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{67° Capitolo}

"And I told you when you left me:

-There's nothing to forgive.

But I always thought you'd come back,

tell me all you found was

heartbreak and misery.

It's hard for me to say

I'm jealous of the way

you're happy without me."

-Labrinth, "Jealous"

[Capitolo sessantacinquesimo]

Jane

L'operazione "Salvate il Soldato Watson" è finalmente cominciata e, come aveva minacciato di fare, Sherlock mi ha totalmente tagliata fuori dalla missione, tenendo quindi fede alla parola data. L'unica cosa che mi concede è una serie di messaggi contenenti brevi aggiornamenti, poche parole degne di un telegramma di altri tempi ai quali mi ha categoricamente vietato di rispondere, e con cui forse spera di riuscire a tenermi fuori dai guai.

Io, seppur a malincuore, ho accettato queste sue condizioni. Anzitutto perché riconosco la necessità che Sherlock sente di portare a termine questo compito per conto suo, come se il solo modo per convincere John della propria voglia di fare ammenda sia dimostrandogli che nessuno lo ha costretto a fare niente. E così facendo, allontanandomi in maniera così perentoria da questa intera faccenda, immagino che Sherlock stia cercando di convincere anche sé stesso della medesima cosa.

Adesso lui è solo in tutta questa storia, e sono due mesi che io invece lotto contro l'istinto di rifarmi viva per aiutarlo, come una mamma che non si fida ancora dell'autonomia del proprio figlio. Ma se non lo faccio, se reprimo tutto in una parte molto remota di me stessa è perché in fondo so che Sherlock ha ragione. Ha ragione nel dire che sarebbe troppo pericoloso, che l'intero piano si basa su un equilibrio molto instabile di azioni e probabili conseguenze. Ha ragione nel dire che potrebbe andarne della mia vita, del futuro di Aden, che è una situazione assai più grande di me, e di lui, e di John. Assai più grande di tutti. Ha ragione nel dire che lo sta facendo perché John viene convinto solo se presentato davanti al limite delle cose, alla loro forma più estrema. Ha ragione, ed io per questo me ne resto in disparte e aspetto i suoi messaggi, limitandomi esclusivamente ad essi come unico filo sottile che ci unisce.

Questo non è il mio caso.

Poi, un giorno, tra i tanti SMS che mi arrivano a cadenza irregolare, me ne ritrovo uno che potrebbe apparire bizzarro rispetto a tutti gli altri, ma che sicuramente era l'unica carta a disposizione del detective per essere sicuro di tenermi lontana da Londra.

"Questo potrebbe servirti per distrarti un po'. Avrai tempo per arrabbiarti dopo. S"

"P.S. Stringi il cerchio, non allargarlo."

Un caso apparentemente semplicissimo, persino per me, ma senza un nome né particolari dettagli, a parte qualche informazione generica sul tipo di crimine e un indirizzo di Liverpool. Avrei potuto rifiutare, tanto non farebbe alcuna differenza, rimarrei comunque confinata a Nottingham senza il coraggio di fare nient'altro. Ma sarà la vicinanza a casa, sarà la necessità di una distrazione, sarà che conosco Sherlock e non mi avrebbe mai affidato una missione senza un motivo più profondo. E alla fine ho deciso di partire.

Questo, invece, è il mio caso.

Quando finalmente parcheggio davanti al numero civico indicato nel messaggio, spengo la macchina ma aspetto un secondo prima di scendere. Guardo la villetta attraverso il finestrino, la staccionata in ferro battuto, le finestre ampie e ordinate su entrambi i piani, i mattoni rossi della facciata. Una casa da gente benestante, che non se la passa male. La osservo a lungo, prima di decidermi a slacciarmi la cintura, prendere lo zaino dal sedile del passeggero e scendere per avviarmi lentamente verso il cancello aperto. Più mi avvicino alla porta di ingresso, percorrendo con passo deciso il vialetto di ciottoli che scricchiolano sotto ai miei piedi, e più sento montare in me una strana sensazione che non riesco bene a identificare. Una specie di ansia mista a curiosità mista a sua volta a voglia di scappare che mi attraversa lo stomaco e si ferma al centro del petto, proprio sullo sterno. Non la identifico subito, a dir la verità, e anzi continuo imperterrita lungo una serie di azioni meccaniche come se stessi seguendo un copione portato in scena mille e mille volte.

Mi fermo davanti alla porta, suono il campanello e mi rialzo, pronta a presentarmi a quello che a tutti gli effetti posso considerare un cliente. Subito però mi balena alla mente un particolare, e cioè che nel suo messaggio, per qualche motivo, Sherlock non ha fatto alcun cenno al nome della persona che tra pochi attimi mi ritroverò davanti. Mi ripiego allora di nuovo sul campanello, questa volta per prestare migliore attenzione alla targhetta dei cognomi. Li leggo, penso di non aver capito. Li rileggo, mi accorgo di aver capito bene.

Una scarica di sudore freddo mi scivola lungo tutta la schiena, mentre il cuore prende a battere fortissimo fino a farmi detonare in mezzo ai polmoni l'ansia di prima, mozzandomi il respiro. Mi rialzo, e la voglia di scappare adesso si fa più forte. Mi dice nuovamente di girarmi, correre verso la macchina, mettere in moto e andare via senza voltarmi, facendo finta che non sia successo nulla, ignorare tutto prima che tutto si faccia troppo reale per il quantitativo di vita vera che sono in grado di sopportare. Forza, corri, adesso!

Ci penso troppo. Penso al fatto che potrei sbagliarmi, che magari la persona che mi ritroverò qui davanti ha solo lo stesso nome, lo stesso cognome, vive nella stessa città, ma non è chi temo che sia. Penso al fatto che potrei sbagliarmi, e che potrei andarmene inutilmente. Che figura ci farei? No, non può essere che una coincidenza, non è possibile che Sherlock mi abbia teso questa trappola. Proprio a me.

Ci penso davvero troppo. Perdo uno, due, tre secondi, e solo al loro termine, quando la porta si apre e il cliente si rivela, mi rendo finalmente conto di non averne più a mia disposizione.

«Salve!» saluta dopo qualche secondo l'uomo davanti a me, rivolgendomi un sorriso cordiale.

In quel brevissimo lasso di tempo, tra l'ultimo suono emesso dalle sue labbra e la curvatura che fa loro prendere, lo osservo, e tutti i miei dubbi si sciolgono, lasciandomi in bocca l'amara consapevolezza che no, questa non è affatto una coincidenza. Che Sherlock ha omesso il nome di questo cliente non perché troppo preso ad assegnarmi un caso qualsiasi, né per non perdere tempo in inutili convenevoli, ma per evitare che io mi rifiutassi di seguire le sue indicazioni.

«Lei deve essere Gareth»

L'uomo ha un viso magro e spigoloso, i capelli castani appena visibili dal taglio rasato, il corpo esile. È alto quasi quanto mio fratello. Anzi, è identico a mio fratello. È identico anche all'unico ricordo che ho di quest'uomo. E solo ora, nel ritrovarmelo davanti, capisco che non la paura ma la stessa curiosità di prima mi ha costretta a rimanere qui, inchiodata davanti a questa porta. La stessa curiosità che Sherlock è riuscito a sfruttare a suo vantaggio prima ancora che io potessi provarla. Mi ha mandata qui sapendo benissimo di starmi gettando nella tana delle mie peggiori paure e, per fare in modo che io non potessi più tirarmi indietro, si è ben guardato dall'indicarmi l'informazione più importante di tutte.

«Aldernis»

L'uomo annuisce, senza smettere di sorridere. «Sono io» ammette. «E lei è...?»

«Jane» mi affretto a concludere. «Mi manda il signor Holmes»

L'uomo sembra risvegliarsi tutto d'un tratto, sorpreso, e il sorriso tanto cordiale scompare dal suo viso. «Oh» dice soltanto, raddrizzando la schiena. «Oh, ma certo. Prego, si accomodi»

Non ho la prontezza di ringraziare e, ancora frastornata, accetto il suo invito. Entro nell'ingresso buio, lungo e stretto, in fondo al quale riesco ad intravedere una finestra che dà su un giardino e attraverso la quale entra una luce piena e quasi accecante.

L'uomo mi supera, facendomi strada dentro casa sua. «Devo ammettere che non aspettavo la sua visita. Il signor Holmes non mi ha avvertito del suo arrivo» confessa. «Posso offrirle qualcosa da bere?»

Gli chiedo un bicchiere d'acqua, che lui corre a prendermi in cucina, lasciandomi sola nel salotto. Mi rendo conto che ora è troppo tardi per tornare indietro fingendo una scusa. Ormai sono qui, dentro questa casa, a guardarmi attorno con aria smarrita, in cerca di qualcosa e nemmeno io so cosa. L'ansia è rimasta lì, mentre la voglia di scappare sembra essersene andata, o sembra andarsene mentre, attenta, osservo le foto appese alle pareti, i quadri, cerco di dare un senso a quello che vedo, un volto, una vita alla persona nell'altra stanza e che, mio malgrado, mi è meno sconosciuta di quanto lui creda. Anche la curiosità mi è rimasta nel petto. Non so se sia un bene o no.

«Mi dispiace di esserle piombata così in casa, signor Aldernis» dico alla fine, notando le scartoffie ammucchiate sul tavolo, indizio di un lavoro interrotto dal mio arrivo.

«Oh, non si preoccupi! Meglio adesso che mai» risponde lui dalla cucina, dalla quale riemerge poco dopo con un vassoio e una brocca d'acqua con ghiaccio e limone. «Nella sua e-mail, il signor Holmes aveva accennato al fatto non se ne sarebbe occupato lui personalmente, ma non pensavo che avrebbe mandato qualcuno oggi»

«Deve essersene dimenticato» rispondo, cercando di sembrare sorpresa. «Ultimamente è molto impegnato»

'Sarà impegnato anche a scappare dai miei pugni, quel cretino'

«Capisco» annuisce lui, versando da bere in un lungo bicchiere che poi allunga verso di me. «Per questo ha mandato lei?»

Gli lancio un lungo sguardo, ritirando la mano quasi a volerla salvare dalla sua. «La cosa la delude?»

«No, però mi stupisce» ribatte lui, e poi sospira. «Ma sono anche contento che lei sia venuta. Temevo che il mio caso fosse troppo semplice per il signor Holmes e non saprei a chi altri rivolgermi, a parte lui»

«La sua e-mail parlava di un furto»

L'uomo sospira di nuovo, abbassa il capo e lo scuote lentamente. «Sì, esatto» mormora, prima di sedersi sul divano dietro di lui. «In realtà non si tratta di una faccenda particolarmente complicata, per questo dicevo di essere felice di averla qui. A prima vista sembrerebbe addirittura troppo semplice» Prende un sorso dal suo bicchiere e poi si prende anche un secondo per riflettere. «È informata bene: qualcuno ha cercato di rubare dei documenti che avrebbero dovuto essere riservati»

Poggio il bicchiere sul vassoio. «Documenti riservati...» ripeto, mentre dallo zaino tiro fuori un taccuino ed una penna. «Del tipo?»

«Io faccio l'avvocato»

Lo spiega con una normalissima semplicità, e difatti questa informazione non dovrebbe affatto stupirmi. È un lavoro come un altro, in fin dei conti. Eppure mi prende lo stesso un po' alla sprovvista. Mi schiaffa in faccia la realtà delle cose, come a dimostrarmi che guardare quest'uomo davanti a me è lo stesso che guardare il riflesso di me stessa.

«Generalmente mi occupo di cause civili. Divorzi, eredità... Quel genere di cose. Però tengo anche un corso all'Università di Liverpool, nella facoltà di legge» Prende un altro sorso, stavolta più lungo. «Beh, in sintesi... Tre giorni dopo Natale, mi ero recato nel mio studio all'università per lavorare, quando ad un tratto il sistema di sicurezza del mio portatile ha rilevato che qualcuno stava cercando di hackerarlo, probabilmente per rubare i dati di accesso. Per fortuna sono riuscito a bloccare per tempo il tentativo, ma temo che potrebbe succedere di nuovo»

Abbasso il taccuino, per guardare l'uomo negli occhi. «E cosa glielo fa pensare?»

«Beh, perché in quel portatile sono presenti numerosi file che potremmo considerare come "sensibili". Copie delle prove d'esame, documenti relativi ai casi che seguo... Insomma, c'è buona parte della mia vita lì dentro»

«Ha qualche idea su chi potrebbe essere stato?»

Scuote la testa. «No, nessuna»

«Nemmeno qualcuno con cui non va particolarmente d'accordo?»

«Io sono sempre andato d'accordo con tutti, dentro e fuori dal mio lavoro»

«Ne è sicuro?»

'Jane, ma che diamine dici? Se è sicuro, è sicuro, no?'

Lui sorride, quasi sbuffando. Alza i suoi occhi chiari su di me, continuando a sorridere amaramente. «Beh, non posso negare di non averci pensato a lungo, ma purtroppo non saprei proprio chi potrebbe farmi una cosa del genere»

In fretta, abbasso lo sguardo, fingendo in parte di appuntare qualche parola sul taccuino. «Che lei ricordi, era collegato alla rete wi-fi dell'università?»

«Beh, purtroppo sì. Gli uffici non hanno ancora una rete privata»

«E il campus è aperto a tutti, durante la pausa invernale?»

«Solitamente sono aperte solo le aule studio e la biblioteca centrale, per gli studenti, mentre i professori hanno anche accesso ai propri uffici»

«Non capisco una cosa, però...» mormoro, alzando gli occhi dal taccuino. «Perché contattare Sherlock Holmes? Non sarebbe stato più facile chiedere aiuto alla polizia?»

«Volevo farlo, ma poi ho cambiato idea» risponde lui. «Inizialmente mi ero rivolto al responsabile del sistema informatico dell'università, ma nemmeno lui è stato in grado di capire cosa fosse successo. E se non ci è riuscito lui, figuriamoci la polizia!» Scuote di nuovo la testa, con un sorrisetto ironico. «No, vorrei che questa faccenda venga risolta al più presto, e con il massimo del riserbo. La prossima settimana inizierà la sessione d'esami, e vorrei evitare che gli studenti si lascino influenzare dalla notizia di un hacker che agisce indisturbato all'interno dell'università»

«Capisco...» faccio, finendo di scribacchiare qualche ultima nota. «Signor Aldernis...»

«Gareth» mi corregge lui.

Alzo gli occhi e incontro i suoi. Mi fissano a lungo, quasi studiandomi. Temo che, nel fissarmi così, possa capire chi sono. Per questo li distolgo di nuovo, per mettere via penna e taccuino, e nel farlo prendo un breve respiro, ma non ripeto il suo nome.

«È possibile fare un salto alla biblioteca dell'università? Ci sono degli elementi che vorrei valutare di persona»

Anche l'uomo si riscuote. «Oh, certo, nessun problema» dice, tastandosi un attimo le tasche per poi scuotere la testa. «Però temo che la macchina ce l'abbia mia moglie...»

Ho un tuffo al cuore, che cerco di ignorare prendendo un bel respiro.

«Oh» dico soltanto, e già da questa breve interiezione temo che si percepisca il mio disagio. «Beh, potremmo andare con la mia. È parcheggiata qui fuori»

Lui sorride. «Se per lei non è un fastidio...»

Scuoto il capo, con forse un po' troppa veemenza. «L'aspetto fuori»

Con questa scusa banalissima, e probabilmente anche poco convincente, esco di corsa dalla casa il più velocemente possibile, e appena sono nel cortile respiro a pieni polmoni tutta l'aria che mi è mancata mentre ero dentro. Mentre l'ossigeno cerca di farsi strada in mezzo all'ansia che mi opprime il petto, finalmente sento la mente iniziare a ragionare, realizzare quel che sta succedendo. Chiudo gli occhi, inspiro ed espiro, mi concentro sul battito del mio cuore che ancora va veloce e forte. Cerco di farlo smettere per tornare calma, ma subito mi rendo conto che non sarà affatto facile. Eppure io sono calma. Il tono della mia voce, il mio modo di rivolgermi a quell'uomo... Non mi sembravano tradire agitazione. O forse sì ed io non me ne rendo conto? Perché, nonostante il battito del mio cuore, questo senso di oppressione che mi grava sulle costole, non mi sento fuori controllo come invece ritengo che dovrei?

Prendo il telefono dalla tasca sblocco lo schermo. Indugio un secondo, ma poi mi decido a chiamare Sherlock, in barba a tutte le sue raccomandazioni e i suoi divieti. Deve spiegarmi il motivo di questo tiro mancino. La chiamata, però, cade ancor prima che parta il primo squillo. Abbasso il telefono per guardare lo schermo e riprovo di nuovo: stesso risultato.

«Mi ha bloccata...» realizzo ad alta voce. «Quel maledetto mi ha bloccata!»

Avrei dovuto aspettarmelo da uno come Sherlock Holmes. Deve aver previsto che avrei cercato di mettermi in contatto con lui per fargli una sfuriata e allora ha agito per prevenirlo.

Forse adesso sarebbe il momento buono per andarmene via. Magari inventare una scusa, dicendo che Sherlock mi ha chiamata per un caso più urgente, che tornerò presto per poi non farmi vedere mai più. L'idea mi attraversa la mente, ma se ne va subito dopo. No, perché dovrei farlo? Perché continuare a scappare da questo incontro che prima o poi si sarebbe fatto inevitabile? Sherlock di sicuro lo sapeva. Sapeva che, mettendomi in questa situazione, mi avrebbe costretta finalmente ad affrontare quasi trent'anni di domande e dolore. E, come al solito, ha deciso per me senza nemmeno consultare la mia opinione.

«Quello stronzo...»

«Tutto bene?»

Mi volto, ritrovando Aldernis che mi osserva con espressione confusa.

'Dio, adesso dovrò iniziare a chiamarlo così...'

«Sì» rispondo, rimettendomi il telefono in tasca. «Niente di importante»

Dallo sguardo che mi lancia, intuisco che non sembra totalmente convinto. Probabilmente vorrebbe dirmi che invece sembrava proprio qualcosa di importante, ma anche volesse non ne ha il tempo, perché mi affretto ad uscire dal cancello e a salire in macchina. Lui mi imita subito dopo, senza aggiungere altro. Una volta dentro, gli ordino di impostare l'indirizzo della biblioteca centrale sul navigatore e metto in moto, dirigendomi verso la strada principale, qualche casa più a sud. Nessuno dei due si azzarda a dire una parola durante i primi minuti di tragitto, il che dà modo ai miei pensieri di rumoreggiarmi in testa.

Quel maledetto... Come gli è venuto in mente di tirarmi un colpo così basso, pur essendo ben consapevole della mia opinione a riguardo? Cosa credeva, che così facendo avrei finalmente trovato il coraggio di conoscere mio padre, dopo così tanti anni in cui mi sono rifiutata di farlo? Per questo mi ha mandata qui? Per far muovere anche a me un passo di coraggio, come adesso sta facendo lui?

«Quindi... Ha già qualche idea?»

La voce di Aldernis infrange il silenzio che si era dilatato all'interno della macchina, e che si rompe all'improvviso come una bolla di sapone, interrompendo il flusso dei miei pensieri.

«Prego?»

«Su chi potrebbe essere stato»

«Oh, ehm...» mormoro. «Non proprio. Però so da dove iniziare a cercare»

«Dalla biblioteca?»

«Esattamente. Chiunque abbia cercato di hackerare il suo portatile, doveva di certo avere accesso alla rete wi-fi dell'università. Le reti pubbliche espongono spesso a rischi come questo»

L'uomo annuisce piano e, con la coda dell'occhio, mi sembra di vedere il suo volto illuminarsi un po'. «Beh, è già un inizio» sospira, prima di girarsi verso di me, sorridendo.

Io non faccio altrettanto, preferendo rimanere con gli occhi puntati verso la strada. Solo adesso mi rendo conto che ogni mia azione, ogni mia risposta, ogni mio gesto da quando io e quest'uomo ci sono incontrati, appena qualche decina di minuti fa, non è altro che un modo involontario per cercare di corroborare l'opinione che per anni mi sono fatta di lui, di confermare i miei pregiudizi. Per questo rimango fredda e distaccata, come tentando di restare a miglia di distanza da lui per evitare che davvero capisca chi sono. No, non gli rivelerò la mia vera identità, non farò come Sherlock si aspettava. Per quale motivo dovrei sconvolgergli la vita in modo così inaspettato? Solo perché lui ha sconvolto la mia andandosene e per questo dovrei vendicarmi, come ho sempre malvagiamente sperato fare? Dovrei renderlo consapevole della mia esistenza, del fatto che sono andata avanti e continuo ad andare avanti anche senza di lui?

No. Meglio che lui non sappia chi sono veramente. Forse è per questo un po' temo per il mio atteggiamento disinteressato e un po' altezzoso, per questo vorrei non averlo. Perché non sarebbe giustificato, perché potrebbe far sorgere delle domande. Chi sono, per quale motivo ce l'ho tanto con lui?

'Beh, anche Sherlock si comporta così, d'altronde. Potrei benissimo spacciarmi per una sua allieva modello, e nessuno si farebbe tanti problemi, immagino'

«Si vede proprio che lavora per Sherlock Holmes» aggiunge difatti Aldernis dopo qualche secondo, e questo mi fa quasi tirare un sospiro di sollievo.

«Non l'avrei mai detto, sa? Sembra un tipo così poco propenso ad intraprendere delle collaborazioni...»

«Possiamo dire che si fida di me»

«E allora mi affido anche io a lei, Jane» mi sorride di nuovo lui.

Poi restiamo in silenzio, in sottofondo solo la voce del navigatore.

Quando arriviamo davanti all'edificio in mattoni rossi che ospita la Faculty of Law dell'Università di Liverpool, Aldernis mi indica un ingresso bloccato da un'asta orizzontale. Abbasso il finestrino, così da ritrovarmi faccia a faccia con il custode di mezza età che mi fissa inquisitorio dalla finestrella del suo gabbiotto. Faccio per parlare ma Aldernis mi batte sul tempo, piegandosi verso il mio sedile cosicché il custode possa subito riconoscerlo.

«Ehi, Daniel!»

L'uomo, a questo punto, ricambia il sorriso. «Ah, è lei, professor Aldernis!»

«Purtroppo ho dimenticato il pass nell'altra macchina. È un problema?»

«No, assolutamente» risponde l'altro. Cerca tra le carte della scrivania dietro cui è seduto e, dopo qualche attimo, mi allunga un pass temporaneo. «Lo tenga ben visibile sul cruscotto» mi dice, e poi alza la sbarra orizzontale lasciandoci via libera.

«Grazie, Daniel!» saluta Aldernis, con un cenno della mano.

Entriamo nel parcheggio della facoltà, dove l'uomo mi indica il posteggio solitamente riservato a lui. Poi si slaccia la cintura e scende dall'auto. Io lo imito, ma ancora non esco. Riprendo invece in mano il cellulare e provo a chiamare di nuovo Sherlock. Fiduciosa, aspetto che il telefono squilli ma, proprio come poco fa, la linea cade ancor prima di agganciare. Sospiro, rassegnata, e mi decido infine a scendere dalla macchina.

Aldernis mi guarda, forse vorrebbe chiedermi di nuovo se vada tutto bene, ma non lo fa. Si limita soltanto a farmi strada lungo le vie del campus, senza dirmi niente.

L'edificio della Sydney Jones Library annuncia la sua magnifica grandezza già dal giardino della facoltà. Non solo raccoglie le principali fonti per gli studi di legge, ma anche, tra le altre, di architettura, storia, geografia e psicologia. Aldernis sale veloce i gradini che conducono all'ingresso della biblioteca, apre la porta d'entrata e si dirige verso il banco di accettazione che costeggia dei tornelli che limitano l'accesso alle sale interne della biblioteca, e dal quale si sporge sorridendo.

«Mike?»

Un uomo risponde subito. «Ah, professor Aldernis!» esclama, alzandosi in piedi.

A discapito della voce acuta, il responsabile della biblioteca è un giovane sulla quarantina scarsa, con capelli scuri e lisci e occhi castani nascosti dietro un paio di occhiali dalla montatura spessa di plastica nera. Indossa un completo blu piuttosto formale che accentua la sua figura longilinea e slanciata.

«Possiamo rubarti qualche minuto?» chiede allora Aldernis.

«Oh, certo» accetta subito l'impiegato. «È successo qualcosa di grave?»

«Temo di sì, Mike» annuisce l'altro. «Ho subito un tentativo di hackeraggio sul mio pc personale mentre ero nel mio ufficio qui, qualche giorno fa»

«Oh, Dio!» esclama Mike, uscendo quindi da dietro il bancone e passando un badge su uno dei lettori ottici dei tornelli. «Ma come... Chi può essere stato?»

«Non lo so ancora» risponde l'altro, attraversando il passaggio. «Jane è qui proprio per questo»

Solo adesso Mike mi rivolge una lunga occhiata, come se si fosse finalmente accorto della mia presenza. «Oh, salve» mi saluta, tendendomi la mano. «Mike Williams, molto piacere»

«Jane» replico io, stringendogliela.

Lui ridacchia. «Solo Jane?»

«Sì» rispondo. E mai come ora intendo ciò che sto per dire. «Solo Jane» Mi fermo un secondo, prima di abbozzare un mezzo sorriso. «Preferisco così»

'Ho sentito ripetere il mio cognome fin troppe volte, oggi'

«La manda Sherlock Holmes in persona» aggiunge il professore, quasi con un moto d'orgoglio.

«Sherlock Holmes?» ripete Mike, rivolgendo ad Aldernis un'occhiata stupita.

«Sono stato costretto» sospira l'altro. «Ho provato a sbrigare la faccenda da solo, ma senza successo. Ho anche chiesto consiglio a Hari, ma tutto quello che è stato in grado di dirmi è che stavo per scaricare un virus trojan, o qualcosa del genere»

«Hari?» mi azzardo allora a chiedere io.

«Hari Jha, il responsabile della sicurezza informatica» risponde Mike.

«Oh» faccio allora, e subito inizio a seguire un pensiero, un'idea, che mi spinge a porre un'altra domanda. «Lavora qui da molto?»

«Beh, direi da almeno cinque, o sei anni. È davvero un genio del computer, riesce spesso a risolvere problemi che nemmeno sappiamo di avere»

«Quindi è una persona fidata» aggiungo.

«Oh, sì, fidatissima. Questa è la prima volta che sento di qualcuno che sia riuscito a superare tutti i suoi sistemi di sicurezza» Scuote la testa, con fare pensieroso. «Ed io invece? Come posso esservi utile?»

«Ehm...» fa Aldernis, lanciandomi uno sguardo incerto.

«Avrei qualche domanda da farle» rispondo subito io, tirandomi giù dalla spalla lo zaino per cavarvi fuori penna e taccuino. «Anzitutto, vorrei sapere come funziona il sistema di accesso qui» continuo, accennando col capo verso i tornelli alle mie spalle. «Gli studenti hanno una tessera per entrare?»

«Sì, esattamente» spiega Mike. «Gli studenti, così come i professori e tutto il personale dell'università, hanno a disposizione un badge nominativo con il quale possono accedere a diversi locali dell'università, tra cui la Sydney Jones Library. Basta passare la tessera sul lettore ottico»

«E all'uscita?»

«Le porte si aprono in automatico»

Appunto qualche parola chiave su una pagina bianca. «Quindi il sistema registra il nome delle persone che entrano in biblioteca?»

«Lo facciamo per motivi di sicurezza, ma non sono dati che visualizziamo spesso» Mike sorride. «Questioni di privacy»

«Capisco» ricambio il sorriso. «Purtroppo dovrò chiederle di farlo, almeno per oggi, per sapere chi abbia acceduto in biblioteca il 28 Dicembre»

«Oh, uhm...» fa quindi il responsabile, un po' titubante. «Ecco... Temo che sarà un lavoro facile. L'edificio è frequentato da un altissimo numero di visitatori ogni giorno. Scandagliare i registri potrebbe richiedere ore»

«Beh, non credo che sia il caso di tre giorni dopo Natale, giusto?» replico io. «Immagino che il numero di persone che viene in biblioteca in questi giorni debba essere assai ridotto»

Mike non sembra convinto. Inizia a passare lo sguardo da me ad Aldernis, quasi a cercare in lui un aiuto, una conferma. «Professore, parliamo di informazioni riservate» gli dice, quasi mormorando. «Lei capisce...»

L'altro annuisce, sorridendo. È incredibile quanto sorridente sappia essere quest'uomo. Quanto cordiale e persuasivo, senza però sembrare malizioso. Quanta fiducia sappia infondere, con quei sorrisi.

«Certo, Mike, lo capisco perfettamente» gli risponde. «Ma se ho chiesto al signor Holmes di risolvere questo mistero è stato proprio per evitare che tali informazioni potessero diventare di dominio di altri. Della polizia dei giornali... Mi fido della sua discrezione, so che ha risolto casi ben più delicati. Mi prenderò io la responsabilità di quel che accadrà, te lo prometto. Ti fidi di me?»

Mike ci guarda di nuovo, ancora incerto se darci retta o meno. Ma sarà il mio sguardo irremovibile, o il sorriso convincente di Aldernis, che alla fine sospira. «Va bene» cede, tornando dietro al bancone. «Ma fate in fretta»

Sia io che il professore lo seguiamo velocemente fino al suo computer ancora acceso. Mike si siede alla scrivania e inizia a muovere il mouse lungo lo schermo, al ritmo di numerosi e frenetici click.

«Vediamo...» mormora. «Il 28 Dicembre sono entrate ben 395 persone in biblioteca» Si gira verso di me, con sguardo di sfida. «Non poche»

«È un buon inizio» lo tranquillizzo io. «Ho bisogno di accedere alle loro informazioni anagrafiche e accademiche e da lì impostare alcuni filtri»

Mike aggrotta la fronte. «Cioè?»

«Chi di coloro che hanno fatto l'accesso ha anche frequentato il corso del professor Aldernis?»

«Uhm...» fa lui, tornando a cliccare col mouse lungo lo schermo. «Il sistema mi dice settantanove»

«E di questi quanti non sono cittadini britannici?»

Altri due click.

«Quindici»

«Chi di loro ha il minor numero di crediti universitari?»

Il mouse scivola lungo il tappetino posto sulla scrivania. Due ultimi click precedono il silenzio che avvolge lo stretto spazio dietro al bancone.

«Tre» risponde infine Mike, prima di girarsi verso di me.

Non noto subito il suo sguardo stupito, intenta come sono ad appuntarmi i tre nomi sulla pagina del taccuino:

Abigail Gilchrist, Daulat Ras e Miles McLaren.

«Li riconosce?» chiedo poi ad Aldernis.

Lui non risponde subito. Rimane per un secondo intontito a guardarmi, prima di riscuotersi e annuire con fare un po' distratto. «Oh, ehm... Sì»

«Ne è sicuro?» insisto io, notando la sua distrazione.

Annuisce di nuovo, con più foga. «Confermo, tutti e tre sono stati miei studenti» Poi aggrotta le sopracciglia, e torna con quello sguardo intontito ed esterrefatto. «Ma lei come ha fatto...»

«Per ora non è importante» lo interrompo io. «Adesso è opportuno piuttosto contattare i tre ragazzi» Guardo Aldernis, senza che lui guardi me. «Può chiedere loro un colloquio?»

Gareth alza lo sguardo ed incontra il mio. Per la prima volta ci fissiamo dritto negli occhi più a lungo di un secondo solo. Annuisce, e non ha bisogno di aggiungere altro.

···

Liverpool è uno dei centri abitati più grandi dell'Inghilterra, e nonostante ciò mi pare piccolissimo se paragonata a Londra, come il resto delle città inglesi in cui mi è capitato di recarmi dopo aver vissuto nella capitale. Il fatto che ci sia un grande centro universitario rende comunque Liverpool un luogo estremamente vivo, come si può ben intuire dalla presenza di numerosi locali e tavole calde dove anche gli studenti più squattrinati possono permettersi un buon pasto ad un prezzo modico.

In uno di questi io e Aldernis ci troviamo attualmente, seduti ad un tavolo accanto alla finestra e davanti ad una tazza di caffè mentre aspettiamo l'orario del colloquio con i tre studenti. Aldernis, seduto davanti a me, sorseggia il suo americano mentre addenta voracemente un pezzo di toast al prosciutto e formaggio. Alza lo sguardo verso di me e con il capo accenna al bancone, dietro al quale un barista si affanna a servire numerosi clienti.

«Sicura di non volere niente?» mi chiede.

Scuoto la testa. «No, sto bene così. La ringrazio»

Credo che questo sia il mio tentativo meglio riuscito per cercare di ricalcare il tipico atteggiamento di Sherlock. Mi faccio vedere fredda, distaccata, incurante del cibo e del resto del mondo che mi circonda, con la testa indaffarata solo per il caso e per inseguire pensieri cercando di essere veloce quanto loro. È la prima volta che mi ritrovo dall'altra parte della maschera, ma questa volta non è per scimmiottare il suo modo di essere, quanto piuttosto per nascondere il mio di fronte a quest'uomo. Per questo cerco di rendermi illeggibile, come è illeggibile Sherlock. O magari sono solo entrata molto bene nella parte.

Subito dopo essere entrati in possesso dei nominativi dei tre principali sospettati, io e Aldernis ci siamo recati nel suo ufficio per inviare loro un'e-mail e richiedere un colloquio urgente.

Abigail Gilchrist, americana, è a detta di Aldernis una studentessa estremamente diligente. "Non ha mai saltato un'esercitazione, il che non è scontato, dal momento che ha una borsa di studio sportiva che la costringe ad allenarsi spesso durante la settimana". È stata la prima dei tre a rispondere, e dal tono della sua e-mail sembrava preoccupatissima per questo colloquio.

Daulat Ras viene dall'India, e anche lui è un ottimo studente, "forse un po' silenzioso ma parecchio sveglio". Ha risposto con una e-mail chiara e senza troppi giri di parole, confermando la sua presenza al colloquio.

In ultimo, Miles McLaren, neozelandese, "ragazzo tanto brillante quanto inconsapevole delle proprie potenzialità". Non ha mai preso parte ad una sola esercitazione, né si è nemmeno degnato di rispondere all'e-mail per confermare la propria presenza al colloquio, probabilmente perché lo riteneva inutile.

Mentre leggevamo le e-mail di risposta e discutevamo su da chi dei tre si sarebbe aspettato un'azione di questo genere, Aldernis ha sospirato, socchiudendo gli occhi con fare rattristato. Ha scosso piano la testa, arricciando la bocca in una smorfia afflitta. «Non lo so...» ha detto. «Non credo di essere stato un cattivo professore, ho sempre cercato di fornire i miei studenti di tutti gli strumenti necessari per passare questo esame al meglio delle loro potenzialità. Non riesco proprio a capacitarmi che un tale gesto possa essere arrivato da loro»

Un leggero brivido mi ha attraversato veloce la schiena, quasi accarezzandola ma con fare deciso. Ho osservato il suo profilo mentre guardava il vuoto davanti a sé e si chiedeva con aria sinceramente dispiaciuta in cosa avesse sbagliato, dove avesse peccato di troppa fiducia, se di peccato si può parlare. Mi è sembrato così vulnerabile di fronte alla sua totale ingenuità, quasi fosse incapace di pensare male di un gruppo di giovani disperati. E il modo genuino con cui ha esposto ed espone sé stesso e le sue preoccupazioni mi fa provare quel brivido, che non è paura né ribrezzo, ma compassione ed empatia, nei confronti dell'uomo che mi ha lasciata crescere da sola.

«Dunque... È sposata?»

Alzo veloce gli occhi verso Aldernis, che mi osserva con il suo solito sorriso. La domanda mi lascia un attimo interdetta. Anzitutto, per ciò che mi ha chiesto, e poi perché non mi aspettavo che mi facesse domande, in generale. Non credevo che qualcuno potesse aver voglia di mettersi a fare conversazione, specialmente in un momento pesante come questo. Forse è davvero molto più gentile di quanto vorrei credere.

«No» rispondo infine, con fare asciutto. «Perché me lo chiede?»

«Ho notato il seggiolino, sui sedili posteriori della sua auto»

«Oh» faccio allora, sorpresa da questo suo spirito di osservazione. «Sì, ehm... È di mio figlio. Però non sono sposata, no» rispondo, decidendo di optare per la sincerità, almeno in questo caso. «Io e suo padre nemmeno conviviamo»

«Capisco» annuisce. «Quanti anni ha?»

«Ne compirà quattro il 20 gennaio»

«Ah, ma allora è già un giovanotto!» sorride lui. «Come si chiama?»

Di nuovo, aspetto un po' prima di rispondere. A forza di introdurre tutte queste pause tra le sue domande e le mie risposte, non mi stupirei se dovesse chiedersi se abbia qualcosa da nascondere.

«Aden Sherwood»

Il suo sorriso svanisce, ma solo per un secondo. Poi torna subito sul suo volto, ma io lo noto che stavolta è forzato. «Come la foresta?»

«Esatto» annuisco. «Come la foresta»

«Le piaceva Robin Hood da piccola?»

«Sì, ma non è l'unico motivo per cui ho scelto questo nome»

Cerco in qualche modo di sviare l'argomento, lasciando affogare i miei occhi nella tazza di caffè ormai tiepido. Il ricordo, bellissimo nel suo essere doloroso, di quando per la prima volta ho ascoltato il cuore di Aden, nel cuore della foresta della mia città, mi provoca ancora uno strano senso di nostalgia e tristezza, che adesso si amplifica perché mi ritrovo davanti alla persona che credevo di aver perdonato, grazie all'arrivo di mio figlio. Mi fa male pensarci, così male, perché solo adesso mi rendo conto di non esserci ancora riuscita. Non sono ancora riuscita ad accettare il fatto che ormai non importa più niente, né le nostre scelte né i nostri errori, niente di quello che è stato importa, e solo avendolo davanti agli occhi me ne rendo davvero conto.

Conduco lo sguardo verso la finestra, verso il campus bagnato di pioggia del pomeriggio, verso il cielo grigio di inizio gennaio. E alla fine sorrido. «A mio figlio piacerebbe molto Liverpool. Per via del mare»

«Ah!» esclama lui. «Anche a me piace molto il mare! Per questo mi sono trasferito qui»

Vorrei poter chiedere da quale posto si sia trasferito, e lo chiederei pur sapendo già la risposta, forse per una sorta di autolesionismo che mi spinge a scavare ancor più a fondo questa tana oscura, fino a farmi perdere il filo per tornare indietro, alla me che avevo sperato di essere diventata.

Non lo faccio, ma solo perché il brusio che riempie il nostro silenzio viene scalzato dalla voce del conduttore del telegiornale che sommessa arriva da un televisore posto in alto, dietro al bancone. Quella voce, che un semplice attimo di distrazione avrebbe potuto farmi perdere per sempre, cattura invece tutta la mia attenzione, facendomi alzare dalla sedia per raggiungere in fretta il barista.

«Scusi, potrebbe alzare il volume?»

Il ragazzo mi passa un telecomando con fare frettoloso, prima di tornare a servire altri clienti impazientemente affamati. Lo ringrazio con disattenzione e alzo il volume abbastanza da permettermi di seguire il breve servizio. Sullo schermo ci sono John, l'aria arcigna che gli storpia il volto da due mesi a questa parte, accanto al noto filantropo Culverton Smith, che sfoggia fiero un sorriso ingiallito dal tabacco, e Sherlock. E proprio lui mi fa spalancare gli occhi e mancare un battito al cuore. Lo vedo, con la barba incolta e le occhiaie peste e profonde, le palpebre spalancate e le cornee di un terribile colore giallastro. Lo vedo, finalmente, dopo due mesi di isolamento, e per un attimo mi trovo a preferire di non averlo fatto. Lo vedo, che alla fine ha fatto davvero come aveva promesso che avrebbe fatto. Ha davvero iniziato ad assumere ogni tipo di sostanza stupefacente che fosse in grado di procurarsi o sintetizzarsi, davvero ha scelto consapevolmente di spingersi oltre e rischiare un tracollo fatale. Lo vedo, vedo il suo viso, la sua espressione stralunata, l'aspetto poco curato... Per quanto possa trattarsi di uno dei suoi travestimenti, riconosco che stavolta sta giocando con tutte le carte a sua disposizione, anche con quelle che potrebbero fargli perdere tutto, che metterebbero a repentaglio la sua stessa incolumità. Lo vedo, adesso soltanto, che cosa è in grado di fare, per salvare John Watson da sé e da sé stesso.

Attonita, continuo ad ascoltare il servizio, che tratta di un'apparente visita ad uno degli ospedali finanziati da Smith, ma il motivo della visita non viene esplicitato. Nessuno riesce a carpirlo.

Lascio il telecomando sul bancone e, lentamente, torno verso il mio tavolo, risedendomi in assoluto silenzio.

«Tutto bene?» mi chiede Aldernis, con fare visibilmente preoccupato.

Alzo lo sguardo verso di lui, poi serro la mascella e annuisco. «Sì» rispondo, asciutta.

«Ne è sicura?» è lui ad insistere stavolta. «Dalla sua faccia non si direbbe»

Mi stringo nelle spalle. Dico una frase, semplice e che spero non faccia trapelare troppo. «Non mi aspettavo di trovare Sherlock in quello stato»

È un'ammissione, l'ennesima prova di verità che non rifiuto alla curiosità di quest'uomo. Sono costantemente sincera, rispondo alle sue domande omettendo elementi ma senza mai mentire. Come se lui avesse un qualche tipo di potere grazie al quale riesce sempre a cavarmi di bocca i miei veri pensieri. Oppure come se io volessi seminare indizi, invisibili e labili come briciole di pane su un sentiero, nella speranza che lui capisca chi sia davvero, che si faccia la domanda giusta.

"Chi sei, qual è il tuo cognome?"

Il solo pensiero che il mio inconscio mi stia tirando un gancio tanto mancino un po' mi turba. Per questo cerco di cambiare discorso, lanciando una veloce occhiata al mio orologio da polso, sperando che questo lo dissuada dal fare altre domande. «Sarà meglio andare» propongo. «Gli studenti arriveranno nel suo ufficio tra poco»

Faccio per frugare dentro lo zaino per tirare fuori il portafogli.

«Oh, tranquilla, faccio io» si offre allora Aldernis, alzandosi.

«No, non si preoccupi, pago per me»

«È solo un caffè, davvero» insiste lui, e subito è già al bancone, superandomi.

Quando si volta sorride, ovviamente.

«La ringrazio» dico allora, mentre ci dirigiamo verso l'uscita.

«Per così poco»

Per un po' camminiamo in silenzio, mentre Aldernis fa da guida verso il suo ufficio. L'improvvisa assenza di conversazione non mi pesa, anzi, la preferisco. Specialmente adesso, dopo le immagini che ho visto, ma so già che sarà una calma temporanea.

«Si sta occupando di un caso complicato? Sherlock Holmes, intendo»

La voce di Aldernis infatti rompe presto la quiete, e sebbene non ne sia tanto sorpresa, la voglia che ha di fare conversazione mi lascia indubbiamente perplessa. Non rispecchia assolutamente l'idea che mi ero fatta di lui. È curioso, attento, spiritoso, ed io me lo sono sempre immaginato come schivo e burbero. Un po' come Sherlock, forse.

«Diciamo di sì» rispondo, dopo qualche secondo trascorso a valutare cosa dire, come dire, magari se mentire. «Purtroppo, non ne conosco tutti i dettagli, ma so per certo che non si tratta di un caso semplice»

Potrebbe mai esserlo, dopotutto? Salvare il suo migliore amico dall'autodistruzione, schiaffargli davanti alla faccia cosa significherebbe se entrambi si lasciassero andare ad essa, che si stanno solo facendo del male a vicenda, nello stare lontani l'uno dall'altro.

«No?» fa lui, sinceramente stupito.

«No» ripeto. «Sherlock Holmes è spesso poco incline a condividere i suoi pensieri. Per questo è difficile stargli dietro»

«Vi conoscete da tanto?»

Mi fermo, anche stavolta aspetto. «Ehm...» mormoro. «Saranno... Sei, o sette anni, credo»

«Quindi lavorate insieme da parecchio tempo»

«Dio, no!» esclamo, e per la prima volta mi lascio sfuggire un flebile risolino. «Lavorare per Sherlock Holmes è un'esperienza tremenda, non resisterei a farlo tutti i giorni. Nemmeno vivo a Londra, si figuri. Mi piace solo dare una mano, quando c'è bisogno»

Stavolta è lui a non rispondere, mentre apre la porta a vetri di uno dei tanti edifici in mattoni rossi della facoltà. Ma so che questa pausa gli serve solo per preparare la sua prossima domanda.

«E come vi siete conosciuti?» mi chiede infatti, dirigendosi verso l'ascensore.

«Eravamo vicini di casa» rispondo, e sono sincera anche stavolta. «Ho vissuto a Londra per studiare. Poi...»

Mi fermo di nuovo. Dovrei forse dire perché me ne sono andata? Di certo lui saprà del finto suicidio di Sherlock, come credo tutta la nazione, ma dovrei forse metterlo al corrente del mio grado di coinvolgimento nella faccenda?

«Poi ho capito che Londra non faceva molto per me. Così sono tornata dalla mia famiglia»

Stavolta potrei effettivamente decidere di omettere tutto il resto della mia verità, come per impuntarmi contro me stessa per impedirmi di essere più onesta di così. Ma non lo faccio. Non so perché non lo faccio. Continuo ostinatamente a spargere indizi con maliziosa innocenza.

«A Nottingham»

Aldernis non sembra turbato da questo nuovo dato, e se invece lo è lo sa celare bene dietro ai suoi sorrisi cortesi. Preme il pulsante per chiamare l'ascensore e si infila la mano in una tasca, in attesa.

«Nottingham?» ripete, senza però guardarmi, restando con lo sguardo fisso alle porte chiuse. «Ho vissuto lì per un periodo»

«Davvero?» cerco di mostrarmi sorpresa, fin quasi da far sembrare la mia espressione artefatta. Ma forse un po' sorpresa lo sono davvero. Non mi aspettavo tanta sincerità da parte sua.

«Già» annuisce. «Ma è stato tanto tempo fa»

Un breve tintinnio annuncia l'arrivo dell'ascensore. Aldernis entra e preme il numero del piano corrispondente, ma non aggiunge altre parole. È la prima volta che dimostra laconicità, il che mi fa credere che voglia così chiudere il discorso. Di certo ne capisco benissimo i motivi, ma non per questo evito di insistere. Ormai ho appurato quanto gli piaccia fare domande, e allora penso sia giusto giocare ai suoi stessi termini.

«Non le piaceva?» chiedo dunque.

«No, non è per questo» risponde lui, scuotendo la testa. «È che... Ho lasciato lì molte cose che non ho mai avuto il coraggio di affrontare»

Mi lascio sfuggire una risatina amara, prima di lanciare una frecciatina sarcastica. «Non sarà uno di quelli che abbandonano la famiglia con la scusa di andare a comprare le sigarette?»

Le lancio, parole appuntite come frecce, e subito me ne pento. Ecco, forse dopo questa potrebbe benissimo capire chi sono. Potrebbe fargli connettere la persona che ha davanti alla figura di una bambina timida e che a malapena parla.

Anche lui accenna ad un sorriso che lascia trasparire un'amarezza come la mia. O forse qualcosa di più forte. Glielo leggo nello sguardo che mi rivolge. Nel dolore che tiro fuori dai suoi occhi verdi.

«Sarebbe tanto strano?»

Ecco, questo è tutto quello che ha da dire. Non cerca giustificazioni, né modi creativi per nascondere la propria colpa, ma nonostante questo riesco comunque a provare empatia per lui. Empatia nei confronti di una persona che pensavo di conoscere solo attraverso i miei sentimenti, e non attraverso i suoi.

Ci penso un po' su, prima di rispondere, anche se una risposta probabilmente lui non se l'aspetta. Era già dentro la sua domanda.

«Non sembra il tipo»

Lo dico candidamente, perché lo penso davvero. Se dovessi basarmi solo su ciò che ho visto oggi, sulla versione di Gareth Aldernis pulita da tutti i miei pregiudizi, potrei davvero dire che ne sarei stupita, e forse un po' lo sono, sebbene io sappia già che è vero, sebbene io abbia vissuto sulla mia pelle le conseguenze delle sue scelte.

«No, ora forse no» sorride lui. «Ma trent'anni fa... Ero un casino. Caratterialmente, emotivamente, psicologicamente... Non credo che chi ho lasciato alle mie spalle senta la mia mancanza. È stato meglio così»

'Oh, non sai quanto ti sbagli. Quanto ti sbagli...'

Un altro tintinnio ci annuncia l'arrivo al terzo piano. Aldernis esce ed io lo seguo.

Camminiamo lungo un corridoio e, dopo aver superato una fila di altre stanze, ci fermiamo davanti ad una porta, accanto alla quale signoreggia una targa ad indicarne il proprietario, una scritta che sembra riconoscermi e chiamarmi per cognome.

«Quindi... Non ha mai provato a tornare indietro?»

Lui si stringe nelle spalle, mentre tira fuori dalla tasca un mazzo di chiavi e ne sceglie una da inserire nella serratura. «Forse è troppo tardi. Non credo che chi hi lasciato alle mie spalle possa mai riuscire a perdonarmi e a cambiare idea su di me. Lo capirei, anche se ho fatto tanto per migliorare. Devo ancora imparare ad essere davvero coraggioso»

La conversazione cade, senza fare nemmeno troppo rumore, un po' come una piuma che, dopo aver a lungo fluttuato, si posa delicatamente a terra, e nello stesso momento Aldernis apre la porta del suo ufficio. La stanza è avvolta nel buio, tranne che per una flebile luce che riesce a passare da una finestra con le tapparelle abbassate posta sulla parete opposta a quella dell'entrata, e che il professore si premura subito di spalancare per permettere a luce ed aria fresca di riversarsi di nuovo dentro l'ufficio.

L'ambiente è parecchio grande, e sebbene ci siano solo pochi mobili, non sembra affatto spoglio. Una fila di cassettiere è posta sulla parete di destra, mentre a sinistra una lunga libreria dallo stile moderno, castana e stipata di volumi, occupa l'intero spazio. In mezzo alle due, proprio al centro della stanza, troneggia una scrivania in legno massello che, nonostante la sua superficie piuttosto estesa, permette a disordine e caos di dominarvi sopra: documenti impilati in faldoni, un computer vecchio di almeno una decina di anni, qualche penna abbandonata in giro...

E poi i quadri alle pareti, il tappeto che attutisce i miei passi, i colori caldi, riescono a trasmettermi uno strano senso di famigliarità e di calore, che però subito si congela quando noto su uno degli scaffali della libreria due cornici messe in bella vista. Mi avvicino, quasi senza pensare, spinta dalla necessità di osservarle meglio. Già so cosa ritraggono, le ho notate prima, quando siamo entrati per inviare le e-mail ai tre studenti. Adesso faccio finta di vederle per la prima volta, anche se so già tutto. Un ragazzo e una ragazza, che mi sorridono da due cornici diverse, ma entrambi abbracciati ad Aldernis. Lo sento che si avvicina alle mie spalle, notando la mia curiosità.

«I miei figli» mi spiega, abbassando la voce per qualche motivo. «Albert e Judith»

Non distolgo gli occhi dalle due foto. Non ci riesco, anche se non farlo mi fa stare peggio. Qualcosa mi attira, e forse è solo il voler cercare un pezzo di me in questi volti. Cercare somiglianze tra noi, magari lo stesso naso, o lo stesso modo di incurvare le labbra in un sorriso genuino, qualsiasi cosa. Ma non lo trovo, o forse non voglio trovarlo. Mi dico che questi volti dovrebbero essere simili ai miei, e invece mi appaiono solo come quelli di due perfetti sconosciuti che però hanno avuto la fortuna di essere i figli scelti, eletti, quelli voluti dal padre che abbiamo in comune.

«Sono molto giovani» noto, ed è tutto quello che riesco a dire.

«Studiano ancora al liceo. Judith si diplomerà quest'estate, mente Albert è ancora al secondo anno»

Tredici anni... Tredici anni di differenza mi separano dalla maggiore dei fratelli Aldernis. Venti anni quasi tra lei e Alan. Più di venti tra lui e il secondogenito.

Fare questi calcoli mi fa salire un groppo alla gola, l'ennesimo di questa giornata di silenzi che cercano di coprire l'urlo che mi assorda la testa. Saprei in realtà come scioglierlo. Basterebbe aprire bocca, rispondere alla fatidica domanda, ora che farlo sembra così perfetto e adatto al momento.

"Solo Jane?"

"No, Jane Aldernis"

Sarebbe così facile se solo il tempismo del primo dei tre studenti fosse dalla mia parte, ma il suo arrivo è sufficiente a costringermi a mandar giù quel grumo di parole che torna a pesarmi dentro al corpo.

Distolgo gli occhi dalle foto e riprendo a muovermi per la stanza, fino a raggiungere la finestra alle spalle della scrivania, mentre Aldernis va ad aprire la porta per poi accogliere all'interno dell'ufficio il primo dei tre sospettati.

«Ah, Abigail!» sorride alla ragazza, con affabile confidenza. «Accomodati pure»

Lei muove un passo, titubante, finché non si accorge della mia presenza dall'altro lato della scrivania. Mi scruta un attimo con i suoi occhi scuri e io faccio altrettanto, prima di rivolgerle un sorriso che spero risulti rassicurante, che mascheri bene il mio turbamento.

«Posso sapere cosa succede?» chiede allora, senza perder tempo in saluti che non sarebbero certo sufficienti a mascherare la sua ansia.

Aldernis la raggiunge, lasciando la porta dell'ufficio aperta. «Ogni cosa a suo tempo. Come avrai letto dalla mia e-mail, si tratta di una faccenda molto grave che vorrei discutere con te insieme agli altri tuoi colleghi. Dovrebbero arrivare a momenti» La supera per andare ad accomodarsi dietro alla scrivania, interponendosi tra me e la studentessa, a cui indica una delle altre due sedie posizionate davanti a sé. «Prendi pure posto intanto»

A quel punto la giovane studentessa si siede, facendo scivolare i capelli castani contro la spalliera della sedia. Si muove con molta grazia, quasi sapesse benissimo che muscoli muovere e come. Osservarla riesce a cacciar via le mie preoccupazioni, concentra tutta la mia attenzione sul cecare di carpire quanti più elementi possibili.

'Che tipo di sport fa? Nuoto? No, è troppo magra. Magari tennis? Non mi sembra abbia dei tricipiti tanto sviluppati. Forse...'

«Lei fa atletica leggera, giusto?»

La ragazza alza gli occhi verso di me. «Mi scusi?»

«Ha una borsa di studio sportiva perché fa atletica leggera, no?»

Abigail allora passa gli occhi da me al suo professore, unica figura famigliare di quest'ufficio. «Sì» annuisce infine, ancora poco convinta. «È così»

«Mi dispiace per il suo infortunio» aggiungo poi. «Ho notato che zoppica leggermente. Slogatura?»

'Beh, Jane, ti manca solo la totale indelicatezza e potremmo dire che la trasfigurazione in Sherlock sia completa'

«No, ho subito uno strappo muscolare al polpaccio» Sorride, e noto un velo di ironica spocchia sul suo viso. «Spero di rimettermi prima dell'inizio del nuovo semestre»

Sto per rispondere, ma vengo interrotta dall'arrivo del secondo studente, che fa il suo ingresso nell'ufficio come una specie di ombra.

«Sono in ritardo?» chiede Daulat Ras con voce calma.

«Daulat! Vieni, entra pure e prendi posto» lo invita Aldernis con un cenno della mano. «Non sei affatto in ritardo, stiamo ancora aspettando Miles»

«Sperando che venga...» borbotta Abigail, incrociando le braccia al petto.

«Effettivamente, è l'unico che non ha nemmeno risposto alla mia e-mail...» ragiona il professore. «Voi sapete nulla? È forse tornato a casa per le feste?»

«Con tutti gli esami che aveva da recuperare? Non credo proprio» replica tagliente Ras.

Aldernis sospira. «Speriamo che venga... Ho davvero bisogno di parlare a tutti e tre insieme»

«Detto fatto, professore» annuncia solenne una voce che, con tono di sfida, risuona dal corridoio fin dentro all'ufficio. «Per una volta potrà dirsi fiero di me»

Finalmente anche l'ultimo dei tre studenti fa la propria entrata, con un'aria da bello e dannato che sicuramente gli permette di dominare bene la scena.

«Ah, menomale, Miles!» ribatte Aldernis, sempre sorridente. «Purtroppo abbiamo finito le sedie, dovrai rimanere in piedi»

Il ragazzo si stringe nelle spalle. «Tanto sarà una cosa breve, mi auguro»

«Temo di no, Miles. Purtroppo è successo qualcosa di molto grave, qui in facoltà» Aldernis fa una pausa, a mio parere molto scenografica, prima di continuare, grave anche lui. «Qualcuno ha provato ad hackerare il mio portatile per rubare dei documenti privati»

Passo velocemente gli occhi da uno studente all'altro, aspettandomi di trovare un'espressione preoccupata, o almeno una sua pallida imitazione. Eppure tutti e tre gli studenti rimangono impassibili, quasi intontiti, come se davvero non riescano a capire cosa stia succedendo.

«E noi cosa c'entriamo con questa faccenda?» chiede allora Ras. «Non mi fraintenda, quanto è accaduto è gravissimo, ma...»

«Ho ragione di credere che sia stato qualcuno dell'università»

«Continuo a non capire»

«Quello che il professor Aldernis sta cercando di dire...» mi intrometto io, facendo un passo avanti verso di loro.

'Non mi abituerò mai a sentire usare il mio cognome accompagnato da questa denominazione...'

«È che ci sono buone probabilità che il colpevole sia tra voi tre»

Un'impercettibile onda di gelo travolge la stanza, come un filo di luce che si accende e poi scompare. Ma tanto basta per farmi già vedere chiaro. Adesso, sì, l'espressione preoccupata, o una sua pallida imitazione che sia, si fa piano largo sui visi dei tre studenti, anche se in misure diverse. Daulat Ras, nonostante la compostezza mantenuta fino ad ora, è quello che sembra più agitato: spalanca per bene i grandi occhi neri e socchiude piano la bocca, come se avesse appena ricevuto una pugnalata e si stia trattenendo dall'urlare di dolore. Abigail Gilchrist anche sembra inquieta, ma l'unica cosa che fa è passare velocemente lo sguardo da me al professore, ai suoi compagni.

«È uno scherzo?» chiede, stizzita. «Perché, se lo è, sappiate che non ho tempo da perdere»

«Bello scherzo, convocarci tutti qui» sbuffa Miles McLaren, che tra i tre sembra il più tranquillo.

«Ma ti rendi conto che ci stanno accusando di una cosa gravissima?» replica l'altra, alzando il tono della voce. «E poi lei chi è per poter muovere accuse di questo genere?» continua, volgendomi un'occhiata aggressiva. «Neanche si è degnata di presentarsi»

La osservo un secondo, prima di aprire di nuovo bocca. «Il professor Aldernis mi ha contattata per aiutarlo a fare chiarezza su quanto accadutogli» Alzo la mano, così da bloccare sul nascere la prossima domanda. «E no, non sono della polizia. Quindi potete anche tirare un sospiro di sollievo, ché non siete passibili di denuncia. Per adesso»

Sebbene abbia cercato di rendere sottile il mio tono, capisco subito di aver fatto centro. I tre, infatti, rilassano subito i loro volti e le loro posture si fanno meno rigide. È un movimento impercettibile, che dura un momento solo, ma è proprio per questo che lo noto subito.

«Ora...» continuo. «Volete provare a spiegare cosa è successo e dare la vostra versione dei fatti o volete lasciare a me questa incombenza?»

Nessuno dei tre risponde. Si guardano a vicenda, spaesati, nonostante i loro tentativi di mostrarsi estranei alle accuse contro cui si sono ritrovati.

«Bene, allora, comincio io» prendo infine iniziativa. «Sentitevi liberi di interrompermi, quando ve la sentirete»

Faccio un passo avanti verso la scrivania, fino a fermarmi accanto alla sedia su cui Aldernis è seduto.

'Sherlock ha ragione: è davvero divertentissimo!'

«Come già accennato dal vostro professore, qualcosa di molto grave è accaduto alcuni giorni successivi a Natale, e cioè che qualcuno ha provato ad installare un virus trojan da remoto sul suo portatile, così da avere accesso a tutti i file presenti in memoria. Ovviamente, risalire all'hacker è assai complesso, tanto che nemmeno Hari Jha, che immagino voi tutti conoscerete, è stato in grado di farlo. Per questo il professor Aldernis ha deciso di rivolgersi a me per cercare quantomeno di sfoltire la lista dei possibili sospettati» Li fisso, tutti e tre. Una breve pausa, prima di riprendere. «Direi di esserci riuscita»

«E secondo quale criterio dovremmo essere stati noi?» chiede ancora McLaren.

«Beh, è semplice» replico. «Chiunque abbia cercato di hackerare il portatile del professore doveva di certo avere accesso alla rete wi-fi dell'università che, come tutte le reti internet pubbliche, ha reso molto più facile l'intera operazione. Il fatto che sia proprio avvenuta in università, poi, mi ha fatto subito escludere la possibilità che il tentativo sia stato fatto per cercare di rubare della documentazione relativa all'attività privata del professore. Quindi sono arrivata alla conclusione che fosse stato qualcuno interno all'università, magari uno studente in cerca di una copia dell'esame» Li guardo di nuovo, ma nulla cambia sui loro volti già abbastanza sconvolti. «Agli studenti internazionali in possesso di una borsa di studio viene richiesto un minimo di crediti da ottenere ogni anno per poterne mantenere i benefici. Chi aveva interesse a rubare l'esame non poteva permettersi di non riuscire a superarlo, e difatti da lì sono partita. Ho dapprima controllato gli accessi alla biblioteca nel giorno del tentato furto, ho rimosso gli studenti del Regno Unito, quelli senza borsa di studio e quelli che sono in pari con i crediti universitari. Fino ad arrivare a voi»

Un nuovo sguardo vola tra i tre. Stavolta è più traballante, più in bilico.

«Inizialmente ho creduto che fosse stata opera di una persona sola, quindi bastava solo che io individuassi chi dei tre avesse commesso il fatto» Altra pausa. «Ma credo che ognuno di voi abbia avuto un ruolo, o sbaglio?»

Pausa, sospiro, aria trattenuta, gelo. Un altro sguardo che rimbalza da un paio di occhi all'altro, veloce, terrorizzato. Sorrido.

'Bingo'

«È stata un'idea comune, dal momento che tutti e tre avete ogni interesse a rimanere a Liverpool. Da quel poco che posso intuire di voi, Gilchrist non può permettersi di perdere la sua borsa di studio sportiva e tornare a studiare negli Stati Uniti, Ras è probabilmente intenzionato a rimanere qui anche una volta finita l'università, e McLaren cerca il massimo profitto col minimo sforzo. Dovrebbero essere delle motivazioni sufficienti, dico bene?»

Silenzio. Lo spazio attorno a noi sembra restringersi. Mi schiaccia la testa, e il petto, e mi riempie di tensione in tutto il corpo.

«È vero, ragazzi?»

Lo spazio si dilata, quasi come stesse per esplodere, detonato dalla voce di Aldernis che rompe la quiete. Ma è quieta anche essa.

«Siete stati tutti e tre?»

Lo dice con tono stupito, quasi deluso, e questo lo avverto senza nemmeno il bisogno di voltarmi a guardarlo. Lo sento dal modo in cui scandisce le parole, e tiene la voce bassa, non arrabbiata. Senza guardarlo, io lo so che espressione ha in questo momento. È la stessa che gli ho visto oggi mentre annotavo il nome dei tre studenti per la prima volta, quando abbiamo inviato loro l'e-mail per il colloquio. La vedo riflessa negli occhi dei tre ragazzi che ho davanti, che ormai con le spalle al muro si trovano costretti ad ammettere le proprie colpe.

Gilchrist è la prima a cedere. Assume un smorfia lungo il viso che le fa sgorgare delle grosse lacrime dagli occhi.

«Oh, professor Aldernis...» inizia a singhiozzare. «Mi dispiace, mi dispiace, è stata colpa mia...»

Adesso anche gli altri due si lasciano andare. Ras si libera della sua ansia repressa, socchiude gli occhi e si copre il volto con entrambe le mani, per poi piegarsi col busto verso le ginocchia. McLaren, ancora in piedi, resta con le braccia ben annodate al petto, ma ha ora lo sguardo basso e ha lasciato cadere la maschera di indifferenza e apatia con un sospiro a bocca chiusa.

«Io... Io non ho potuto studiare per via dell'infortunio, e...» continua Gilchrist, tra un singhiozzo e l'altro. «E temevo che mi avrebbero cacciata se non avessi... Oh, Dio, adesso mi cacceranno comunque!» Si volta verso i suoi compagni, ma loro non ricambiano il suo sguardo. «E anche voi! Oh, professor Aldernis, la prego, non...»

«Abigail, calmati, nessuno verrà cacciato dall'università» la ferma allora il professore.

La ragazza si blocca. Lo guarda, gli occhi rossi e gonfi di lacrime. «Come?» balbetta.

«Se avessi voluto mettervi nei guai, avrei chiesto alla polizia di indagare, o avrei messo di mezzo il rettore. Non l'ho fatto perché non era quello il mio intento» spiega lui, incrociando le dita e posando le mani sulla superficie della scrivania. «Io volevo solo capire per quale motivo un mio studente abbia commesso una tale azione. Dove io abbia sbagliato»

Li guarda, tutti e tre, e anche loro ricambiano lo sguardo. Lo ascoltano. Ras riemerge dalle sue mani, McLaren alza di nuovo il capo, Gilchrist si asciuga gli occhi.

«La cosa che mi dispiace è che voi abbiate preferito agire in un modo così meschino piuttosto che rivolgervi direttamente a me. Avrei potuto aiutarvi, venirvi incontro» Scuote la testa, sospirando. «E invece avete preferito complicarvi la vita agendo alle mie spalle»

«È che lei sembra così rigido, a lezione...» mormora Ras.

«Rigido?»

«Sì, ci chiede sempre di partecipare, di interagire, pretende di trovarci sempre preparati...»

«Beh, perché sono un insegnante!» esclama il professore, indignato. «È normale che pretenda molto da voi. Non voglio sciorinarvi la lezione e abbandonarvi a voi stessi. È necessario che vi segua durante il percorso» Poi sorride, quasi divertito. «Di certo non voglio fare il disinteressato come molti altri miei colleghi»

Gli studenti accennano ad una risata, che un poco riesce a smorzare la tensione. Un gioco che tra loro ha senso, e per me no, e forse va bene così. Un po' fa sorridere anche me, mi rende partecipe.

Un po' mi stupisco di questa reazione così calma. È strana, non me l'aspetto, forse perché io non reagirei mai così. Sarei furiosa, fuori di me, e invece lui è... Comprensivo, attento, premuroso. Vuole davvero aiutare questi ragazzi, lo ribadisce quando annuncia di voler prendere provvedimenti senza che il tutto diventi ufficiale. È così diverso dalla veste di pregiudizi che gli avevo cucito addosso, continua a dimostrarmelo ad ogni scambio che ha con ogni persona che incontra.

Talmente mi stupisce che finalmente prendo in mano l'ultima ipotesi: forse è davvero cambiato. Forse è davvero diventato una persona migliore. Forse davvero è un buon padre, così come mi ha dimostrato di essere un buon professore.

Forse, forse, ma io come faccio a saperlo, se con me non lo è stato? Se lo è, una brava persona, perché lo è stato solo con i suoi figli, i figli veri, quelli che ha voluto e riconosciuto come suoi, quelli che ha cresciuto senza tirarsi indietro, con coraggio e maturità, e non con me e mio fratello? Perché ci ha privati della sua presenza?

La domanda continua a risuonarmi nella testa come una nenia anche quando, finalmente, lo riaccompagno a casa sua. La strada, alle sei della sera, è già completamente deserta, lasciando il posto al senso di malinconia che le luci natalizie, ancora lampeggianti attraverso le finestre illuminate, riescono appena a mitigare.

Accosto lentamente la macchina sulla sinistra, proprio accanto al cancello del cortile della famiglia Aldernis. Spengo il motore e mi lascio andare contro lo schienale, con un sospiro di stanchezza senza sollievo: le domande, i perché, continuano ad assillarmi. Chiudo gli occhi e mi godo il silenzio, cercando di farlo passare sopra ai miei pensieri, di farlo diventare più forte, in qualche modo. Una voce alla mia sinistra me lo impedisce.

«Sono tutti rientrati a casa...» mormora Aldernis. «Forse mi stanno aspettando per cena»

«Beh, allora direi che è arrivato il momento di riunirsi» osservo io, cercando quasi di togliermi di dosso questo affanno.

'Vattene, torna alla tua vita, dimenticami. Sii una persona diversa con persone diverse'

Quando riapro gli occhi, mi accorgo che Aldernis mi sta guardando. Non sorride, però. È serio, quasi stia cercando il modo per dirmi qualcosa. Forse una domanda, la domanda?

«Le va di fermarsi a cena?»

Ecco cosa. Non quel qualcosa che mi aspettavo io, quel che desideravo senza davvero volerlo. Ma un invito, forse dettato dalla simpatia, o per sdebitarsi per averlo portato in giro tutto il giorno a risolvere le sue beghe accademiche.

«Ehm...»

Non quel qualcosa che avrebbe potuto aiutarmi a rispondere ai miei perché e a togliermi dal petto questo macigno e per poter finalmente uscire allo scoperto, dopo una vita intera passata a nascondermi da lui, quasi non esistessi. Quasi lui non esistesse.

'Vattene, vattene, dimenticami'

«Non... Non credo sia il caso» rispondo infine, cercando di mantenermi vaga ma comunque chiara. «Staranno aspettando anche me a casa. Ho lasciato mio figlio da mio fratello, e...»

«Ha un fratello?» chiede allora lui interrompendomi, e stavolta la domanda non me l'aspetto.

Aggrotto le sopracciglia.

Perché gli interessa? Per una coincidente curiosità, oppure...

«Sì» annuisco, e subito decido di testare le due ipotesi, e decido di farlo nell'unico modo che conosco: lanciando indizi, come sassolini verso una finestra, con la speranza che ad un certo punto si apra.

«Si chiama Alan»

Quando nomino il nome di mio fratello, lui mi guarda, pare perplesso e allo stesso tempo... Rasserenato. Si lascia andare contro lo schienale dell'auto, sospira di sollievo, mi pare quasi che sorrida, in mezzo alle ombre e alla luce arancione dei lampioni.

«Capisco» mormora, restando poi un secondo in silenzio. «Allora è meglio che ti lasci andare. Però l'invito a cena rimane sempre valido» aggiunge, con rinnovato entusiasmo e una confidenza che quasi mi abbraccia. «Per quando ti sentirai pronta»

L'ennesimo brivido mi attraversa la schiena, ma stavolta non mi fa tremare. Anzi, mi scalda, mi coccola, come un massaggio che mi fa sciogliere la tensione delle spalle, e del collo, e della testa. Mi fa aprire il petto e respirare, finalmente, respirare a pieni polmoni, perché quella finestra adesso si è aperta e la stanza si è schiarita di luce. Lo capisco, che lui lo capisce davvero, che adesso sa come so io.

"Sono solo Jane"

"No, sei Jane Aldernis"

Adesso so che le sue non-domande erano un modo per evitare quella diretta che avrebbe messo in difficoltà entrambi. Era il suo modo di indagare, di raccogliere indizi e di mettere insieme i pezzi. Adesso lo so, e per questo mi giro a guardarlo per sorridergli, per la prima volta in modo sincero.

«Grazie...»

È tutto quello che mi viene da dire. Basta così. Non credo ci sia molto altro da aggiungere, a dire il vero. Lui non sembra d'accordo, infatti allunga la mano, invitandomi a stringergliela.

«È stato davvero un piacere conoscerti, Jane»

Nel sentirgli pronunciare il mio nome, uno spontaneo moto di fierezza mi attraversa il volto, rendendo il mio sorriso ancor più caldo e sincero, un leggero friccichio tra le palpebre che impongo di rimandare indietro.

'Non dimenticarmi, non ancora, non ancora...'

No, non credo lo farà mai più. Anche se tra poco Gareth uscirà dall'auto e mi lascerà qui dentro, con le lacrime agli occhi; anche se io lo osserverò rientrare a casa sua, dalla sua famiglia, dentro la sua vita, per riprendere a continuarla come prima; anche se mi lascerà al di là di questo cancelletto in ferro battuto che sembra dividere i nostri due mondi... Va bene così. Adesso so che quella finestra si è aperta anche per me, e che molte delle emozioni che a lungo avevo lasciate sopite da qualche parte sono rientrate a cercare il proprio posto, a prendersi il proprio spazio.

Ci vorrà un po', come per tutte le cose, per accettare che Gareth Aldernis sia cambiato in qualcosa di migliore rispetto ai miei ricordi. Ci vorrà del tempo, e forse dell'altro coraggio, per riuscire a domandargli quei perché sapendo che, stavolta, avrò una risposta. Ma va bene così, per adesso. Basta questo. Perché adesso la possibilità di sapere e di conoscere non mi spaventa più come una volta.

«Anche per me... Gareth»

Adesso posso finalmente smettere di aspettare.

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