso la mia direzione. Ride amaramente mentre rientra nel salotto.
«Cosa?» chiede, retorico. «Io, no, non sto bene, non starò mai più bene, devo solo accettarlo. Le cose stanno così, e le cose fanno... Schifo»
Parla tutto d'un fiato, come se si fosse ripetuto queste parole a lungo nella testa, per capirle e poi accettarle. Anche lui deve averlo imparato in terapia, e già questa potrebbe essere considerata una conquista, il primo passo per smettere di ignorare il passato.
Ora John abbassa lo sguardo e si ferma un attimo, sospirando flebilmente.
«Non hai ucciso tu Mary. È morta salvandoti la vita, per sua scelta. Nessuno l'ha costretta, nessuno poteva costringerla, ma... Il punto è che non l'hai uccisa tu»
Stavolta, fa uscire le parole con calma, consapevolezza, quasi a dare il tempo ad ognuna di essere di scorrermi lungo la schiena come un brivido di sorpresa e sollievo.
«Salvandomi la vita, le ha dato un valore maggiore» rispondo allora anche io con le parole che ho scelto dopo averne saggiate mille altre nel corso delle settimane, in preda ai deliri dell'eroina. «Come se valesse soldi che non so come spendere»
John ascolta, e poi sorride. Non sinceramente come vorrei, ma nemmeno fintamente come mi aspetterei. E va bene anche così.
«Così stanno le cose»
Annuisco, senza dire altro. Acconsento col mio silenzio, prima di abbassare lo sguardo, come se mi pesasse tenerlo alto così a lungo.
John sospira. «Torno domani dalle sei alle dieci»
Rialzo gli occhi nella sua direzione. Sorrido anche io, alzando la tazza verso di lui. «Non vedo l'ora»
Va bene così, è già un primo passo.
«Già» conclude lui, e stavolta fa per andarsene davvero, ed io non lo fermerò.
Va bene così, basta questo. Sapere che tornerà.
Ma adesso è John a fare marcia indietro. Si blocca, proprio sulla soglia, attirato da qualcosa. Un rumore. La mia suoneria che irrompe nel silenzio e fende l'aria e la polvere, più accecante della luce che viene dalla finestra.
Spalanco gli occhi, per un attimo preso dal panico, e subito cerco di dissimulare l'accaduto bevendo a lungo dalla mia tazza una tisana ormai fredda.
«Cos'era?»
John rientra, ed io gli rivolgo un'espressione interrogativa ed innocente, il sorso di tisana ancora in bocca.
«Mh?» faccio, bevendo. «Che cosa?»
«Quel suono»
«Quale suono?»
Il dottore continua a camminare, si avvicina verso di me, ormai inarrestabile.
«John?»
«Sto per fare una deduzione»
Sorrido, cercando di mostrarmi accogliente, non impaurito. «Oh, okay, va bene»
«E se per caso è giusta, tu devi essere sincero e dirmelo, okay?»
«Va bene, anche se molte volte è possibile che il suono di un messaggio sia abbinato a caso a...»
«Buon compleanno»
Chiudo lentamente la bocca e serro le labbra. Dire che mi abbia preso alla sprovvista è poco.
«Grazie, John» annuisco. «Sei davvero gentile»
«Non sapevo quand'era il tuo compleanno»
«Adesso lo sai»
Soffio via le parole a bassa voce, riavvicinando le labbra al bordo della tazza. Restiamo un attimo in silenzio, più di un secondo e il giusto necessario per valutare. La domanda aleggia nell'aria, la risposta anche, e le onde di un verso d'orgasmo è tutto ciò che le collega e le divide.
«Seriamente, vogliamo parlarne un attimo?»
«Parlare di cosa?»
«Tu e quella donna»
Sospiro, cercando di far intendere la mia totale indisponibilità a parlare dell'argomento. Almeno ha azzeccato la deduzione principale...
«Andate a cena da Harvester in segreto? Passate... Notti di passione ad High Wycombe?»
«Oh, Santo Cielo!» lo interrompo, alzando la voce. «Io non rispondo ai messaggi!»
«Perché no?» ridacchia, quasi prendendomi in giro. «Sei proprio uno stupido!» Mi guarda dritto negli occhi, scuotendo piano la testa, quel sorrisetto ancora sul volto. «Jane lo sa almeno?»
Una fitta mi attraverso veloce il petto, come se un enorme spillone mi avesse appena trafitto passandomi da parte a parte.
«Perché dovrei dirglielo?»
«Perché dovresti... Perché è innamorata di te, idiota!»
John grida, e questo suo gesto quasi mi riscuote. O forse è per via delle parole che ha detto? Perché finalmente qualcuno lo ha detto ad alta voce, e non siamo stati né io né Jane?
«È innamorata di te, e ha il diritto di sapere che la stai tradendo!»
«Io e Jane non stiamo insieme, John. Lo sai meglio di me»
Lo dico calmo, anche se dentro di me sento che quanto sto dicendo non equivale a quello che penso.
«Dovreste, invece. Sai perché? Perché Jane ti rende una persona migliore e tu nemmeno te ne rendi conto»
«Come penso di averti detto molte altre volte in passato, un legame romantico, per quanto possa sembrare appagante...»
«Ti completerebbe come essere umano» mi ferma lui. «La sopporti tanto perché per la prima volta hai trovato qualcuno che ti stimoli senza sopraffarti, che ti faccia essere te stesso e anche qualcos'altro. Con Jane non sei più solo Sherlock Holmes. Sei altre cose. Un padre, un essere umano...»
«Questo non significa niente»
«Là fuori c'è una persona, una persona normale che tiene a te, e tu invece vai appresso ad una sociopatica!»
Si mette le mani sui fianchi, si guarda attorno, come se non riuscisse più a guardare me. Sembra così fuori di sé, quasi... Deluso. Deluso perché ancora non ho capito qualcosa che a tutti invece pare ovvia.
«Tu hai la più pallida idea della fortuna che hai?» continua, puntandomi addosso un indice accusatorio. «Immagino di no, perché la lasci sempre andare via»
«È ciò che desidera lei» ribatto. «Pensa che la metterei in pericolo»
«No, tu pensi che la metteresti in pericolo. Ma a lei non importerebbe, capisci? Non le importerebbe, perché si fida di te. Per questo torna sempre. E tu...»
Si ferma di nuovo. Prende un sospiro lungo e chiude gli occhi, come se stesse cercando di tenere a bada qualcosa dentro di sé. Delle parole, un'emozione, forse un sentimento. Rabbia, rammarico, frustrazione.
«Devi fare qualcosa» mi ordina poi. «Jane non si merita tutto questo. Non si merita le tue bugie. Devi fare qualcosa finché sei in tempo, perché lei non tornerà per sempre. L'occasione non è per sempre. Fidati, Sherlock, svanisce prima che tu lo immagini. Prima che tu lo immagini»
Ci guardiamo adesso in silenzio, ora che non ci sono più domande né risposte senza voce, ma solo ordini perentori e promesse fittizie che ballano in mezzo al pulviscolo. Nel ripetermele, abbasso lo sguardo, in imbarazzo, perché in fin dei conti so che John ha ragione. Che tutte le scuse che sto usando scricchiolano sotto al peso della verità. L'ho sempre saputo, ed ogni SMS di Irene Adler mi tormenta nel ricordarmelo, come una sveglia che mi distoglie dalle mie distrazioni.
«Aveva torto su di me»
Rialzo gli occhi, ritrovo quelli di John che mi fissano, come pronti a rivelare qualcosa di importante che hanno nascosto fino ad ora.
«Mary? Perché?»
La mia intuizione era corretta, e infatti ora John distoglie lo sguardo, puntandolo da qualche parte alla sua sinistra.
«Pensava che io sarei subito corso a... A salvarti, in caso di guai, ma non l'ho fatto, non finché me lo ha detto lei. È così che funziona, e tu te lo stai perdendo. Mi ha insegnato a essere l'uomo che lei pensava io fossi. Dovresti provarlo»
«Perdonami, ma ti stai sottovalutando» ribatto. «Ho conosciuto molte persone ma mi sono fatto pochi amici, e posso dire con sicurezza che...»
«L'ho tradita»
Eccolo qui, il grande segreto, la grande menzogna che i suoi occhi non riuscivano più a celare. Una pallottola che, precisa, arriva proprio in mezzo agli occhi e non dà il tempo di pensare né di valutare, di interpretare. Semplice, precisa, letale.
«Non hai niente da dire?» mi chiede, per poi girarsi verso la finestra, fissando un punto alle mie spalle. «Ti ho tradita, Mary»
Lo guardo, per un secondo interdetto, e poi sposto anche io i miei occhi verso il vuoto a cui John si sta rivolgendo. Prima di sbieco, e poi sempre più direttamente.
«C'era una donna sull'autobus e io avevo una margheritina trai capelli, ci avevo giocato con Rosie. Quella ragazza mi ha sorriso. Soltanto sorriso»
E quasi posso immaginarmi, mentre lui le parla, Mary che lo fissa in un silenzio attonito, le mani giunte davanti al grembo, la schiena ben dritta e un'espressione attenta al racconto del marito, alle sue scuse.
«Ci mandavamo dei messaggi, e sai quando? Quando lasciavi la stanza, ecco quando. Quando allattavi nostra figlia. Quando andavi da lei per cullarla»
Torno a guardarlo, ma lui non mi guarda. Tiene gli occhi fissi nello stesso vuoto, nello stesso viso a me invisibile.
«C'è stato solo quello» aggiunge, la voce incrinata sotto al peso della colpa. «Solo dei messaggi. Ma volevo di più. E sai una cosa? Lo voglio ancora. Non sono l'uomo che credevi che fossi. E non posso esserlo, ma è questo il punto. Questo è l'unico punto»
Più parla, tirando fuori tutte le sue paure mai davvero affrontate, ancora senza forma come cera bagnata, e più la voce gli si spezza, e più cerca di farsi forza e più crolla. Si morde le labbra, un tentativo sterile di trattenere le lacrime.
«Quello che pensavi io fossi... È l'uomo che vorrei essere»
Il silenzio, dopo queste parole, si fa più pesante, e nemmeno i rumori del traffico fuori dalla finestra riescono a scalfirlo. Si insinua tra le parole dette e pensate, tra le emozioni ancora da esprimere e quelle già espresse. Con me, con Mary, con sé stesso. Quelle che John si lascia sfuggire, anche se senza volerlo.
Abbassa la testa, stringendo di nuovo i pugni. Chiude gli occhi, cerca di respirare, ma mentre butta fuori il fiato si piega su sé stesso, come per proteggersi. Incassa il collo tra le spalle, rimane rigido per qualche secondo e poi la sua schiena inizia ad ondeggiare. Su e giù, con colpi secchi e ritmici. Si porta lentamente una mano sugli occhi, coprendoseli, nel vano tentativo di impedire alle lacrime di scappargli via dal volto.
I singhiozzi si fanno sempre più veloci, taglienti: sembra non riuscire più a respirare, tanto forti diventano. Allora poso la tazza sul tavolino accanto alla poltrona, mi alzo quanto più velocemente il mio corpo livido me lo permette, e mi avvicino a lui. Gli cingo delicatamente le spalle, lascio che abbandoni il capo contro il mio petto, in un abbraccio che sento naturale e dovuto, un gesto spontaneo di cui solo qualche tempo fa mi sarei stupito. Ma ora no, in questo momento specifico no.
«Va tutto bene» mormoro.
«Non va tutto bene» risponde subito John, continuando a piangere, grosse lacrime che piovono sul tappeto.
Non replico. Ha ragione, non va tutto bene. In quale universo si potrebbe dire che stia andando tutto bene? In quale universo un uomo riesce a tornare come prima, dopo aver provato tutta questa straziante sofferenza?
Mary è morta, e John inevitabilmente è diventato una persona diversa che dovrò imparare a conoscere, sebbene sappia comunque che il soldato c'è ancora, e resiste da qualche parte, dentro di lui. Lo so, lo sapevo anche durante quella uggiosa giornata di novembre, davanti a quella lapide coperta di rose bianche, quando tutto sembrava irrimediabilmente andato in frantumi. Lo so, lo sapevo, che John aveva solo bisogno di qualcuno che lo aiutasse a scrollarsi la paura di dosso, e che non era ancora morto sotto le macerie del proprio dolore.
«No» convengo alla fine, perché è vero, ha ragione, le cose ora sono diverse e non torneranno uguali a prima, come avrei voluto. Ma va bene così. Va bene anche così. «Ma le cose stanno così»
···
È verità fattuale che io e Jane, nel corso dei lunghi anni della nostra conoscenza, non siamo mai sati in grado di dare una definizione al nostro rapporto, tanto che ormai da tempo abbiamo smesso di porci domande in merito. Non che ne avessimo particolare bisogno, e probabilmente la sola idea di dover affrontare il discorso rappresentava un motivo di potenziale imbarazzo. Dunque siamo rimasti così, più di una coppia di amici ma meno di una coppia di fidanzati, genitori senza nucleo famigliare né progetti, ed ogni possibile etichetta entro cui incastrare la nostra relazione viene scartata perché manca di qualche elemento fondamentale per riconoscerla come idonea. Ci va bene così. A lungo ci è andato bene così.
John però ha ragione, e forse tutto questo non è giusto. È come mentire, scappare via ognuno dai problemi dell'altra per evitare che diventino anche i propri, per non complicare ulteriormente quelli che abbiamo già. Non è giusto ignorarci così a lungo, evitare di affrontarci, illuderci che vada tutto bene così. Non va bene così. L'ho capito nel momento in cui ho sfiorato la morte con la punta delle dita, quando Mary mi ha centrato alla perfezione il petto, accanto al cuore: un Cupido anticonvenzionale, con pistola e proiettili invece di arco e frecce, che finalmente mi ha costretto ad affrontare la realtà.
Nei secondi e minuti successivi, e poi anche durante l'operazione, una serie di allucinazioni dovute al dolore mi hanno costretto a vagare all'interno del mio palazzo mentale, in cerca del modo che mi desse maggiori probabilità di sopravvivere. Cadere all'indietro, cercare di limitare l'emorragia, fermare lo shock, mitigare il dolore... Azioni che ho potuto razionalizzare e comprendere solo attraverso la presenza, seppur immaginaria, di persone da cui mi sarei aspettato tali consigli: Molly, Anderson, Mycroft... Ma la loro presenza non è riuscita ad allontanare la paura, lancinante e insopportabile quasi quanto il dolore.
"Non devi avere paura!" mi diceva la proiezione di James Moriarty che avevo usato come mezzo di razionalizzazione. Speravo che immaginarlo incatenato all'interno di una cella di isolamento mi aiutasse a controllarla, ma il suo ghigno inquietante mi spingeva verso il muro, la paura si autoalimentava fino a prendere il sopravvento, ed io non riuscivo a controllarla, mi faceva dimenticare tutto il resto delle strategie: ferma lo shock, mitiga il dolore, controlla la paura...
Paura che fosse tutto inutile, che non bastasse, che me ne andassi. Stavolta davvero. Stavolta senza nessuna opportunità di rimettere le cose a posto, dire le verità nascoste, i sentimenti celati. Andarmene e sparire, lasciando di me poco o niente, oltre a pochi ricordi e tanti misteri.
"Deve pur esserci nel tuo ridicolo palazzo di ricordi qualcosa in grado di calmarti. Trovalo"
Fu allora che pensai a Jane. E lei apparve proprio lì, accanto a me, dentro quella stanza claustrofobica. Emerse dai miei sentimenti più profondi, quelli che più di tutti mi sono premurato di nascondere, ed è rimasta accanto a me, aiutandomi ad affrontare la paura. Non diceva granché, oltre a qualche generica parola di incoraggiamento, però mi stringeva la mano, e sorrideva. Quel suo sorriso, caldo e rassicurante, le illuminava il volto e riusciva allo stesso tempo a scacciare tutto il resto, a permettermi di pensare che, sì, invece ce l'avrei fatta. Credevo alla sincerità del suo sorriso, e tanto è bastato, davvero, a calmarmi.
Quando mi sono risvegliato e l'ho trovata accanto a me, a stringermi la mano anche lì, ho creduto che fosse appena uscita dal mio delirio, che non se ne fosse mai andata. Se fossi stato in me avrei concentrato tutte le mie energie nel pensare a quanto fosse ridicolo un tale pensiero, ma in quell'istante non mi importava essere illogico: Jane c'era, era lì, e tutto quello a cui riuscivo a pensare era il desiderio che non se ne andasse più via.
Nonostante avessi però rischiato la vita, non ho comunque trovato il coraggio di confessare apertamente quel che penso di lei. Non ho trovato il coraggio di chiederle di tornare a vivere a Londra, magari per iniziare qualcosa insieme, riuscire finalmente a dare un nome a quel che siamo. No, non l'ho fatto, e John ha ben capito perché.
Perché è più facile restare sulla superficie delle cose piuttosto che immergervisi. Perché è più sicuro non averla mai veramente con me, piuttosto che farla avvicinare e rischiare di perderla per sempre. Perché è meno doloroso credere di non pensare a lei in nessun senso, piuttosto che sperare invano di essere in due.
Ma John ha anche ragione quando dice che Jane torna sempre, anche quando cerca di imporsi di non farlo, anche quando io cerco di tenerla a debita distanza. Lei torna ogni volta, senza che io glielo chieda, e non tanto per via di una sorta di incosciente coraggio, ma perché lei si fida del fatto che non le farei mai intenzionalmente del male.
Adesso, però, sono io a non crederlo più. Non dopo la morte di Mary, che non ha fatto altro che accentuare una paura che pensavo di aver debellato con la scomparsa di Moriarty, e che invece in me era solo sopita. Il male non è di certo svanito dal mondo, perché non è così che funziona: esistono milioni di ulteriori individui che non aspettano altro che fare del male agli altri. Scoprire che Moriarty non era che uno dei tanti mi ha posto davanti alla terribile ansia che possa succedere di nuovo, e che a volte si fa incontrollabile, ad esempio in momenti come questo, quando mi ritrovo circondato dalle persone che considero a me più care, riunitesi in pasticceria per una futilità come il mio compleanno. Più sono vicino a loro e più preferirei allontanarmi, come ho sempre fatto. Specialmente con John. Specialmente con Jane. Cerco di farlo anche ora che dovrei essere il centro di tutto, con gli occhi di tutti puntati addosso senza che sia io ad imporlo. Ma no, non ce la faccio, non ora, non con ancora viva la consapevolezza delle mie azioni e responsabilità. Mi estranio dal resto delle risate e dal senso di spensieratezza che dovrebbe infondermi una qualche sorta di calore, e che invece preferisco osservare dall'esterno della felicità altrui.
Poi qualcosa attira la mia attenzione, e non sono né le risate né gli argomenti di conversazione degli altri. È una vibrazione, una specie di valzer che fa ballare il legno del tavolo su cui il telefono scivola veloce. Alzo gli occhi dalla mia fetta di torta e li punto sullo schermo illuminato per leggere il mittente della chiamata. Un groppo mi volteggia tra lo stomaco e la gola, salendo e scendendo velocemente.
«Scusatemi»
Mi alzo dal tavolo e, senza una parola di più, esco dal locale, ritrovandomi nel freddo londinese di inizio gennaio a pizzicarmi la pelle e scuotermi le ossa. Rispondo alla chiamata.
«Pronto?»
Silenzio, dall'altra parte, respiro trattenuto, come il mio. Uno, due, tre secondi. Poi un saluto.
«Ciao»
Semplice, schietto, ma non per questo meno emozionato. Lo riconosco, quel sollievo velato, schermato dall'uso di questa unica parola.
Sorrido. «Ciao, Jane»
Ora il sospiro si scioglie, ed è lungo, liberatorio.
«Oh, Dio, stai bene!» Non è una domanda, nemmeno un'osservazione, quanto più un'esclamazione sorpresa, confortata. «Oh, mio Dio, mio Dio, non rispondevi ai messaggi, e ancora non mi avevi sbloccata, e il telegiornale parlava di...»
«Sto bene, davvero» la interrompo. «Se escludiamo le contusioni e i sintomi dell'astinenza, ovviamente»
Un altro sospiro si lascia andare dalla sua voce, accompagnato da una risatina commossa. «Okay» dice soltanto. «Questo è l'importante. Che è andato tutto bene»
Io e Jane rimaniamo in silenzio, ognuno all'interno delle proprie considerazioni, cercando di gestire al meglio le prime parole che ci rivolgiamo dopo settimane di lontananza.
«E John come sta?»
«Bene, credo» rispondo, e già subito mi rendo conto della mia bugia, e di quelle successive che dirò. «Gli ho spiegato il piano e sembra che abbia capito. Non abbiamo parlato di molto altro»
Attraverso la linea telefonica, quasi posso immaginare Jane assumere un'espressione perplessa. So che non mi crede, è troppo sveglia per bersi una balla del genere.
«No?»
«No. Tra l'altro ha deciso di trascinarmi in pasticceria per festeggiare, quindi...»
«Oh, cavolo, oggi è il tuo compleanno!»
Però so anche, se pure non ci credesse, che non farebbe nulla per cavarmi la verità di bocca. Non in questa circostanza.
«Me ne ero completamente dimenticata!»
No, non Jane. Lei lascerebbe la verità a noi, a me e a John, e si accontenterebbe di quella che ho deciso di presentarle. Senza sapere che, almeno adesso, avrebbe tutte le ragioni del mondo per pretendere la verità.
«Diciamo che c'erano cose più urgenti a cui pensare, tu che dici?»
Per pretendere di sapere di Irene Adler.
«Avrei voluto esserci! Niente batte riuscire a vederti in imbarazzo davanti ad una torta con le candeline»
Non lo fa. Perché si fida di me.
«Avrai altre occasioni per fare questa esperienza»
Ed è per questo che torna ogni volta, senza che io glielo chieda davvero. Lei torna per me.
«Già...»
Questo sembra essere tutto quello che mi dirà. Nient'altro. Come se davvero nient'altro fosse successo. Come se avesse già dimenticato il colpo basso che le ho assestato per tenerla lontana da me in queste settimane e per allo stesso tempo darle una ragione più che valida per tornare ad affrontarmi. È ciò che mi aspetto che faccia da un momento all'altro, contrattaccare anche se in ritardo, con quella sua solita grinta, ma i secondi passano e lei sembra non avere equivoci da chiarire. Forse ha semplicemente deciso di non aprire l'argomento, forse non vuole dirmi come sia andata per paura di essere giudicata, forse non vuole darmi altri pensieri, forse crede che non mi importi. Forse, forse, forse...
«Ho ricevuto un'e-mail, comunque»
O forse vuole che sia io a prendere in mano la situazione.
«Sai, da quel cliente...»
«Ah, sì» fa lei, con un tono che quasi vorrebbe scacciare via l'argomento. «Ti ha detto che ho risolto il caso?»
«Mi ha anche detto che ti ho formata bene, vista la tua professionalità»
Jane ride. «Addirittura?» fa, ironica, e anche così sembra che stia facendo di tutto per non posarsi sull'argomento, ma per volteggiarci intorno, da lontano.
«Sono stati gli studenti, vero?» insisto allora io.
«Già»
«Per la borsa di studio»
«Esatto»
«In biblioteca»
«Adesso sembra che stiamo giocando a Cluedo» sbuffa lei, ridacchiando ancora. «Però sì, era in biblioteca. Sono stati tutti e tre»
«Tutti e tre?»
«Non fare finta di non saperlo, visto che lo hai risolto prima che io arrivassi lì»
Un soffio di vento mi sbatte contro il viso, infilandosi poi dentro al colletto della camicia e giù, giù, nel petto, e anche dietro alla schiena, insinuandomi nel corpo lo stesso gelo che proverei nel sentire lo sguardo glaciale che Jane farebbe saettare se fosse qui, lanciando accuse che io accoglierei senza un lamento.
«Mi dispiace...» dico solo, e mi aspetterei di non sentire altri commenti, che la conversazione cada, pochi saluti e alla prossima.
Non succede, e questo ovviamente mi stupisce.
«Non c'è bisogno» dice invece Jane, con un sospiro. «A dire il vero, è andato tutto piuttosto bene, per essere stato un incontro a sorpresa» Si ferma un attimo, senza risatine, senza sospiri, senza respiri. Solo silenzio. «Però non... Non gli ho detto chi sono. Non me la sono sentita»
Al contrario, questa dichiarazione non mi risulta inaspettata, dal momento che mi avrebbe sicuramente sorpreso scoprire il contrario.
«Anche se, ad essere sincera, credo che l'abbia intuito, sai? Voglio dire... Sa che mi chiamo Jane, che vengo da Nottingham, che mio fratello si chiama Alan, e per tutto il giorno mi sono rifiutata di dire il mio cognome. Non è difficile mettere insieme gli indizi»
Stavolta sono io a prendere un respiro. «Avrei dovuto avvertirti»
«Se lo avessi fatto, non sarei mai andata. Invece così mi hai costretta a fare qualcosa che avrei sempre voluto fare ma per cui non pensavo di avere abbastanza coraggio. Ne avevo bisogno»
Certo che ne aveva bisogno, e sapere che anche lei lo abbia riconosciuto un po' mi solleva. Forse mi toglie dalle spalle la responsabilità delle mie azioni, come sempre.
"Il fine giustifica i mezzi"
«Come sta Aden?»
Ora cambio discorso. Non tanto perché non voglia più affrontare quello precedente, quanto perché credo che sia ormai degnamente concluso. Probabilmente non ne riparleremo mai più, come nostro solito, quando si tratta di cose che ci toccano nel profondo. Il mio finto suicidio, la sua fuga da Londra, la morte di Mary...
«Sta bene» risponde lei. «Credo che stia guardando i cartoni animati» Si ferma un secondo, fulminata da un'idea. «Te lo passo? Possiamo fare una videochiamata, così...»
«È meglio di no, Jane» la blocco. «Non... Non sono proprio in un bello stato...»
Jane si ferma, anche stavolta fulminata da un'idea, un pensiero, un'emozione. «Oh, ma certo...» mormora. «Non... Non ci avevo pensato»
«Verrò a trovarvi appena mi sarò ripreso»
«Certo»
Resta in silenzio qualche attimo, poi fa un sospiro attraverso il quale intuisco un sorriso malinconico. «Gli manchi molto, sai?»
Vorrei davvero che fosse qui, che mi vedesse. Che leggesse sul mio viso le mie emozioni, che capisse che anche a me manca Aden, e che mi manca lei, senza che io sia costretto a dirlo.
«Davvero?»
E infatti mi trattengo e lo nascondo. Come mio solito, anche per sentimenti a quanto pare positivi.
«Oh, sì. Si è fatto un programma per quando verrai a trovarlo»
«Un programma?»
«Sì, è una raccolta di disegni con voi che andate al parco, e poi alle giostre, e sul London Eye... Ovviamente sono tutti disegni di Londra. Già adesso insiste tanto per tornare»
«A Londra?» ridacchio.
«Beh, lì ci sono molte più cose da fare. Ormai a Nottingham si annoia, abbiamo praticamente visto tutto»
«Di questo passo ti costringerà a trasferirti»
Lancio l'idea come si lanciano un paio di dadi, sperando di ricevere indietro il numero esatto per vincere. Mi aspetto che stronchi la mia proposta, che i due numeri non corrispondano alle mie aspettative. Ma non succede. Jane, anzi, sospira. E mi stupisce ancora.
«Ci stavo pensando, sai?»
Resto in silenzio per un po', interdetto. Il cuore mi salta un battito e sprofonda nello stomaco, in un misto di panico ed eccitazione. «Sul serio?»
«Nell'ultimo periodo ho passato più tempo in treno a fare avanti e indietro che a casa mia!»
Non mi aspettavo questa possibilità, dal momento che sono ormai anni che ho rinunciato all'idea che lei possa tornare a vivere a Londra, specialmente dopo il suo rifiuto così inflessibile. Ma adesso qualcosa è cambiato, non so bene cosa. Probabilmente tante cose: la morte di Mary, la chiusura di John, conoscere suo padre...
«Ho notato che a Londra ho una rete sociale bella solida, rispetto a Nottingham»
Dovrei confermare, dirle che è vero, che qui ha degli amici, gente di cui fidarsi, che non è più sola come quando si è sentita costretta ad andare via, tanti anni fa. Adesso è tutto come dovrebbe essere, o quasi, e questa è la scusa razionale, quella che userei anche io pur sapendo di star nascondendo altre motivazioni.
«Però se ne parlerà a Settembre, ovviamente. Serve tempo per pianificare una scelta del genere. Devo cercare una scuola per Aden, e un buon lavoro, e una casa che sia giusto a metà...»
Non posso fare a meno di ridere, nel sentire come scaccia via l'argomento e smorza l'entusiasmo.
Socchiudo le palpebre, scuotendo la testa. «Possiamo lavorarci» replico. «La signora Hudson ha una stanza libera proprio al piano superiore»
Jane lascia scorrere un silenzio confuso. «Sherlock, non posso portare Aden ad abitare a Baker Street»
«Perché no? È ancora piccolo, non ha particolare bisogno di spazio»
«No, però ha bisogno di un ambiente sano per crescere»
«Basta che non entri in cucina quando sto facendo esperimenti e...»
«No, Sherlock, voglio dire... Che sappiamo entrambi come andrebbero le cose. Io e te ci metteremmo a litigare per le questioni più stupide, come facciamo sempre»
Non oso controbattere, perché è vero. Dopotutto, negli ultimi tempi siamo andati tanto d'accordo solo perché la lontananza ha mascherato i nostri difetti quotidiani.
«Hai paura che non saremmo dei buoni genitori?»
Non risponde, ed io me l'aspettavo, questa omissione, anche se alla fine non mi importa, perché so già cosa avrebbe risposto in un momento di sincerità. Mi direbbe che anche lei ha bisogno che io faccia un passo in più nella sua direzione, così come ne ho sicuramente bisogno io. Mi direbbe che forse è il momento giusto per trovare un'etichetta, o magari per crearne una nuova, per il nostro rapporto. Mi direbbe che per questo è pronta ad avvicinarsi un po' di più. Perché lei è come me, pensa quello che penso io quando lo penso io, si connette a me e nemmeno se ne rende conto.
Non mi serve, dunque, che lei mi dica niente, e va bene così. Mi basta il sollievo che provo nel sapere quel che le passa per la testa, conoscere i suoi pensieri non perché prevedibili, ma perché uguali ai miei. Mi solleva sapere che lei tornerà, come mi solleva vederla tornare ogni volta, anche dopo aver visto il peggio di me, il mio abisso più profondo. Mi solleva sapere che non si sia ancora convinta ad andarsene per sempre.
«D'accordo» s'arrende infine. «Ma sarà una soluzione temporanea, okay?»
Perché Jane torna sempre, anche quando non sono io a chiederglielo, e lo fa anche quando è consapevole dei rischi: per questo pone sempre delle condizioni che io accetto, pur di non farla andare via.
«Certo»
"Non commettere il mio stesso errore, Sherlock. Amala, finché sei in tempo."
«Mentre troviamo un altro posto»
"Non lasciarla andare via."
«Ovviamente»
Ed io non voglio più farla andare via.
"We're far from the shallow
now."
-Lady Gaga and Bradley Cooper, "Shallow"
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