{64° Capitolo}
"Nobody said it was easy,
it's such a shame for us to part.
Nobody said it was easy,
no one ever said it would be this hard.
Oh, take me back to the start."
-Coldplay, "The Scientist"
[Capitolo sessantaquattro]
Jane
Terzo Natale in casa Holmes, e comunque tutto continua a sembrarmi come nuovo: le decorazioni rosse, la tavola apparecchiata a puntino, il fuoco che arde nella vecchia stufa e il profumo di dolce, caramello e cioccolato, e di pane ancora caldo di forno. Prendo una bella annusata e poi rituffo le labbra nella mia tisana allo zenzero, contenta che il raffreddore stia guarendo tanto velocemente.
«È così bello tornare a sentire gli odori!» esclamo, con fare entusiasta.
«Soprattutto a Natale» concorda Mary, seduta su una poltrona accanto alla mia, una coperta di lana ed una tazza di tè a riscaldarla. «Quando persino a Londra le strade profumano di buono»
«Già» sorrido io, prima di prendere un altro sorso. «Comunque... Helen ha fatto una scelta coraggiosa, a lasciare il lavoro per i figli» riprendo il discorso, accennando al libro di matematica scritto dalla madre di Sherlock, e che ora Mary sfoglia con interesse.
«Oh, sì» Carlton annuisce, inserendo un pezzo di legno nella stufa accesa. «Lo penso anche io. Le avevo proposto di continuare lo stesso, ma...» Si tira su, voltandosi poi verso di noi per rivolgerci un sorriso gentile. «Non sono mai riuscito a discutere con lei. Io sono una specie di idiota, lo ammetto. Ma lei è... Incredibilmente sexy»
«Oh, mio Dio, Carlton!» ridacchio, con tono leggermente disapprovante.
«Lei è l'unico sano, vero?»
L'uomo guarda Mary, con occhi furbi che poi rivolge anche a me. «Voi no?»
I nostri sorrisi scompaiono in un istante, una veloce occhiata passa da me a Mary in meno di un secondo.
«Si può dire...»
Mormoro appena, più forte comunque del rumore metallico della porta alle spalle di Carlton, quella che dà sul vestibolo, che si apre, cigolando sui cardini. Attira l'attenzione di tutti e tre e la distoglie allo stesso tempo, quando sulla soglia appare John, come di fretta, impaziente per qualcosa. Tra le braccia tiene Aden, che si guarda attorno con fare incuriosito.
Mary torna a leggere, sfogliando le pagine de "La dinamica della combustione" più velocemente del tuffo che deve aver fatto il suo cuore.
«Scusate, io...» John comincia e subito si ferma. Guarda Mary, poi Carlton, poi me.
«Beh... Volete rimanere soli?» chiede il vecchio Holmes, già avviandosi verso la porta.
«Se non le dispiace» aggiunge l'altro, imbarazzato.
«No, certo che no. Vado a vedere se posso essere... di aiuto altrove»
«Oh, vengo con te» mi affretto ad alzarmi dalla poltrona, trascinandomi dietro la coperta che ho posata sulle spalle. «Vedo se Helen ha ancora un po' della sua tisana allo zenzero» Mi avvicino a John, che mi passa Aden con un gesto automatico, quasi distratto, lo sguardo ancora rivolto a Mary. «Andiamo a giocare di là, che dici?»
Ci chiudiamo la porta alle spalle, ritrovandoci nel vestibolo, dove Sherlock è intento ad indossare il proprio cappotto, pronto ad uscire nella fredda aria di fine dicembre. Lo supero, dopo esserci scambiati un brevissimo sguardo, dirigendomi quindi verso la sala da pranzo, a destra rispetto all'ingresso principale, e poso Aden sul tappeto, dove sono disordinatamente sparsi i suoi giochi colorati. Rimango in piedi.
«Tra quei due...» chiede poi Carlton. «Va tutto bene?»
Mi volto, e per la prima volta riesco a vederli, padre e figlio, insieme, faccia a faccia.
«Beh, sai...» risponde Sherlock. «I soliti alti e bassi»
Distolgo lo sguardo e mi stringo ancor di più nella coperta. La porta si chiude, Sherlock esce, io respiro.
«E tra voi?»
Alzo gli occhi, di nuovo verso l'ingresso, verso Carlton che mi sorride.
«Anche tra voi ci sono degli alti e bassi?»
«Oh, sai... Le solite cose» ridacchio io, stringendomi nelle spalle. «Lui va in giro, risolve casi, si fa sparare, ed io... Beh, mi spavento tutte le volte»
«È sempre stato amante del pericolo»
«Sprezzante, vorrai dire» lo correggo io, con un verso di disappunto, e un sospiro. «Davvero, Carlton, a volte non sembra nemmeno rendersi conto di quanto rischi. E io so che arriverà un giorno in cui si spingerà tanto oltre da non poter più tornare indietro, e...»
Ferma, respiro. A fondo, fino a far passare l'aria in ogni centimetro di polmone, e piano chiudo gli occhi per meglio concentrami sul flusso dell'ossigeno che mi attraversa il petto.
«E io vorrei solo...» Inizio e mi fermo di nuovo, mi siedo sul divano rosso della sala da pranzo, mi stringo ancora nella coperta e sospiro. «Vorrei solo che capisse che anche avere una vita normale va bene. Che non è necessario mettersi tanto in pericolo»
«Oh, lo so» Carlton annuisce, gli occhi che mi danno ragione. «E, credimi, è quello che vorremmo anche io e sua madre» aggiunge poi, sedendosi accanto a me. «Sappiamo bene quanto sia complicata e frustrante una situazione del genere, soprattutto con una persona come Sherlock. Però, se la cosa può esserti d'aiuto, io sono convinto che tutto troverà il proprio posto, alla fine» Mi poggia dolcemente una mano sulla spalla, in un modo che definirei paterno, forse perché è l'unico padre che con me si sia effettivamente comportato da padre. «Andrà tutto bene, Jane. Dovresti essere fiera di dove tu sia arrivata»
«Oh, sì, questa è un'altra storia!» sbuffo, ridendo appena, ironica. «Uno dei tanti casini...»
«Che vuoi dire?»
Scuoto la testa, stringendo forte il manico della tazza ormai vuota. «Ogni tanto mi chiedo se abbia fatto bene, a scegliere di essere normale, rinunciare a tutto quello che avrei potuto avere... Come ha fatto Helen»
«Se per te era la cosa giusta da fare, allora non vedo perché dovresti pensare di aver sbagliato» risponde lui, con una scrollata di spalle. «Anzi, io credo che la tua scelta sia stata ammirevole, ed altruista»
Lo guardo per tutto il tempo, mentre mi confessa l'opinione che ha di me, delle mie decisioni. E, non appena finisce, abbasso gli occhi, prima sulla tazza ancora stretta tra le mie mani, e poi su Aden. Gioca, indifferente, perso con sé stesso in un mondo suo, dentro cui non potrei mai entrare, ma che cercherò in ogni modo di proteggere e preservare, con ogni mio mezzo.
«Io... Non potevo rischiare tanto...»
«Lo so, per questo dico che hai fatto bene. E anche Sherlock, per quanto possa cercare di nasconderlo... Anche lui crede che tu abbia fatto bene, ne sono convinto»
Alzo di nuovo gli occhi per puntarli di nuovo nei suoi, scuri, tanto diversi da quelli del figlio, e da quelli di Aden. Eppure, in loro rivedo molto di Sherlock: determinazione, sicurezza... Forse addirittura bontà nascosta.
«Tu credi?»
«Ma certo!» Sorride, radioso, allargando le braccia. «So che spesso può sembrare spericolato, e totalmente noncurante, ma se c'è una cosa che conosco di mio figlio è che non agisce mai per improvvisazione, sa sempre quello che fa. Bisogna solo... Avere fiducia in lui»
Fiducia...
Con Sherlock ce ne serve parecchia, di fiducia, e spesso è l'unico motivo per cui lo seguo in praticamente ogni cosa che fa: perché ho fiducia. Mi sono sempre fidata di lui. E fin troppe volte mi sono ritrovata a cercarne le ragioni più remote, e a chiedermi persino se, alla fine dei conti, ne valesse davvero la pena.
•••
«Mi ha chiamato»
«Cosa?!»
«Dice di trovarsi in un posto qui vicino. Ti do l'indirizzo, così vai a vedere di che si tratta»
«No, John, credo che sia meglio che vada tu. Se ha chiamato te, un motivo ci sarà»
John sospirò, secco, e per un secondo mi parve che il suo fiato avesse attraversato il telefono, fino ad arrivare al mio microfono. «Tu credi?»
«Ne sono certa. Lascia pure Aden alla signora Hudson. Io sarò a Baker Street tra un quarto d'ora»
Abbassai il cellulare, premendo svelta il tasto rosso con un dito tremante. Sospirai, alzando gli occhi dallo schermo già nero, mi misi a guardare Sherlock, seduto sulla sedia a rotelle, accanto a me. Aveva le palpebre chiuse e un'espressione sofferente, il volto già emaciato di chi, a vista d'occhio, perde liquidi ed energie. Tra le mani teneva stretto il suo, di telefono, con lo schermo ancora acceso sulla rubrica. Lessi in fretta il nome in cima alla lista, prima che anche quello diventasse nero.
CALL TO: JOHN
«Resto con te»
«No, devi andare. John sarà qui a momenti»
Lo disse senza nemmeno aprire gli occhi, senza nemmeno guardarmi. La testa reclinata all'indietro, il respiro a dir poco irregolare, pesante. Mi guardai attorno, facendo saltare lo sguardo da una parete all'altra del claustrofobico corridoio che divideva i binari del treno dalle facciate dei numeri 23 e 24 di Leinster Gardens. "Le Case Vuote". Muri dipinti di finzione, che reggevano ancora solo grazie alla loro estetica. Non perché utili, ma perché belli. Per salvare le apparenze.
Il corridoio non era esattamente il posto più salubre dove portare un uomo scappato d'ospedale, date le molteplici chiazze di muffa, gas di scarico dei treni ed umidità asciugatasi sui muri una volta bianchi, sul pavimento di cemento. Ma Sherlock aveva insistito nello scegliere quei due numeri civici come palcoscenico del suo teatrino, e me ne aveva anche spiegato il perché: salvavano le apparenze, come Mary. Erano una facciata, nascondevano altro, tanto altro, proprio come lei. Servivano ad altro.
«Perché, perché non è venuta da me prima? Perché ha agito da sola?»
Non riusciva a capacitarsene, nemmeno per un secondo. Tutte le volte che il discorso veniva anche solo sfiorato, e mi azzardavo a chiedere per quale motivo credesse che Mary avesse agito in quel modo, mi rispondeva col dirmi che non ne aveva idea. E poi si perdeva nelle sue, di congetture. Se aveva bisogno di aiuto, perché non lo aveva chiesto a lui? Perché non gli aveva chiesto di collaborare? Pensava che l'avrebbe tradita? Perché non si era fidata? Forse, non riusciva a rendersi conto che lui è una delle persone più difficili di cui fidarsi: non tutti ragionano come John, dopotutto.
«Non posso lasciarti da solo, Sherlock» ripresi, con tono risoluto. «Stai peggiorando a vista d'occhio»
«C'è Wiggins a farmi da guardia»
«Non mi fido di lui»
«Allora non ti fidi di me»
Prese un respiro ed aprì gli occhi, più grigi del solito, più freddi di quel vicolo umido, della sua pelle bianca. Mi guardò, altezzoso, sicuro di potermi convincere come sempre. Convincermi a dargli retta, a non interferire con i suoi piani. E solo nel guardarlo capii di non potere niente, come al solito.
Sospirai. «Va bene» risposi alla fine, muovendomi di un passo verso l'entrata del corridoio. «Però promettimi una cosa: se qualcosa va storto, qualsiasi cosa... Promettimi che ti farai portare immediatamente in ospedale»
Lui rise, richiudendo gli occhi, scacciando il dolore con le labbra tirate all'insù. «Oh, andiamo!» disse, dopo qualche secondo, la voce roca e flebile. «Sono sopravvissuto ad un suicidio e ad una sparatoria. Cosa sarà un'emorragia interna e qualche fluido perso?»
«Promettilo, Sherlock, o lo faccio io»
Allora distese la bocca, aprì di nuovo gli occhi, la testa poggiata sul muro dietro alla sedia. Mi guardò. Guardò il mio indice puntato contro di lui, il mio sguardo severo da madre preoccupata, la mano che tremava ancora per la tensione. E poi sorrise, ancora una volta.
«D'accordo»
Promise, anche se non con la formula solita, se non apertamente. Promise, a modo suo, e solo perché non aveva altra scelta, e perché dire di no gli avrebbe fatto perdere ancora più forze.
Abbassai il dito, annuii, e poi me ne andai, senza aggiungere altro. Ma solo perché io, al contrario di Mary o di chiunque altro, di lui mi fido ciecamente.
E sempre e solo per questo motivo tornai a Baker Street, dove trovai la signora Hudson a vegliare su Aden, addormentato nel suo lettino in quella che, una volta, era stata la camera di John. Mi spiegò che Sherlock aveva chiamato l'amico, e che lui si era subito precipitato a cercarlo, lasciando a lei il compito di controllare Aden fino al mio ritorno, come gli avevo chiesto di fare.
«Però...»
Alzai lo sguardo verso di lei, mentre mi sfilavo il mio giacchetto di jeans per posarlo sul bracciolo del divano.
«Cosa?»
«Non so, aveva un'aria strana, John... Come se fosse preoccupato per qualcosa»
«Sherlock è scomparso, siamo tutti preoccupati»
«No, no... Era diverso. Sembrava preoccupato per qualcos'altro, come per un pensiero. Mi capisce, Jane?»
Elusi la domanda, forse nemmeno in maniera troppo velata. Perché capivo, certo che capivo. Riuscivo perfettamente a figurarmi la preoccupazione di John, il suo sguardo strano, perché avrei scommesso l'anima nell'affermare che erano gli stessi miei.
Ci mettemmo in attesa, la signora Hudson a preparare una tisana in cucina, io a camminare avanti e indietro sul tappeto del salotto. I minuti scorrevano lenti, e più lentamente passava il tempo e più la mia ansia cresceva, ostruendomi piano il petto, riempiendo lo spazio in mezzo alle costole. Riempiva anche lo spazio della stanza, mentre camminavo lentamente, torcendomi le mani. Sottovoce contavo i secondi passare, e l'ansia aumentare. Nonostante ci provassi, a restare calma, proprio non ci riuscivo. Sapevo come sarebbero andate a finire le cose, nonostante le rassicurazioni di Sherlock, la sua convinzione nei confronti del proprio successo. Io mi aspettavo solo tanta rabbia, tante urla, tanti cuori infranti.
Quando sentii scattare la serratura della porta principale, al piano di sotto, mi bloccai, e così fece il mio respiro. Rimasi immobile, gli occhi spalancati rivolti alla finestra. Mi girai solo quando i passi veloci che salivano le scale si arrestarono sul pianerottolo, ma non riuscii a mantenere un contatto visivo per più di due secondi. Non con John, e la delusione già dilagante nella sua espressione.
«Oh, tu lo sapevi» mormorò, senza nemmeno troppa enfasi. Forse se lo aspettava pure. «Eri parte di tutto questo»
«Mi dispiace...»
Avrei voluto dirgli di più, lo ammetto. Ma non sapevo proprio da dove cominciare, che cosa dire per prima. Lasciai solo che la mia voce si rompesse, i miei pugni si chiudessero, che la mia testa, scuotendosi, provasse anche solo a rinnegare il dolore inflitto a John, e che avrei volentieri evitato in qualsiasi modo.
Perché, sì, ero di nuovo parte dell'ennesimo disastro, l'ennesimo caso da risolvere, e non avevo nemmeno provato a sottrarmi, ad evitarlo. Ci ero finita dentro, e adesso ne ero parte quanto gli altri. Quanto Mary, quanto Sherlock, quanto John, che vi si era ritrovato senza neanche volerlo. Lui, che più di tutto voleva una vita normale, una casa in periferia, un matrimonio felice... Si è ritrovato sposato con Mary Morstan, una spia.
Ci ha provato, e non ci è riuscito, ad essere qualcos'altro. Ancor meno di me. Spesso e volentieri, forza d'animo e determinazione non bastano a vincere certe inclinazioni, e persino Sherlock si era premurato di farglielo presente. Fargli presente che, nonostante tutto, John aveva scelto Mary, aveva scelto quello stile di vita, e che era ormai diventato parte di lui, parte della sua stessa pelle, un tatuaggio indelebile, eppure invisibile.
E allora io come avevo fatto? Come ero io riuscita ad allontanarmi tanto, uscire da un tale "giro", e comunque non potendo fare a meno di ritornare a farne parte? Come, perché?
«Perché è qui che siedono quelli che vengono a raccontarci le loro storie. I clienti, e ora lo sei anche tu, Mary, una cliente. Tu ti siedi qui e parli, e noi ci sediamo lì e ascoltiamo. E poi decidiamo se accettare il caso o no»
Alla fine, Sherlock aveva ottenuto ciò che voleva: un caso. Il caso di Mary, per provare ad aiutarla. È quello che fa, d'altronde, quello che fanno entrambi. E, per qualche ragione, era qualcosa che dovevo fare anche io.
John, infatti, non sedette alla propria poltrona, dopo aver ordinato a Mary di fare lo stesso su una sedia del tavolo, posizionata nel solito posto, quello dei clienti. Rimase in piedi, invece, si girò e prese un'altra sedia, che poi posizionò con forza al alto opposto, di fronte al camino: la mia postazione di più di tre anni fa.
«Siediti» mi ordinò poi, indicandola. «Sei parte di questa faccenda quanto noi»
E allora, solo allora, decise di accomodarsi, pronto ad ascoltare. Sherlock, ancora più emaciato e visibilmente indebolito rispetto a come lo avevo lasciato, lo imitò, riempiendo in passi piccoli e lenti la distanza che lo separava dalla propria poltrona. Feci lo stesso, in fretta. Mary fu l'ultima a sedersi, e quando me la trovai davanti agli occhi mi sentii così colpevole, la peggiore delle traditrici.
La prima cosa che fece fu tirare fuori una chiavetta USB da una tasca e posarla sul tavolo accanto a lei. A.G.R.A., le sue iniziali, erano scritte con un pennarello nero lungo la superficie argentea. Tutta la sua vita segreta in una manciata di file sopra ad un tavolo. La consegnò a John, con una richiesta.
«Se mi ami, non leggerlo davanti a me»
«Perché?»
«Perché non mi amerai più, quando finirai. E io non voglio essere presente quando accadrà»
John la guardò un secondo, prima di afferrare quel minuscolo pezzo di metallo e nascondersela nel fondo di una tasca, con chissà quali intenzioni future. Quei pochi gesti mi fecero temere di aver distrutto una famiglia.
"La peggior traditrice, pessima amica. Cosa ti rende diversa da coloro che hanno fatto del male a te?"
Mary non ci raccontò molto di sé, oltre al fatto che Magnussen era in possesso di informazioni in grado di mandarla in galera per il resto della vita, e che per questo aveva intenzione di eliminarlo.
Tutto, davvero tutto, mi fece pensare ad una sola parola per descriverla: una mercenaria. Una persona addestrata ad uccidere, senza rimorso, senza alcun bisogno di motivazioni valide o moralmente giuste. Lo faceva e basta, premere il grilletto.
Eppure qualcosa, in me, non voleva crederci, che quella fosse la Mary che avevo conosciuto, l'infermiera che aiutava vite, che aveva aiutato me col parto, stringendomi forte la mano. Mary non era quello, non poteva essere solo quello. Mary non era solo quello.
Ma quando tutto sembrava essersi irrimediabilmente ridotto a brandelli, una stoffa lacerata, Sherlock ci mostrò come ricucirla e rimetterla a posto, farla sembrare come nuova. Disse che Mary gli aveva salvato la vita, decidendo alla fine di non uccidere né lui né Magnussen. E, sebbene conoscessi già quella parte della storia, sentirgliela ripetere mi liberò da un peso enorme che avevo sul petto, e che volò via attraverso un sospiro di sollievo.
«Un unico colpo millimetrico per mettermi fuori gioco, nella speranza di acquistare del tempo per negoziare il mio silenzio. Certo, non potevi sparare a Magnuessen nella notte in cui entrambi abbiamo fatto irruzione nel suo ufficio, tuo marito sarebbe diventato un sospettato, perciò... Hai calcolato che Magnussen avrebbe tenuto per sé il tuo coinvolgimento, senza rivelare l'informazione alla polizia, come lui di solito fa. E sei andata via come sei venuta»
Proprio come nelle più banali storie d'amore, anche per Mary, alla fine, i sentimenti avevano avuto la meglio. E forse è stato un bene che le cose siano andate così. Per tutti.
«Ho dimenticato qualcosa?»
«Come ti ha salvato la vita?» chiese allora John.
«Ha chiamato l'ambulanza»
«Io ho chiamato l'ambulanza»
«Lei l'ha fatto prima. Se avessi aspettato te, sarei sicuramente morto. Il tempo medio di arrivo di un'ambulanza a Londra è...»
Passi di fretta riempirono il breve silenzio che seguì le sue parole. Mi girai verso la porta alla mia destra, assistendo così all'ingresso di due paramedici in divisa catarifrangente, davanti ai quali io e John ci alzammo contemporaneamente.
«Qualcuno ha chiamato un'ambulanza?» chiese uno dei due, un ragazzo che portava in spalla una barella pieghevole.
«Di otto minuti» riprese Sherlock, prima di rivolgersi ai due nuovi arrivati. «Avete la morfina? L'ho chiesta per telefono»
«Ci hanno parlato di una sparatoria!»
«C'è stata, una settimana fa... Ma forse ho un'emorragia interna, potrebbe essere necessario...»
Sherlock provò ad alzarsi dalla propria poltrona, ma non riuscì a fare nemmeno un passo, che le forze gli mancarono, facendolo quasi cadere a terra. John lo resse, Sherlock gli si aggrappò ad una spalla, prima di alzare il capo e guardarlo dritto negli occhi, la pelle del viso madida di sudore, bianca come la nebbia.
«John...» disse, la voce debole e spezzata. «John, Magnussen è molto più importante adesso. Puoi fidarti di Mary. Lei mi ha salvato la vita»
«Ti ha sparato!»
Il detective si sforzò di sorridere, con uno sguardo che avrebbe dovuto dare ragione all'amico. «Hai frainteso il gesto, ti garantisco che...»
Un altro verso di dolore spezzò le sue parole, stavolta più forte, così forte da spezzargli anche l'equilibrio e farlo cadere a terra.
«Sherlock!»
Mi chinai su di lui, accanto ai due paramedici che lo sistemavano sulla barella, gli mettevano la mascherina per l'ossigeno e la flebo per i liquidi.
«Ehi, ehi... Respira, okay? Va tutto bene, adesso va tutto bene, tu respira»
Respirava, piano, e il suo fiato rendeva opaca la mascherina che portava sul viso. Fissava il vuoto del soffitto davanti a sé e continuò fino a quando un sorriso flebile gli sciolse il volto. Si girò verso di me, continuando a sorridere.
«Ti avevo detto che il nostro piano sarebbe andato bene»
•••
In tutti questi mesi, non sono riuscita a fare a meno di chiedermi come sarebbero andate le cose, se anche un solo elemento del piano di Sherlock non fosse andato per il verso giusto. Se Mary si fosse rifiutata di collaborare e lo avesse ucciso lì, a Leinster Gardens, o se John non avesse accettato il caso della moglie, o se l'ambulanza avesse fatto tardi anche di un solo minuto... Chissà, forse le cose sarebbero state diverse, e peggiori. Assai peggiori.
«Uhm...»
Alzo lo sguardo verso Carlton, giusto in tempo per vederlo reggersi la testa con una mano e oscillare lentamente al tempo della stanza intera.
«Tutto bene?» chiedo, posandogli una mano sulla spalla.
«Cosa... Oh, sì, cara, non preoccuparti, è solo...» Prova a sorridermi, ma quello che riesce a tirare fuori è una smorfia indebolita, quasi fragile. «Un colpo di stanchezza, credo...»
«Oh, ma allora sdraiati»
Mi alzo in fretta dal divano, per permettere a Carlton di distendersi e allungare per bene le gambe, poi mi tolgo dalle spalle la coperta e gliela poggio lungo il corpo.
«Oh, ti ringrazio, Jane» biascica di nuovo lui. «Chiudo gli occhi solo per... Cinque minuti...»
Col tono sempre più fievole e baritonale, la voce di Carlton si spegne a poco a poco, facendolo sprofondare piano in un sonno profondo e quasi immediato. Lo guardo dormire per qualche secondo, per poi posargli due dite appena sotto le narici, per controllarne il respiro e giudicare se è effettivamente addormentato. Sento Sherlock spalancare la porta d'ingresso e andare di corsa in salotto, da John.
«Non bere il tè di Mary» dice, affacciandosi appena oltre la porta, per poi tornare nel vestibolo, afferrare la propria sciarpa dall'attaccapanni e dirigersi a passo svelto verso la cucina. «E nemmeno il punch»
Lo seguo anche io, tirando su col naso per via del raffreddore, e lo trovo che controlla il respiro di Helen e Mycroft, proprio come ho fatto prima io con Carlton.
«Sherlock» John arriva di corsa da noi, e guarda l'amico con fare terrorizzato. «Hai appena drogato mia moglie che è incinta?!»
Sospiro, posando la tazza della mia tisana sul tavolo, in mezzo a biscotti, pietanze ancora da finire e arnesi usati a metà.
«Non temere: Wiggins è un eccellente chimico»
«Ho calcolato la dose di tua moglie io stesso» afferma Bill Wiggins, appoggiato al ripiano del lavello, mentre osserva immobile il frutto del proprio lavoro. «Non danneggerà il piccolo. La terrò d'occhio»
«E tu?!»
Alzo gli occhi dal tavolo, li punto su John. Fingo di non capire, anche se dal suo sguardo vedo più di quanto vorrei.
«Io cosa?»
«Perché non sei svenuta come gli altri?»
«Le ho chiesto di controllare il risveglio di tutti insieme a Wiggins. È il loro lavoro di oggi» spiega Sherlock al posto mio, sistemandosi un guanto nero sulla mano sinistra.
«Lavoro?» ripeto io, incrociando le braccia al petto.
«Che cosa hai combinato?» chiede però John, ancora sotto shock, ancora pieno di domande che gli si specchiano negli occhi.
E allora Sherlock guarda lui, poi me, prima di scuotere la testa e guardare il vuoto. «Un patto col diavolo»
Sento un brivido quando lo dice, anche se conosco bene le dinamiche di questa dannata faccenda, e forse anche John, che capisce subito, senza alcun bisogno di ulteriori spiegazioni.
«Oh, cavolo...» Il dottore esce dalla cucina, magari per tornare da Mary, cercare di svegliarla. O forse per svegliarsi lui.
Lo rincorro, anche se mi ritrovo ad essere preoccupata quanto lui, se non di più.
«Sherlock, ti prego, dimmi che non sei appena uscito di senno!» grida poi, fermandosi nella sala da pranzo rossa, i pugni a chiudersi forte, a trattenere tutta la frustrazione.
«Preferisco lasciarti nel dubbio» risponde l'altro dalla cucina, nel suo solito modo sfottente, ironico. Come se fosse tutto un enorme gioco. Come se, di nuovo, non ci fosse niente di serio da rischiare.
«Oh, dannazione...» borbotta di nuovo John, prima di muoversi ancora in direzione del salotto.
«Che vuoi fare?» lo fermo però io, che ormai ho imparato quanto importante sia che ogni elemento di un piano s'incastri alla perfezione ad un altro, per far sì che gli ingranaggi camminino senza ostacoli.
«Quello che vuole fare è una follia!» mi sibila lui, girandosi verso di me in uno scatto. «Te ne rendi conto, vero?!»
«Lo so» gli do ragione, bloccandomi ad appena qualche metro da lui. «Ma non sarebbe la prima volta»
Non dopo Moriarty, o dopo Moran, persino dopo Mary. Ogni piano, sempre, era una follia dalla riuscita improbabile, ai limiti del possibile. Ma non per lui, non per Sherlock.
«Fidati di lui, come hai sempre fatto»
John mi guarda, fisso. Mascella serrata, deglutisce appena, prima di sospirare e lasciar andare i suoi pugni.
Chiude gli occhi, scuote la testa. «Com'è possibile che riesca sempre a convincermi?»
«Beh, Sherlock ha un certo fascino, lo sai» ridacchio, scrollando le spalle. «Ma se dovessi riuscire a trovare una risposta, fammelo sapere: almeno capirò dov'è che anche io sbaglio»
Mi avvicino un po' a lui, e lui però non si muove. John resta lì, e mi guarda. Poi sorride appena, e scuote di nuovo la testa.
«Eppure tu ci sei riuscita»
Mi acciglio un poco, piccole rughe che sento ricoprirmi la fronte. «A fare cosa?»
«A rifarti una vita»
Adesso sono io a non muovermi, a guardarlo fisso, ma senza sorridere. Giro lo sguardo verso Aden, a terra che gioca, curioso e attento. Ripenso a quello che ho fatto, in questi tre anni, per cercare la normalità che volevo, quella vita di cui parla John e che ai suoi occhi è tutto quello che lui avrebbe mai potuto desiderare: un figlio amorevole, un lavoro appagante, un appartamento in una piccola città dove potersi spostare tranquillamente in bicicletta. Ma la mia vita è tutto fuorché quello che pensa lui: è stata sempre un disastro, e un po' continua ad esserlo. Ma almeno è normale, anche se a modo mio. Anche se con Sherlock che ogni tanto vi rientra e lascia tutto in disordine. Relativamente normale. Proprio come la sua.
«Ah, il nostro passaggio!»
Io e John alziamo la testa verso il soffitto nello stesso momento, attirati dal fastidioso rumore di aria tagliata da pale che girano veloci e un motore che cammina assordante.
«Un elicottero?»
«Ma cosa...»
John non finisce nemmeno di parlare che subito corre fuori dalla porta, in giardino, senza nemmeno chiudersela alle spalle. Il rumore diventa sempre più forte, così forte che ho l'impressione che quell'elicottero mi cadrà addosso da un momento all'altro. Aden si copre d'istinto le orecchie con le mani e chiude gli occhi, infastidito dal rumore assordante che viene dall'esterno. Mi sbrigo a prenderlo in braccio e a correre fuori, da John che, in piedi accanto allo steccato che delimita casa Holmes, fissa l'enorme velivolo che atterra a qualche decina di metri da noi.
«Non vieni?»
John si gira, guardandosi alle spalle. «Dove?»
«Non vuoi che tua moglie sia al sicuro?» chiede Sherlock di rimando, mettendosi al suo fianco, il cappotto dell'amico in mano e il computer di Mycroft nell'altra.
«Certamente!»
«Bene, perché sarà estremamente pericoloso. Una mossa falsa e metteremo a repentaglio la sicurezza del Regno Unito, finendo in prigione per alto tradimento. Magnussen è semplicemente l'uomo più pericoloso che abbia mai incontrato, e le probabilità sono comprensibilmente tutte contro di noi»
John guarda Sherlock, poi me, poi Aden, poi di nuovo Sherlock. Poi torna verso l'elicottero, aspetta qualche secondo. «Ma è Natale!»
«Sembra anche a me» sorride il detective, sornione, il tono eccitato che però torna neutro nel giro di un attimo. «Oh, vuoi dire che è Natale sul serio» si corregge infatti, velocemente. «Hai portato la pistola come ti avevo chiesto?»
«Perché dovrei portare la pistola per una cena di Natale dai tuoi?!»
Sherlock gli lancia un veloce sguardo con la coda dell'occhio, prima di allungare il braccio verso di lui, la mano a stringere la giacca di John. «Ce l'hai nel cappotto?»
Il dottore la prende. «Sì»
«Allora andiamo»
«Dove stiamo andando?»
«Ad Appledore»
Entrambi fanno per incamminarsi verso l'elicottero. John, però, si ferma dopo aver percorso appena qualche metro, e Sherlock lo imita. Il primo si gira verso di me, ancora ferma davanti al cancello che fa da ingresso al giardino. Mi fissa, come si aspettasse qualcosa da parte mia.
«Tu non vieni?» chiede poi, indicando il velivolo alle sue spalle.
Sorrido. «Non questa volta» rispondo, per poi toccarmi il naso un paio di volte. «Non sono al mio massimo. E poi devo occuparmi di Aden» Mi stringo nelle spalle. «Dovrete fare a meno di me, per questa volta»
«È per questo che non ti hanno drogata come gli altri?»
«Tu ti fideresti a lasciare tuo figlio con Wiggins?»
So bene che il mio, quasi certamente, è un pregiudizio, probabilmente rafforzato dal passato da tossico del nuovo aiutante di Sherlock e dal suo aspetto non proprio rassicurante, ma questa è stata la mia condizione per permettergli di avermi di nuovo come complice. Accettarla sarebbe stato il minimo.
«Scusate» si intromette allora il detective, visibilmente infastidito. «Avremmo un appuntamento, se non vi spiace»
«Non credo che Appledore si autodistruggerà se doveste ritardare di qualche minuto» ribatto io, facendolo sbuffare, voltare, andare via.
Nemmeno ci salutiamo. Loro vanno, io resto, ancora una volta al di fuori delle faccende. Eppure non era proprio ciò che volevo? Restarne fuori, per Aden, per me?
C'è qualcosa che mi è rimasta in gola. Un groppo, un nodo grande e resistente come quello di un cappio per il collo, fatto di corda spessa.
«Sherlock!»
Grido e inizio a riconcorrerlo, in automatico, senza nemmeno volerlo. Perché vorrei che fosse lui a fermarsi, a tornare indietro. Ma ormai ho imparato che non sarà mai così. Che lui potrà anche tornare nella mia vita e poi uscirne per tutte le volte che vorrà: tanto, alla fine, sarò sempre io a corrergli dietro di nuovo, a fare di tutto per rimanere al suo passo.
Lo raggiungo, facendolo voltare appena sotto l'elicottero: le pale si sono fermate, non fanno nemmeno più tanto rumore.
«Sherlock» ripeto, a voce bassa. «Promettimi che non farai pazzie»
Lui mi guarda, forse un po' sorpreso. Perché gli chiedo sempre la stessa cosa, gli chiedo sempre di promettere. Promesse, solo promesse. Ma chi voglio prendere in giro, nel pretenderle? So già come andrà a finire. So già che non mi darà retta.
«Lo prometto»
Eppure, maledizione, finisco sempre per cascarsi, e per credergli. Finisco sempre per credere che andrà tutto bene, e forse la sua parola è l'unica sicurezza a cui sento di potermi aggrappare, per non finire affogata nella disperazione. Me la faccio bastare, anche solo per tentare di rimanere a galla.
Mi guarda ancora, poi guarda Aden, e gli sorride. Si gira e si prepara a salire sull'elicottero.
«Ciao ciao, papà»
•••
Fosse stata una diversa circostanza, credo proprio che l'avrei presa differentemente, quella frase. Chissà, magari avrei iniziato a saltellare per la gioia, ridendo, riempiendo Aden di piccoli baci e tanti complimenti, come faccio sempre quando mette insieme parole per costruire nuove frasi. O quando impara nuove parole.
Aden non aveva mai detto "papà". Mai avuto bisogno di dirla, quella parola, di rivolgerla a qualcuno, e non mi ha nemmeno mai chiesto cosa volesse dire. Nemmeno nel leggere di Pinocchio e Geppetto, figlio e padre. Ha capito da solo cosa significasse e, stranamente, non l'ha mai rivolta a qualcuno nel modo sbagliato. Ha sempre chiamato Alan "zio", e John "zio", e Mary "zia", e mia madre "nonna". È sempre stato preciso, e a lungo andare ho iniziato a credere che non l'avrebbe mai nemmeno detta. Forse un po' lo speravo persino, perché avrebbe voluto dire liberarmi dall'affrontare un discorso scomodo come quello su Sherlock e sul rapporto che io e lui dovremmo avere. Nemmeno noi sappiamo cosa siamo: come sarei riuscita a spiegarlo ad un bambino?
Aden, invece, ha fatto tutto da solo, senza l'aiuto di nessuno. Ha preso una parola, ne ha analizzato il significato e l'ha usata. Niente di più semplice. A ripensarci, magari ha solo immaginato che questa nuova figura maschile, con i suoi stessi occhi, che gli parlava come parlasse ad un adulto, fosse quello che Geppetto è per Pinocchio, e che sia stato solo un caso che non l'abbia associato alla figura di Alan, protettivo e presente e a cui, però, era già stato affidato un appellativo. Solo un caso. Sì, deve essere andata proprio così.
Eppure lì, quel giorno, davanti a quell'elicottero, con l'ansia per quello che sarebbe potuto accadere... Non so, ebbi paura, di quella parola. Dopo una vita intera passata ad odiarla, non è facile sentirsela pronunciare così. Non per me.
Le cose, alla fine, non sono andate bene come avevo sperato, come Sherlock mi aveva promesso. Le cose sono andate male, e in maniera tanto veloce che non ho avuto nemmeno il tempo di realizzarlo. Sherlock si è ritrovato improvvisamente in prigione, accusato di aver assassinato, davanti ad un numero spropositato di testimoni, Charles Augustus Magnussen, il Napoleone del ricatto. Per evitargli una vita trascorsa in galera, Mycroft Holmes, proprio come ogni fratello avrebbe fatto, ha chiesto ed ottenuto il permesso di mandare Sherlock in una missione sotto copertura di sei mesi nell'Europa dell'est, conscio del fatto che sarebbe sopravvissuto. Anche se lui non lo ammetterebbe mai, e forse è proprio per questo che ha descritto la missione affidata al fratello come più pericolosa di quanto effettivamente sia.
Oppure sono solo io che voglio crederci con tutte le mie forze, che questa sarà solo una situazione temporanea. Che Sherlock non si troverà mai così in pericolo da rischiare di non tornare mai più. Che tutto andrà per il meglio. Che tutto troverà la propria soluzione. Anche se il mondo non gira così, le cose non vanno in questo modo. E molto spesso tutto si sbriciola senza poter far nulla per rimediare.
«Sembra così felice...»
Alzo gli occhi verso Sherlock, in piedi davanti a me, e che invece fissa un punto alle mie spalle. Giro la testa per seguire la traiettoria del suo sguardo, ritrovandomi ad osservare Aden che gioca entusiasta insieme a John e Mary, sotto lo sguardo esasperato di Mycroft.
Sorrido appena nel guardarlo ridere e correre felice. «Già...» mormoro, con un filo di voce. Anche se, in mezzo a quello strano trio, Aden sembra l'unico spensierato. L'unico inconsapevole.
Riporto gli occhi davanti a me, li punto verso il jet privato, bianco quanto le nuvole, che attende immobile in mezzo ad una delle numerose piste dell'aeroporto di Heathrow. Grande, enorme, come un mostro pronto, con le sue ali, a spazzare via tutto.
«Cosa accadrà adesso?»
Mi stupisco di quante volte mi ritrovi a porgli questa domanda, quante volte mi metta ad interrogarlo come un oracolo in grado di trovare una risposta ad ogni mio dubbio, ogni mia paura.
«Non lo so» risponde però lui, che è umano quanto me, e conosce quel poco di futuro che conosco anche io. «Potrebbe accadere tutto, oppure niente»
Annuisco, prima convinta e poi sempre più lentamente, con gocce di incertezza che scivolano via ad ogni oscillazione del mento.
«Quindi è un addio?»
Sherlock respira forte, magari inconsciamente. Aria dentro e aria fuori, dandosi il tempo giusto per rispondermi, sebbene anche stavolta senza rispondere davvero.
«Non lo so...»
Annuisco di nuovo, ma adesso senza convinzione. Nemmeno ci provo, a sembrare convinta, a fingere di esserlo. Respiro anche io, aria dentro e aria fuori, e che comunque non basta a calmarmi, a respirare normalmente, ed avere un'espressione normale, neutra come la sua. No, non ci riesco. Vorrei tanto, ma... Non ce la faccio.
«Oh, per favore, adesso non metterti a piangere!» sbuffa lui, con tono scocciato.
«No, no, è solo che...»
Scuoto la testa, abbassandola verso l'asfalto della pista. Il jet è ormai invisibile, oltre le lacrime opache che mi oscurano la vista e costringono a chiudere gli occhi.
«È solo che mi sembrava... Credevo che tutto sarebbe andato bene, per una volta...»
E invece, ancora una volta, le situazioni si frantumano tra le mie mani, ed io mi ritrovo a cercare di rimettere a posto i pezzi che mi rimangono, senza davvero sapere cosa ne verrà fuori dopo. Ed è questo che mi mette paura, che mi abbatte, angoscia, scoraggia: non sapere cosa avverrà dopo. Non avere abbastanza controllo della situazione per poter sapere come dovermi muovere. E nemmeno Sherlock lo sa. Nemmeno lui può confortarmi, come non ha potuto quando ha finto di morire. Solo che qui, adesso... Potrebbe morire davvero.
«Aden ha iniziato a riconoscerti...» Soffio appena attraverso le mie labbra, le lacrime che continuano a colarmi lungo le guance. «Chiede sempre dove sia suo padre»
Non so perché glielo stia dicendo, se come gesto disperato per convincerlo a rimanere. Come se servisse davvero, come se potesse avere qualche tipo di effetto, anche minimo.
«Non saprà nemmeno cosa voglia dire, quella parola»
«Conosco mio figlio, okay? E so che non usa le parole a caso»
Alzo di scatto il volto, ancora umido, verso i suoi occhi che mi fissano attenti, pronti a captare ogni cosa, ogni informazione.
«Non le ha mai usate a sproposito, mai. E adesso sarò costretta a spiegargli come si usano davvero»
Dovrò spiegargli come mai gli altri bambini hanno un papà che vive con loro, e lui no. E dov'è suo padre, cosa fa, come si chiama, perché non c'è più, perché non è più con lui. Ed io come farò, come? Dopo quasi tre anni, nemmeno mi ero mai posta il problema. Ma i bambini le notano, certe cose, e ti prendono alla sprovvista.
«Adesso che ha bisogno di te»
Forse è anche questo che mi spaventa: che io possa non essere più abbastanza, per Aden. Non gli basterò più, le mie risposte non gli basteranno più, avrà bisogno di quelle di qualcun altro. Di Sherlock, di un padre che gli insegni cose che io non potrò spiegargli. Concezioni diverse di bene e male, di giusto e sbagliato, in mezzo a cui segnare un confine che, magari, gli piacerà più di quello che gli insegnerei a porre io, che troverà più logico. Un punto di vista differente dal mio.
Abbasso lo sguardo, spostando piano il peso del mio corpo da un piede all'altro. Mi asciugo via dal viso quel che rimane della mia tristezza. «Non avrei mai immaginato che sarebbe finita così...»
Mi infilo le mani nelle tasche del cappotto, respirando di nuovo più forte del necessario.
«Perché, come credevi che sarebbe finita?»
«Io...»
Mi prendo un secondo, prima di rispondere. Non alzo gli occhi, non mi muovo, respiro solo. Poi scrollo le spalle, tenendole alzate un attimo in più del dovuto.
«Non credevo che sarebbe mai finita. Solo questo»
Dopo il suo "suicidio", dopo aver assaggiato la sensazione che si prova nel rendersi conto che è tutto finito, e dopo averlo sciacquato con il sollievo di avere più tempo... Mi sono davvero sentita come se avessi tra le mani il potere di far durare tutto in eterno, di congelare le situazioni e lasciarle per sempre immobili, un po' come ambiva il giovane Holden. Ferme e sempre uguali. Eppure ho di nuovo peccato per via dello stesso errore, ho creduto sul serio di avere una tale capacità, quando avrei dovuto imparare che con Sherlock le carte in tavola si ribaltano nel giro di un secondo, e che una pallottola può portarlo via, rendendolo vittima o assassino. O addirittura entrambe le cose insieme.
Ed è ovvio che saperlo mi spaventa, proprio perché non ne ho il controllo. Proprio perché mi viene tolto il potere di pianificare le mie prossime mosse, di conoscere le mie carte. E poi?
Un fruscio lento mi fa alzare il capo verso Sherlock, che si sta controllando la tasca interna del cappotto, per poi estrarne lentamente un foglio piegato in quattro, che infine mi tende.
«Cos'è?» gli chiedo, prendendolo in mano.
«Uno spartito»
«Uno... Spartito?» ripeto, incerta, prima di aprirlo scoprendone le righe pentagrammate macchiate a penna nera, di note scritte a mano.
«Ricordi quella ninna-nanna che suonai ad Aden dopo il matrimonio di John e Mary?»
Alzo gli occhi, guardo Sherlock, poi di nuovo lo spartito, il titolo scribacchiato in alto.
"A Forest's Lullaby"
«L'hai trascritta...»
«In realtà era una composizione antecedente, ma quella sera è stata la prima occasione in cui fargliela sentire»
Si avvicina un po' a me, picchietta col dito in mezzo alle note, al centro del foglio. «Questa è la versione per violino, ma ho pensato che avresti potuto adattarla al pianoforte e usarla in momenti di... Necessità»
«Sperando che non ce ne sia mai bisogno»
«Ovviamente»
Un sorrisetto mi scappa dalle labbra, malinconico e triste, rassegnato eppure contento, almeno un po'.
«È stato davvero un bel gesto da parte tua...» mormoro, ripiegando il foglio.
Piccoli gesti, è vero, forse addirittura insignificanti per chiunque altro. Ma per me... Valgono così tanto. Davvero così tanto...
«Avrei voluto dartela per il suo compleanno, ma...»
«Sì, lo so» lo interrompo, alzando lo sguardo. «Imprevisti»
Anche lui mi guarda, poi annuisce. «Già»
Sospiro, stringendo forte questo pezzo di fragile carta tra le dita. Chiudo gli occhi per tentare di non scoppiare di nuovo a piangere. Però esplodo lo stesso, a modo mio, e, come una mina, mi lancio ad abbracciarlo, forte, stringerlo a me come non l'ho mai stretto, trattenerlo come non ho mai desiderato prima.
«È vero che farai il possibile per tornare?»
Di certo né io né lui possiamo conoscere il futuro, da umani quali siamo. Non sappiamo quali prossime carte entreranno nelle nostre mani, né se vinceremo o perderemo. Ma in nostro potere resta la capacità di giocare bene, di giocare con l'intento di vincere. Ed io ho bisogno di sperare di poter avere almeno una possibilità a mio favore.
«È vero, Sherlock?»
E solo adesso mi stringe anche lui. Le sue dita attorno alla mia vita, i suoi occhi oltre la mia spalla. «Te lo prometto» sussurra dentro ai miei capelli sciolti. «Sul serio. Te lo prometto»
Lo stringo più forte, mi stringe più forte, fino a farmi buttare fuori un sospiro di sollievo, speranza: almeno, adesso, siamo in due a giocare al meglio delle nostre capacità.
"The game is never over."
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