{66° Capitolo}
[Spazio Autrice]
Buonsalve a tutti, regaz!
Come state? È da davvero tanto che non ci si sente, dal momento che sono sparita dalla circolazione per letteralmente anni. :P Giuro però di avere dei buoni motivi (tra cui aver fatto la fuorisede per due anni ed aver raggiunto la soglia del burnout per via dell'università, però vi risparmio volentieri i dettagli su questa vicenda, fidatevi).
Però ora sono tornata, con un nuovo, fantastico capitolo! Vi anticipo già che per i prossimi non dovrete aspettare così tanto, giuro, quindi riponete pure i forconi e le torce, PER PIACERE.
Ecco, ora che siamo tutti più rilassati, posso darvi qualche indicazione in più su come verranno strutturate le prossime pubblicazioni. Manca davvero poco alla fine di questa storia (più precisamente, cinque capitoli e un epilogo), quindi stringete i denti, ché questo supplizio è quasi finito, giuro.
Ho scelto questo giorno come prima data per riprendere la storia per omaggiare un anniversario speciale: infatti, il 09 settembre 2014, esattamente dieci anni fa, "222B, Baker Street" vedeva la luce per la prima volta su questi schermi. Sembra passata un'eternità (e in effetti è così), ed io un po' mi emoziono nel ripensare a quanta strada abbia fatto questa storia, ed io con essa. Quindi mi faceva piacere riprendere la pubblicazione proprio oggi, sperando che questa scelta mi porti un po' di fortuna.
I capitoli usciranno fino al 24 dicembre 2024, quando verrà pubblicato l'epilogo (come vuole la tradizione per gli Special di Natale). Molti di essi sono pronti già da tempo, mentre altri necessitano giusto di qualche piccola revisione: insomma, niente che mi richiederà anni per risolvere, giuro!
Per ora godetevi il capitolo 66°, e fatemi sapere che ne pensate!
A presto, Sherlocked!
-Maddy
[Capitolo sessantacinquesimo]
"Would you let me know your plans tonight?
'Cause I just won't let go 'til we both see the light
and I have nothing else left to say
but I will listen to you all day."
-Twenty-One Pilots, "Friend, Please"
Jane
Sgambettando felicemente, Aden si stacca dalla presa salda della mia mano per avvicinarsi allo schermo di vetro che lo separa dalla profondità della vasca. «Guarda, i pesci!» esclama, per poi poggiarvi contro i piccoli palmi e avvicinare il naso più che può, come per sentire improvvisamente le gocce d'acqua sul viso. «Possiamo fare il bagno?»
«No, Aden, non possiamo»
«Perché no?»
«Perché non è un posto per fare il bagno»
«Ma c'è l'acqua»
«Sì, perché è un acquario. Solo i pesci possono nuotarci»
«Come nel mare»
«Non proprio, Aden, perché...»
«Io so nuotare come i pesci»
Sherlock sospira, poi si volta verso la mia direzione, indicando Aden con un indice. «Glielo spieghi tu?»
«Perché? Stai andando benissimo»
«Devo ancora affinare la tecnica. Quando parla di cose che conosce, è impossibile farlo ragionare»
«Mi ricorda qualcuno...» mormoro, facendogli alzare gli occhi al cielo. «Aden, ascolta...» Mi inginocchio allora, prendendo di nuovo mio figlio per la mano e tirandolo a me. «Adesso non possiamo fare il bagno. Non è ancora estate, e poi non hai il costume, no? Quando inizia a fare più caldo, andiamo al mare, così puoi nuotare in mezzo a tutti i pesci che vuoi. Però dobbiamo avere ancora un po' di pazienza, sei d'accordo?»
Aden mi guarda negli occhi, piccole righe parallele ad attraversargli la fronte. «Promesso?»
«Promesso» asserisco, sorridendo. «Per ora guardiamoli e basta, i pesci»
«Okay»
Mi tiro su, Aden torna con gli occhi ai pesci dietro al vetro, muovendo la testa a destra e a sinistra, in alto e in basso, catturato da ogni minimo elemento.
«Mi spieghi come fai?»
«Lo sai come fare: basta distogliere la sua attenzione. Io gli do qualcosa a cui pensare, come il mare d'estate, mentre tu lo distrai dicendogli cose che non è ancora in grado di capire» Mi stringo nelle spalle. «La tecnica è la stessa»
Sherlock non risponde. Continua a guardare Aden che, entusiasta, saltella da un lato all'altro del London Aquarium, indicando ogni specie che riesce a riconoscere: gli squali, le meduse, e così via. Non commenta, non osserva, sta solo zitto. E da questo suo evitare un discorso di cui sento comunque la presenza capisco che aspetta solo che sia io ad iniziare, rompere il ghiaccio di un sentimento non ancora analizzato e compreso.
«Non dovresti venire qui, Sherlock» mormoro, a voce bassa. «Non aiuta»
Lui scuote la testa. «Non è vero» replica, senza guardarmi. «Aiuta eccome. A non dimenticare quel...»
«Sherlock, non è stata colpa tua» lo blocco, probabilmente con la speranza di farlo ragionare.
Lui, per tutta risposta, scuote la testa, con fare quasi sconsolato. «John non sembra d'accordo»
«John è arrabbiato. È normale. Cosa dovrebbe provare, secondo te?»
Non mi aspetto che Sherlock risponda, ovviamente. In fin dei conti, nemmeno io so bene cosa dovrebbe provare John in questo momento in cui tutto è confuso, in cui io non riesco a dare un nome nemmeno ai miei sentimenti, figuriamoci a quelli degli altri. Credo che questa sia la cosa più logica di tutta questa illogicità che stiamo vivendo.
Con la morte di Mary, ho pianto tanto, ovviamente e come mio solito. Per giorni interi, dopo la notizia, e anche durante il funerale. Ho singhiozzato senza pace, davanti alla bara, poi sulla lapide, bagnavo i petali dei fiori che tenevo in mano, leggeri e comunque pesanti. Ho pianto dentro e fuori, e nemmeno ci ho provato a trattenermi e ad essere forte, per John e Rosie, o per Aden, per Sherlock. Ho voluto solo essere presente al mio dolore, viverlo per forse accettarlo.
Il Northwood Cemetery, nel borgo di Hillingdon, non è molto lontano da casa Watson. Di solito è il comune a decidere dove seppellire i propri cittadini, magari per non portarli troppo lontani dalle proprie famiglie. Non so se per John sia stata una premura ben accetta. Conoscendolo, avrebbe scelto di sicuro il posto più lontano possibile da sé e dalla figlia, se avesse avuto la libertà di scegliere: più è lontano dal dolore, meno ci pensa e meno soffre. Ma così non è stato, e l'unica cosa che potrà fare sarà girare alla larga da questo cancello. Come molto probabilmente si terrà alla larga da molti altri luoghi di Londra, quartieri e strade, palazzi, persino persone. Come si tiene alla larga da Sherlock, e da me, da Molly. Ci tratta con aria distratta, a volte sufficienza, e magari sarà solo dolore anche per lui, solo confusione e rabbia e impotenza, o forse ha solo bisogno di tempo, come per tutte le cose. Di tempo, spazio, conforto. Conforto che vorrei potergli dare, se non fosse per la scostanza con cui mi lascia da sola in un angolo, lontana: io col mio dolore, lui col suo.
Fissavo il vuoto ai miei piedi, verde scuro come l'erba ancora umida di pioggia invernale e freddo. Tenevo Aden in braccio mentre, ognuno con una rosa bianca in mano, ci avviavamo verso l'incavo nel terreno dove era appena stata posizionata la bara di abete che avrebbe ospitato Mary nel gelo della terra. Gettammo dolcemente i due fiori sopra il legno, ormai tanto lontano, e ci voltammo per tornare verso i nostri posti. Ma, non appena alzai lo sguardo, mi sorpresi nel trovare Sherlock accostato al tronco di un albero a qualche decina di metri da noi. Rimasi immobile a fissarlo per qualche secondo, prima di riuscire a voltarmi, smarrita, verso Alan, immagino per trovare consiglio nei suoi occhi. Lui, per tutta risposta, avendo ben compreso la situazione, mi fece cenno di passargli Aden, così da permettermi di raggiungere Sherlock senza farmi troppo notare.
Quando ci ritrovammo l'una davanti all'altro, non sapevo bene cosa avrei dovuto fare, se abbracciarlo e stringerlo o semplicemente aspettare che fosse lui a dire qualcosa. Nessuna delle due cose avvenne, in realtà. Restammo immobili, a fissare da lontano la cerimonia funebre che continuava, il sacerdote in piedi con le mani giunte di fronte ad una scatola a forma di lapide.
Provai a parlargli, chiedergli come stava, dove era stato in quei giorni in cui non mi aveva dato una sola sua notizia. Non sembrava ascoltarmi, né avere la forza di rispondere alle mie domande insistenti, e allora mi cercai da sola le risposte tra i segni che aveva sul viso. Anche se il completo e il cappotto sembravano ordinati con la solita cura, lo stesso non si poteva dire della sua barba, vecchia di almeno un paio di giorni, e che gli donava un'aria matura, addirittura invecchiata. Mi resi conto di non averlo mai visto con un viso tanto trascurato, abituata da sempre alla sua tendenza a rimanere neutro persino nell'aspetto. Ma quel giorno, nel Northwood Cemetery, durante il funerale di Mary Elizabeth Watson nata Morstan, riuscii finalmente a scoprire quale sarebbe stata la sua espressione nel caso in cui avesse preso coscienza del mondo. Mi resi conto che anche lui, come me, non era pronto a tale consapevolezza, non era pronto ad ammettere che, sì, le cose brutte accadono, e che possono accadere anche a noi, toccarci da vicino e romperci l'anima in mille pezzi. Farci soffrire, renderci impotenti di fronte al dolore, lasciandoci senza armi con le quali poter combattere.
Avrei tanto voluto avere qualcosa da dire, ma in realtà sapevo bene che sarebbe stato inutile anche solo provarci. Allora, semplicemente, gli presi una mano e la strinsi forte, senza guardare, e senza guardarlo. Lui attese un po' prima di ricambiare la stretta, forse con una forza inconscia che non si rendeva conto di avere.
Rimanemmo per un po' così, a seguire da lontano la lunga processione di gente che si alzava, ognuna con un diverso fiore in mano, per andare a porgere un ultimo saluto a Mary. Ed entrambi, senza parlare, la vedemmo sparire lentamente sotto piccoli e veloci cumuli di terra che la nascosero per sempre ai nostri occhi ancora arrossati. Non credo che a Sherlock importasse della cerimonia in sé, quanto del significato intrinseco che le attribuiva, oltre alla possibilità che John lo vedesse e magari cambiasse idea sulla propria posizione riguardo la morte di Mary, sebbene sapesse benissimo quanto cocciuto ed orgoglioso fosse il dottore: non sarebbe stato affatto facile.
Finito il funerale, Alan si alzò dal suo posto accanto a John, ormai accerchiato da gente che ripeteva parole di condoglianze da ogni direzione. Mio fratello, con Aden ancora in braccio, si avvicinò a noi velocemente e, raggiuntici, iniziò subito a parlare a denti stretti e tono acre, quasi sovrastando la voce del nipote che cercava di attirare l'attenzione di Sherlock muovendo la mano a mo' di saluto.
«Holmes, non dovresti essere qui» disse Alan, rivolgendosi al detective, i propri occhi ridotti a due fessure. «John ti ha visto e non sembrava molto contento»
«Non può impedirgli di venire» ribattei io, al posto suo. «Era sua amica»
«Era sua moglie, Jane! E lui lo ritiene ancora responsabile per la sua morte»
«Voleva solo vedere come stava»
«Sai come è fatto: se non se ne va via subito, potrebbe mettersi a fare una scenata davanti a tutti!»
«Lei si è messa in mezzo»
La voce flebile di Sherlock si intromise tra le nostre, con la stessa foga di un sussurro. Entrambi ci voltammo verso di lui, ma il detective continuava a fissare, davanti a sé, l'amico ormai diventato più lontano di quanto avrebbe mai immaginato.
«Mary si è messa in mezzo. La pallottola era per me. Dovevo prenderla io. Dovrei esserci io, in quella bara»
«Ascolta, Holmes: non sto dicendo che tu meritavi di morire più di lei, nessuno dei due avrebbe mai dovuto essere il destinatario di nessuna pallottola. Voglio solo dire che John è ancora scosso e sta cercando di realizzare tutto, e non penso che la tua presenza lo aiuti ad accettarlo» Si fermò, gli occhi fissi su Sherlock, quelli di Sherlock finalmente fissi su di lui. «Stare qui non aiuterà né lui né te, quindi faresti meglio ad andare via» concluse poi, dopo qualche secondo. «Persino tu non meriti di soffrirci così tanto»
Non penso di essere in grado di immaginare cosa abbiano pensato, nel guardarsi così a lungo. Forse Sherlock era solo confuso dal ritrovarsi di fronte ad un Alan così comprensivo, ed Alan allo stesso modo doveva essere stupito di quanto era appena uscito dalle proprie labbra. Non so se, dentro di sé, si fosse ritrovato a rivalutare la figura del detective abbastanza a fondo da sentirsi a proprio agio nel tentativo di rassicurarlo, consigliarlo. Come se, nonostante tutto, fosse dalla sua parte.
Non disse più altro, però. Gli mise solo una mano sulla spalla, mi avvertì che sarebbe andato in macchina e ci lasciò soli, con Aden che di nuovo si sporgeva per salutare Sherlock con la manina.
Di nuovo sotto l'albero, solamente io e lui, restammo in silenzio per un po'. Guardammo Alan e Aden allontanarsi e diventare sempre più piccoli, e John, al lato opposto, sempre più invisibile, quasi fagocitato dalla folla commossa e lacrimante.
«Forse dovresti fare come lui» ripresi poi, dopo aver osservato a lungo il dottore. «E rivolgerti ad un terapeuta»
Sherlock provò debolmente ad accennare una risata, senza ottenere un reale successo, talmente poca era la sua forza di dimostrare emozioni: persino il sarcasmo gli toglieva energie.
«Aiuterebbe?»
Mi strinsi nelle spalle. «Dipende. Se vuoi che ti aiuti...»
A John, forse, la terapia non era mai stata di grande aiuto per via della sua totale incapacità di rassegnarsi di fronte all'evidenza della propria fragilità: un soldato come lui, un medico, abituato ad essere d'aiuto agli altri, ad occuparsi degli altri e delle loro debolezze, mai si era piegato per via delle proprie ferite, il che ha sempre reso qualsiasi tentativo di riconciliazione con sé stesso totalmente inutile. Magari è per questo che è sempre andato così d'accordo con Sherlock...
«Pensaci. Davvero» aggiunsi, voltandomi verso il detective. «E poi valuta tu»
Lo salutai con una leggera stretta attorno al braccio, per poi avviarmi verso John, svelta. Era rimasto solo, in mezzo al prato, mentre il resto dei partecipanti iniziava a disperdersi attorno a lui, come sciacalli che si allontanano da una carcassa ormai spolpata fino all'osso. Immobile, svuotato, s'era posizionato di nuovo di fronte alla lapide di Mary, ad osservare due becchini che cercavano di dare un aspetto migliore alla sepoltura dalla terra ancora smossa. Gli poggiai una mano sulla spalla, per attirare la sua attenzione, e lui infatti si girò verso di me, ma non disse nulla, né accennò a nulla, nemmeno un sintomo di stanchezza. Niente. Capii subito cosa non andava, e lo capii leggendo all'interno del suo sguardo gelido e collerico.
Distolsi gli occhi dai suoi, li portai davanti a me, verso Mary, e subito dopo lo fece anche lui, cercando, forse come me, la sua figura ergersi dall'erba pronta ad aiutarci, come faceva sempre.
«Era suo diritto venire, John» azzardai poi a dire, dopo un minuto o due di puro silenzio. «Era anche sua amica»
«Se lo fosse stata, avrebbe fatto di tutto per impedire che accadesse... Questo» rispose però lui, con tono velenoso, non riuscendo ancora a nominare la morte.
«Non puoi saperlo, non eri presente quando...»
«È indifferente! Mary non c'è più, ed è questo che conta. Non c'è più per colpa sua!»
«John...»
«Cosa, vuoi proteggerlo ancora? Eppure non sembravi così incline al perdono quando c'eri tu di mezzo!»
Trattenni per un attimo il respiro, non sapendo bene come ribattere. Alla fine, non era così in torto, nell'accusarmi di certe prese di posizione: tutti pecchiamo di presunzione e spietatezza, severità, ed io non sono stata da meno, proprio come lui.
«Anche Sherlock sta soffrendo» balbettai infine, cercando di rimanere ferma sulla mia posizione, ma senza la convinzione testarda che avrei voluto avere, e che mi sarebbe servita, in tale circostanza, ma che avevo messo da parte per intraprendere da tempo la filosofia del "lasciar perdere".
«E come puoi dirlo? È la persona più anaffettiva ed inespressiva che abbia mai avuto la sfortuna di conoscere»
«In questo non siete poi così diversi...»
John si lasciò sfuggire una leggera e sarcastica risatina, che accompagnò il movimento disapprovante che fece con la testa. «Certo...» bofonchiò infine, senza perdere il suo ghigno.
«Ti sei chiuso in te stesso, John! Nemmeno mi guardi più in faccia, nemmeno...»
«E cosa dovrei fare, secondo te?!»
«Parlami, John!»
Gridai, in mezzo al silenzio lasciato dal vuoto, lasciato dalla morte, ancora innominabile persino tra noi, che con la morte abbiamo avuto a che fare più di chiunque altro. Gridai in mezzo al dolore e in preda ad esso, con le lacrime agli occhi, piene di frustrazione.
«Parlami, ti prego...»
Cercavo inutilmente di guardarlo negli occhi, ma più ci provavo e più le lacrime me lo impedivano. E lui, al contrario mio, nemmeno ci provava, a voltarsi. Strinse solo i pugni, poi la mascella, e respirò a fondo.
«A che scopo?» chiese infine, indifferente di fronte ai miei disperati tentativi di aiutarlo. «Non capiresti...»
E, improvvisamente, la mia frustrazione crebbe, prima piano, per via dello sbigottimento, e poi veloce, fino a diventare rabbia. Rabbia per non venire considerata, per venire sottovalutata, per veder sminuito il mio dolore per l'ennesima volta, per venir giudicata a causa delle mie scelte in merito alla parte con cui mi sarei schierata, per essere vista come una nemica e sentirmi rifiutata nella mia volontà di aiutare. Rabbia, e dolore, che venne amplificato fino a farmi uscire ancora più lacrime.
«Io non capisco?!» presi a gridare, spintonandolo per una spalla e costringendolo finalmente a voltare lo sguardo verso di me. «Io, John?!»
Non so se sia stato per il mio repentino cambio di tono nella voce o per quel gesto fisico tanto aggressivo, ma il dottore, per la prima volta dalla morte di Mary, mi guardò con espressività. E fu così strano vederlo con finalmente delle emozioni dipinte sul volto che non seppi quasi riconoscergliele: sorpresa, indignazione, fastidio? Forse si trattava solo di un miscuglio di tutte e tre a rendere tanto confusionario quel che gli apparve sul viso.
«Come cazzo puoi dire una cosa del genere, eh?» continuavo ad urlare, senza però toccarlo più, tanto lontano lui era andato per ripararsi da me. «Come puoi anche solo pensare una cosa del genere di me, dopo tutto quello che ho passato con la morte di Sherlock?»
«Almeno lui non era morto davvero!» provò a ribattere, alzando la voce.
«Però io lo credevo, John! Ero incinta, in depressione, sola e volevo solo morire! Come puoi averlo dimenticato? Come?!»
Lui rimase immobile senza rispondere, e per un attimo quasi credetti che si fosse convinto che avevo ragione. Ma sbagliavo, e me ne accorsi quando la sua espressione stupita lascò presto il posto a quella fredda che ormai riserbava a tutti da settimane. Sferrò un ultimo, brutale attacco, che stavolta lasciò me immobile e stupita.
«Almeno tu non sei stata costretta a spiegare a tuo figlio che fine avesse fatto suo padre»
Se ne andò, senza salutarmi, senza aggiungere altro, senza niente. Avrei dovuto arrabbiarmi, strillare, corrergli dietro e provare a farlo rinsavire, ma non lo feci. Cercai di proteggerlo dalle mie stesse reazioni, dalla voglia che avevo di condividere un dolore assai più grande di me.
Rimasi ferita e sola, e mi dissi che forse John non era soltanto arrabbiato, o triste. Mi dissi che queste sue reazioni fossero dovute alla preoccupazione che provava, alla paura che aveva, come non ne aveva mai avuta prima. Si trovava sul bordo del precipizio, salvo per un pelo, a vedere il resto della propria vita rotolare verso terra, a centinaia di metri da lui, fino a sfracellarsi e rompersi al suolo senza alcuna possibilità di salvare nulla. Temeva di restare solo, di non aver nessuno che lo aiutasse a ricostruire tutto a partire da zero, da quello stesso terreno sul quale era finito tutto il resto.
Anche Sherlock è così, e tutto questo dolore non fa altro che dimostrarmelo. Anche lui ha smesso di guardarmi, mentre io osservo il suo profilo illuminato dalle luci del London Aquarium, la testa ben dritta e alta, le spalle larghe, e mi chiedo come faccia. Come faccia a non mostrare e dimostrare quello che sente, come faccia a non chiedere aiuto.
Sherlock, proprio come John, proprio come me, si è ormai abituato a confondere l'essere soli con l'essere solitari, perché in fondo sempre di assenza degli altri si tratta. Pur di proteggere il nostro ego, abbiamo sempre presupposto che la nostra solitudine fosse frutto di una scelta, della nostra tendenza ad essere solitari. Ma se solo avessimo scoperto prima i benefici dell'aiuto altrui, probabilmente avremmo imparato molto prima a non farne mai a meno. Eravamo soli, e per molto lo siamo stati perché volevamo anche essere solitari, contare solo su noi stessi. Immagino sia una tendenza piuttosto diffusa, quella di confondere l'essere solitari con l'essere soli. Lo fanno tutti, e a ragione: chi mai ammetterebbe, e accetterebbe, il fatto di non avere nessuno dalla propria parte?
Con il passare del tempo si impara a stare da soli perché si è soli, ed è così che la solitudine diventa un'abitudine più facile da mantenere che da spezzare. Eppure a volte basta poco, così poco, per rendersi conto di stare bene pure insieme agli altri, per far diventare anche loro una consuetudine dolorosamente difficile da mantenere. Perché stare insieme non dipende solo da sé, diventa un gioco di squadra, una danza dove uno chiama e l'altro risponde, a turno. Ci vuole fiducia, e non tutti sono disposti a darla per sempre.
Cosa succede allora quando uno chiama e l'altro non risponde? Si torna alla solitudine, ci si nasconde? Oppure si inizia a cercare?
Questa è la vera scelta, ed io lo so fin troppo bene. So quanto sia difficile, a volte, ritrovarsi davanti ad una scelta del genere, perché il canto della sirena è forte, specialmente nei momenti di vulnerabilità che attirano verso il baratro della solitudine. È difficile scegliere di resistervi, tanto quanto lo è uscirne fuori.
«Sherlock, io...» inizio, sussurrando. «Io sono preoccupata. Per lui e per te. Però non so davvero cosa fare, siete entrambi così scostanti e orgogliosi...» Sospiro, distogliendo infine gli occhi da lui, facendoli tornare su Aden. «Non chiedereste aiuto nemmeno in punto di morte»
Il suono flebile di un sorriso sfugge appena dalle sue labbra. Un attimo solo, prima di farsi ombra e sparire sul suo volto scuro.
«Lo credeva anche Mary» risponde allora. «Siete tutte e due così sentimentali»
«Sì, tanto quanto tu e il tuo amico siete cocciuti» ribatto, voltandomi di nuovo verso di lui. Sherlock continua a non guardarmi. «Almeno ci stai andando in terapia?»
Lui rotea gli occhi, infastidito. «Sì»
«E come va?»
«Mi dice cose ovvie. Che sono ancora in lutto, che sto ancora realizzando...» risponde, con una smorfia infastidita. «Non funziona, come metodo»
«Ci vuole del tempo»
«Io non ho tempo, Jane. Specialmente per queste cose»
«E chi ti corre dietro?»
«Devo essere efficiente. Ho i miei casi, e poi...» Si ferma. Mi guarda.
«Cosa?» chiedo allora io.
Aspetta un po' prima di continuare. Come se stesse valutando se andare avanti, dirmi cosa succede. Come se stesse decidendo se coinvolgermi o meno.
Non so cosa lo convince, ma alla fine si infila una mano nella tasca del cappotto nero e ne tira fuori un DVD bianco, una sola scritta ad etichettarne il contenuto.
"Miss me?"
Spalanco gli occhi. «Ma cosa...»
«Me lo ha lasciato Mary. Prima di...»
Non termina la frase. Deglutisce, mandando giù la parola che più di tutte è abituato ad usare, il concetto per il quale a volte si sente vivo, ma non adesso. Non adesso che in gioco c'è chi conta davvero per lui.
«Beh, sapeva come attirare la mia attenzione» prova a sdrammatizzare.
«Ma che cos'è?»
«È una specie di testamento. Sapeva che qualcosa sarebbe potuto andare storto, e ha deciso di... Tenersi avvantaggiata»
Si ferma di nuovo, passando lo sguardo dal DVD tra le sue mani a Aden ancora preso dai colori della fauna marina che lo circonda.
«Lo hai visto?» mi azzardo allora a chiedere.
Lui, senza guardarmi, annuisce.
«E cosa dice?»
Non risponde. Riprende a camminare dietro a Aden, rimettendosi il DVD in tasca. Fa un passo, apre la bocca, ne fa un altro, la richiude. Cerca le parole, quelle efficaci, quelle che vadano dritte al punto. Mi stupisco che non riesca a trovarle così facilmente, ma presto mi rendo conto che è la cosa più logica, più naturale, più umana.
«Quello che dici tu» risponde alla fine, girandosi verso di me. «Di salvare John Watson»
Adesso ha trovato le parole, quelle più adatte, per illustrarmi il piano di Mary senza travisarne il contenuto né gli intenti. Mi spiega che ha intenzione di mettersi in un pericolo tale da convincere John ad accettare un riavvicinamento, che sta cercando solo di capire come, perché "l'unico modo per salvare John è permettere che salvi te", o così Mary sembra aver affermato nel suo testamento. Mentre me ne parla, con una calma e una lucidità spaventose, mi rendo conto di quanto simili siano, Mary e Sherlock. Entrambi così intelligenti, così precisi, così imbattibili nel creare piani contorti per salvare gli altri. Capaci di calcolare ogni dettaglio, ogni possibile imprevisto, con una cura maniacale, tanto da sembrare folli, agli occhi di chiunque li senta parlare.
«È una pazzia, Sherlock» scuoto la testa con veemenza, in segno di disapprovazione, una volta finito di ascoltarlo.
«Nessuno meglio di Mary sa quanto John sia totalmente incapace di affrontare il dolore»
«Quindi cosa? Pensi che mettersi in combutta alle sue spalle potrebbe aiutarlo?»
«Hai altre idee?»
«No, ma...» rispondo, balbettando. «Come pensi di riuscire a metterti in pericolo?»
Stavolta mi guarda, ma non risponde. Mi lancia un'occhiata criptica, che sembra dirmi di leggere tra le righe, di trarre da sola le mie conclusioni. E infatti mi basta poco per capire. Mi basta guardarlo attentamente negli occhi per capire. Le pupille dilatate, la sclera rossa, l'oscurità delle occhiaie...
«Oh, Dio...»
«Oh, ci hai messo poco» fa lui, fintamente sorpreso.
«Quindi è vero?» gli chiedo, allarmata. «Hai ricominciato con l'eroina?»
Non risponde. Come se non ammetterlo ad alta voce lo renda in qualche modo meno vero.
«Sherlock?»
«Jane, ascolta...»
«Rispondimi!»
Se solo potesse, so che non lo farebbe, che non lo ammetterebbe mai. Non con me.
«Ho dovuto»
«Hai dovuto?» ripeto, sarcastica. «Certo. E da quanto va avanti questa cosa?»
«Io...» balbetta. «Non ne sono sicuro»
«Che cosa significa che non ne sei sicuro?!»
«È difficile tenere conto dello scorrere del tempo quando...»
«Ma perché cazzo lo hai fatto?» lo interrompo, ormai fuori di me. «Non c'era un altro modo, uno più semplice? Perché devi sempre complicare le cose?»
«Perché è l'unico modo che ho per salvare John!» ribatte lui, adesso alzando un poco la voce. «Io non sono capace con le persone, lo sai tu come lo sapeva Mary. Non ho alternative, Jane, è tutto ciò che posso fare per farmi ascoltare da lui»
Ci guardiamo dritto negli occhi, senza batter ciglio. Come fossimo entrambi troppo spaventati per dire qualcos'altro, una cosa qualsiasi.
Passa qualche secondo, forse nemmeno uno. Irrigidisco la mascella, mi tiro su con la schiena. «Lasciami aiutare» gli chiedo, con fare convinto.
«Assolutamente no» ribatte lui, voltandosi di scatto e riprendendo a camminare.
«John è amico tuo quanto mio!»
«È troppo pericoloso, Jane!»
Adesso sì che grida. La sua voce, prima solo un po' alterata, si fa impaziente, irritata, quasi arrabbiata. Ci sono così tante emozioni, in lui, che non riesco a capirle. Si accavallano e soffocano a vicenda, nell'urlarle tutte insieme attraverso il suo volto e la sua voce.
«Tu non sai come sono al mio peggio. Non mi hai mai visto, non ho mai permesso che accadesse»
Come resosi conto che qualcosa non va, che ha lasciato andare troppo la corda, abbassa il tono, alza il mento, nel tentativo disperato di ridarsi un contegno.
«Sono un pericolo, per te, per Aden... In questo momento più che in tutti gli altri» dice ora, e già quel contegno si perde, tra le altre emozioni che lascia uscire fuori senza una logica, né un ordine.
«Sherlock...»
«Hai visto cosa è successo a Mary? Hai visto come non sono riuscito a salvarla?»
«Sherlock...»
«Io dovevo salvarla, lo avevo promesso, io...»
«Sherlock...»
Gli prendo il viso tra le mani e lo costringo a guardarmi. Lui respira veloce, agitato, ancora più veloce. Poi si calma. E solo allora continuo.
«Non devi fare tutto da solo. Ti prego, Sherlock, non fare come l'ultima volta, io voglio aiutarti. Ti prego, fidati di me...»
Sherlock mi guarda. Restiamo a fissarci negli occhi, e per la prima volta lo vedo fragile, e spaventato, e forse non sono mai stata tanto vicina al suo lato più intimo e oscuro. Quello che nessuno è mai riuscito a vedere, né tantomeno a toccare, pur avendo sempre avuto l'intuizione che ci fosse, da qualche parte, all'interno della sua anima piena di cicatrici segrete.
Lo vedo fragile, spaventato, e il mio istinto mi dice di farmi avanti per aiutarlo, ma lui non è così arrendevole. Lui intuisce le mie intenzioni, e mi anticipa subito.
Scuote la testa, prima di parlare. «Non posso più farti rischiare così» Poggia le sue mani sulle mie, per toglierle dal suo viso. «Mi hai chiesto più volte di non coinvolgerti, per Aden. È tempo che io cominci a farlo»
Fa un passo indietro, pur continuando a guardarmi. E dal suo sguardo capisco la sua totale irremovibilità.
Si gira verso Aden, che a sua volta guarda noi, attento e confuso.
«Che c'è?» chiede.
Sherlock sorride. «Non vedi? Io e tua madre discutiamo come sempre»
«È perché devi andare via?»
Il detective rimane interdetto per un secondo, ma uno soltanto. Poi si inginocchia accanto a Aden e annuisce di nuovo. «Purtroppo sì» risponde, senza sorridergli. «Cosa vogliamo fare la prossima volta che ci vediamo?»
«Non so, decidi tu»
«Okay, allora ci penso e ti dico»
«Quando ci vediamo?»
Sherlock si gira verso di me, che li guardo, una scena che vorrei poter congelare per sempre, mettere sotto una campana di vetro e non toccare mai più. Lui lo vede, che sto cercando di trattenere le lacrime: l'ho fatto così tante volte che ormai ha imparato come individuarne i segnali. Risponde, ma continua a guardare me, serio.
«Presto»
Sapendo benissimo che la sua sarà una bugia.
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