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{63° Capitolo}

"But nothing is better, sometimes,

once we've both said our goodbyes.

Let's just let it go.

Let me let you go."

-Billie Eilish, "When the party's over"

[Capitolo sessantatré]

Jane

Per tutta una vita, una vita intera, non ho fatto altro che correre. Non ho fatto altro che andare veloce, cercare di accaparrarmi il posto migliore, temere ogni volta di non fare in tempo, di arrivare per ultima. Di arrivare quando ormai sarei stata inutile, impotente, immobile davanti a chi è stato più veloce di me. Non ho fatto altro che correre. Dietro a progetti irrealizzabili, sogni distrutti, aspettative deluse, persone irraggiungibili. Tutto e tutti più veloci di quanto io sarei mai stata. Sempre.

Corro anche oggi, in mezzo a queste strade di una Londra che, come sempre, è dieci volte più veloce di me. Macchine che sfrecciano, gente che s'affretta, orologi che non smettono mai di battere i secondi, di ricordarmi che non arriverò mai al loro passo. Caos ovunque e ansia perenne, che tento di mascherare come meglio posso.

«Mamma, 'ove siamo?»

A fatica riesco a non ignorare la domanda di Aden, tanto presa sono dai miei pensieri. Lo guardo un secondo, nello specchietto retrovisore, prima di tornare verso la strada.

«Andiamo a trovare lo zio John e la zia Mary»

«Perché?»

Ecco, sì, perché? Perché andare dallo zio John e dalla zia Mary di martedì mattina? Perché non nel finesettimana, come facciamo di solito? Perché siamo qui?

«Perché è un po' che non ti vedono, e a loro manchi tanto»

«Perché?»

«Perché ti vogliono bene»

«Perché?»

«Perché sei un bambino molto bravo che fa davvero poche domande»

Aden aggrotta un po' la fronte, confuso, quasi si sforzasse a capire se il mio tono sia serio o meno. Poi rilassa di nuovo il volto, forse dimenticandosi del suo stesso quesito.

«Musica?»

Con una mano ancora sul volante, avvio con l'altra il CD senza fare troppe storie. Aden si mette a canticchiare sulle note delle canzoni dei suoi cartoni animati preferiti: almeno lui, che può, riesce a rallentare i propri pensieri. Invece io, dietro ai miei, adesso, non riesco proprio a stare. Corrono anche loro, fuggono lontanissimi, chissà se riuscirò mai a raggiungerli. Non lo so. Mi passano in testa e si lasciano dietro uno strascico di parole confuse, senza senso. Un po' come la telefonata di John, ieri sera. Quella dannatissima telefonata, che ha portato così tanto scompiglio, come un temporale in un deserto di terra arida.

•••

«Oh, mio Dio...»

L'arrivo del buio aveva portato con sé una pioggerellina sottile a bagnare le strade di Nottingham. Un rivolo di umido correva lungo il vetro della mia finestra, impedendomi di vedere persino il cortile sotto casa mia, nonostante i lampioni e le luci delle case vicine. Correva veloce, veloce, chissà quanto.

«Ma... Come è successo?»

«Non lo sappiamo ancora. I medici ci hanno sconsigliato di farlo parlare con la polizia, almeno per ora. Si è svegliato da poco e non vogliono farlo stancare troppo»

«Perché non me lo hai detto prima?»

«Non volevo farti preoccupare»

«Oh, certo, mentre dirmi che è vivo per miracolo dovrebbe farmi stare più tranquilla, giusto?»

Alzai la voce, con fare anche un po' stizzito. Alle mie parole seguì il silenzio, e la cosa mi fece subito pentire per la mia acidità.

«Scusa, io...»

«No, hai ragione, avrei dovuto parlartene...» m'interruppe John, piano. «È solo che... Non volevo che ti precipitassi qui senza prima riflettere»

Aggrottai la fronte, improvvisamente confusa. «Perché, vuoi che venga?»

«Non io» rispose lui. «Ma Sherlock»

«Sherlock?»

Un brivido, gelido più dell'aria bagnata di pioggia fuori, mi corse lungo la schiena, senza ragione.

«Sì. Appena si è svegliato, ha chiesto di te»

•••

Il King's College Hospital mi porta alla mente brutti ricordi: la mia crisi e il successivo edema polmonare, sebbene siano avvenuti più di tre anni fa, sono spesso ancora difficili da chiudere a chiave in un cassetto, specialmente quando mi ritrovo in determinati posti, a rivedere determinati colori, rivivere particolari odori. Nemmeno la memoria della nascita di Aden è riuscita a superare quell'occasione in intensità: è semplicemente troppo difficile.

Avrei anche potuto evitare di venire, visto che nessuno mi ha costretta. Nessuno, tranne il mio maledetto senso del dovere.

Entro nella stanza, piccola e claustrofobica, nonostante l'influenza di Mycroft Holmes su praticamente ogni sfera di potere sia riuscita a riservarne una privata solo per suo fratello. Ma nemmeno l'aria accogliente e la possibilità di far visita ad ogni ora del giorno e della notte impediscono al mio cuore di fermarsi per un secondo, nel vedere Sherlock disteso sul letto, fili e tubi attaccati al busto e alle braccia, gli occhi chiusi, una cannula nasale ad aiutarlo a respirare, e il bip come unico segno della sua debole attività cardiaca, oltre al suo petto che si alza e abbassa a fatica. Accanto al suo letto, girata verso di lui, c'è una poltroncina in pelle nera, le veneziane alla finestra sono abbassate e l'aria sa di stantio.

Mi chiudo la porta alle spalle e mi avvicino al letto, sedendomi poi accanto a lui. Rimango ferma a guardarlo per un periodo di tempo che non potrei definire. Ed intanto mi ritrovo a pensare.

Pensare a quanto strano sia il mondo, quanto paradossalmente si muova. Perché Sherlock, coperto da una corazza di titanio, indistruttibile, ai miei occhi è sempre stato invulnerabile, protetto da ogni situazione pericolosa o spiacevole. Sempre. Quell'armatura lo ha protetto da Moriarty e dalle sue bombe, lo ha protetto dal proprio suicidio, lo ha protetto da lame d'acciaio e attentati terroristici. Lo ha protetto da me, dai miei sentimenti. Lo ha protetto da Aden e dal suo arrivo improvviso. Ma non è riuscito a proteggerlo da una pallottola. Una sola pallottola lo ha quasi ucciso, lo ha quasi strappato crudelmente a questa vita. Una semplice pallottola è riuscita a penetrare i suoi inviolabili sistemi di sicurezza e a ferirlo. A fargli del male. Ad indebolirlo.

Non so per quanto tempo rimango qui, immobile, ad aspettare che si svegli. Forse ore. Comunque abbastanza da farmi prendere sonno, poggiata con la testa sul bracciolo di questa poltrona scomodissima, rannicchiata come un micio infreddolito.

La voce di Sherlock mi sveglia. O meglio, il sibilo biasciato di quello che resta della sua voce. Debole, senza alcun dubbio, ma comunque in grado di farmi svegliare di soprassalto. Mi metto dritta e mi stropiccio piano un occhio, prima di riuscire finalmente a realizzare dove mi trovo.

Volto la testa verso il letto, alla mia sinistra, ma Sherlock ha ancora gli occhi chiusi, e ciò mi fa credere di essermi immaginata tutto. Il risveglio, la voce... Forse è solo quello che l'ansia mi fa desiderare che accada, per prendere atto che stia bene. Se è cosciente, allora sta bene.

Sospiro piano, tornando a rannicchiarmi sul sedile della poltrona. Chiudo gli occhi. Poi li riapro.

«Jane...»

Li riapro perché sento di nuovo quel flebile suono, più forte comunque del battito trascritto sul monitor. Alzo il capo, poso di nuovo lo sguardo sul letto.

Sherlock, stavolta, mi guarda. Ha la testa reclinata su un lato, verso la mia direzione, gli occhi azzurri aperti.

Scatto a sedere dritta, fissandolo a lungo. «Ciao» lo saluto infine, e poi sorrido. Quasi sollevata.

«Sei venuta...»

«Me lo hai chiesto tu, no?»

Forse è proprio per questo che l'ha fatto, chiedere di me: in fin dei conti, sapeva fin troppo bene che l'avrei accontentato, che sarei corsa senza pensarci su due volte, che non sarei stata in grado di farne a meno, per quanto invece lo avrei preferito.

Lui si stringe nelle spalle, socchiudendo appena le palpebre. «Conoscendoti, non pensavo ci avresti creduto. L'avresti presa come una scusa»

«Non l'ho fatto solo perché è stato John a telefonare»

Sbuffa, quasi divertito. «L'autorità del soldato»

«Del medico, in realtà»

«Comunque più convincente del detective drogato che si è beccato una pallottola in petto, no?»

Scuoto la testa, quasi a scacciare la sua battuta, il suo modo inutile di alleggerire la situazione, di non prendere mai nulla sul serio. Abbasso lo sguardo e, quasi casualmente, mi ritrovo a fissare le mie mani: una è posata sul mio grembo, mentre l'altra è sul lenzuolo del letto di Sherlock, a stringere la sua. Si sono allacciate senza che nemmeno me accorgessi, un dito intrecciato nell'incavo dell'altro. Insieme, indissolubili.

Le osservo, senza dire una parola. O meglio, a parlare un po' ci provo, ma senza un reale successo. Ogni volta che cerco di dire qualcosa, qualsiasi cosa, dalla mia bocca escono solo suoni strozzati, singhiozzi, e lacrime dai miei occhi. Senza che possa fare nulla per fermarle, senza rendermi conto di dover fermarle.

«Jane?»

«Mi dispiace, mi dispiace...» non faccio altro che ripetere, cercando di scacciare via le lacrime dalle mie guance con la mano libera, l'altra che ancora stringe quella di Sherlock, dove voglio che resti. «È solo che... È solo che tu...»

Probabilmente, una qualsiasi mente lucida, come quella di Sherlock, avrebbe detto che lo stress, l'ansia e la pressione siano stati la causa scatenante del mio attacco improvviso di pianto. Forse potrebbe anche essere vero, non saprei dirlo. L'unica mia certezza è che un solo pensiero, uno solo, riesce ancora a far breccia nel mio cervello, a farmi prendere coscienza, dare forma alle mie paure.

«Tu sei quasi morto...»

È quasi morto di nuovo, ma stavolta sul serio. Nessuno schema, nessun trucco, nessuna finzione. Solo realtà vera quanto quella pallottola maledetta. Nessun piano studiato nei minimi dettagli, ma solo un rischio assai più grande di lui.

«Ed io ti ho quasi perso ancora...»

Lo sussurro, ovviamente, anche se quasi inutilmente, visti i sensi acuti di Sherlock che, nonostante la debolezza, potrebbero avermi lo stesso sentita. Se solo prestassi un po' più di attenzione, potrei anche io sentire la sua voce che mi giudica come una stupida e patetica ragazzina, buona solo a farsi abbindolare dalle sue richieste. Eppure non dice niente a proposito, stranamente. Non toglie la sua mano dalla mia, mi sembra che forse la stringa addirittura. Ma magari sono solo troppo scossa emotivamente e mi sto immaginando tutto, come sempre.

Si mette ad aspettarmi, però. Aspetta che mi calmi, che i miei singhiozzi diventino respiri, le mie lacrime solo sale sulle guance. Non so per quanto tempo, ma mi aspetta lo stesso, senza dire niente.

Prendo e lascio aria dalla bocca, per un secondo che mi pare durare una vita, gli occhi chiusi che poi riapro, mentre mi passo una mano sul viso per asciugarlo per bene.

«Scusa...» mormoro, infine, sentendo la vergogna crescere e darmi della penosa per tale scenata.

Ma Sherlock sembra non essersene nemmeno accorto. Quando rialzo lo sguardo verso di lui, lo trovo a fissare il soffitto. Non dice nulla, rimane così e basta.

«Mi abbasseresti il livello della morfina?» chiede solo, con calma, come se fosse la richiesta più semplice del mondo. «È la macchina verde, qui a sinistra»

Lo guardo, ma lui non guarda me. Non so se per menefreghismo o semplice imbarazzo. Magari entrambe le cose.

Allora mi alzo, finalmente. Sciolgo piano le nostre mani, mi alzo dalla poltrona, faccio il giro del letto e mi avvicino alla macchinetta per la somministrazione degli antidolorifici. Poso piano le mie dita sulla manopola e la giro lentamente verso sinistra.

«Certo che sei strano...» faccio sarcastica, forse solo per allentare la tensione, la mascella tirata in una smorfia. «Per una volta che ti danno la droga per farti stare meglio, preferisci farne a meno»

«Oh, fosse per me la terrei attaccata» ribatte lui, muovendosi tra le lenzuola con un gemito di dolore. «Se solo non mi servisse pensare»

«Pensare? Adesso?»

«Beh, non vorrei averti fatto fare un viaggio a vuoto» Mi squadra per qualche secondo, forse qualcuno di troppo. «Sei asciutta. Hai parcheggiato qui vicino»

«Riesci a dedurre in quelle condizioni? E pensare che dovresti solo riposarti» sospiro, incrociando le braccia al petto.

Lui, per tutta risposta, mi ignora.

«Hai portato Aden, no?»

«Già»

«E dov'è?»

«Con John»

Si ferma un attimo. Batte le palpebre e assume un'espressione strana, quasi sorpresa. «John e Mary?»

«Certo, con chi altri, sennò?» rispondo, scuotendo un po' la testa.

«Pensavo lo avessi lasciato a tuo fratello»

«Oh, no» rispondo, muovendo piano una mano. «Alan aveva un appuntamento col prete, non poteva occuparsi di lui»

«Il prete?»

«Sì, per discutere le date»

Sherlock distende un poco la fronte, con fare quasi spaesato. «Tuo fratello si sposa?»

«In primavera, se tutto va bene» Mi fermo, aggrottando le sopracciglia. «Non te l'avevo detto?»

«Beh, a quanto pare no»

«Oh» Sospiro, sciolgo le mie braccia dalla loro posizione ingarbugliata e torno a sedermi sulla scomoda poltroncina in pelle nera. «Beh, è una cosa piuttosto recente. Alan ha fatto la proposta a Georgia, uhm...» Mi fermo pochi secondi per contare a mente lo scorrere del tempo. «Un paio di settimane fa. Dopo il matrimonio di John sicuramente. Credo sia stato per quello se si è finalmente deciso»

Non lo guardo, mentre gli parlo di mio fratello, dei preparativi per il suo matrimonio. Forse non voglio vedere la sua espressione, mentre gli racconto di cose così banali, della mia banale vita.

«E lei ti piace?»

«Chi, Georgia?» Sorrido. «Oh, sì, l'adoro. È sveglia, intelligente, simpatica, con senso dell'umorismo... E mio fratello non si è ancora stancato di lei, dopo tre anni e mezzo che stanno insieme. Non è riuscito a trovarle nemmeno un difetto, o un qualsiasi altro motivo stupido per lasciarla. Il che è... Fantastico»

«Si è deciso a mettere la testa a posto, nonostante sia tanto testardo ed incontentabile»

Volgo i miei occhi verso di lui, che però guarda verso la finestra. Non l'ha detto con tono infastidito, né divertito. Lo dice in modo normale. Nemmeno sarcastico, solo... Normale. Come se avesse appena fatto un'osservazione sul tempo fuori dalla finestra.

«Già...» dico soltanto, con un sospiro.

Rimaniamo così, in silenzio. Bip ad accompagnare i nostri respiri, la vita del reparto appena oltre la porta come sottofondo, l'ossigeno attraverso la cannula. Guardo Sherlock, le sue mani immobili, la testa girata da un lato, il corpo nascosto dalle lenzuola bianche quanto la sua pelle, diafana per il colpo, la degenza, l'aria d'ospedale.

È debole, senza dubbio. Posso vederlo dal modo innaturale con cui respira, affaticato, e dal modo in cui pensa, veloce ma comunque non abbastanza. Sta male, ogni movimento è per lui uno sforzo innaturale, doloroso. Eppure è sveglio, si è fatto abbassare il livello della morfina, per pensare. Pensare a cosa?

«Sherlock...» comincio, la voce flebile, come per non disturbarlo. «Perché sono qui?»

Si gira solo adesso. Posa la guancia destra sul cuscino, e mi fissa a lungo, negli occhi: aspettava questa mia domanda. «Devi aiutarmi»

Inarco lentamente le sopracciglia. «A fare cosa?»

«Ad uscire di qui»

Inizialmente, credo di non aver capito bene. Aspetto un po', prima di rispondergli, come se quasi mi aspettassi una sua ulteriore spiegazione.

«Dall'ospedale?» aggiungo allora io.

«Sì, Jane, dall'ospedale» sbuffa, con fare infastidito. «Lo farei da solo, ma a quanto pare ho perso tanto sangue, e quindi...»

«È un sintomo o cosa?»

«La perdita di sangue, dici?»

«Il delirio, Sherlock! Dio, ma ti senti quando parli?!» sbotto, saltando in piedi e rimanendo immobile davanti a lui. «Mi stai chiedendo di farti uscire da un ospedale nel bel mezzo di un ricovero!»

«È tanto strano?»

«Dio santo, Sherlock, ti sei svegliato dopo che il tuo cuore si è fermato! Capisci che sei vivo per miracolo o vado a chiamare il chirurgo che ha impiegato ore ad estrarti quel proiettile dal petto?!»

Sbuffa, distogliendo lo sguardo, come un bambino capriccioso privato del proprio giocattolo, o a cui non viene data ragione.

«Perché dovresti fare un'idiozia del genere?»

«Vuoi aiutarmi o no?»

«Te lo scordi»

«Allora puoi anche andartene, per quanto mi riguarda»

Fa per alzarsi, mettersi seduto, se non addirittura in piedi, e andarsene davvero per conto suo, ma ad ogni contrazione del suo corpo si lascia scappare un gemito, uno più forte dell'altro.

Torno di corsa accanto al letto e con una spintarella della mano lo faccio sdraiare di nuovo.

«Mi dici cos'hai in mente?»

«Non vedo perché dovrei» ribatte lui, cercando di rialzarsi. «Visto che non vuoi darmi una mano»

«Ma perché io?» chiedo ancora, spingendolo di nuovo verso i cuscini. «Perché non John?»

«Lui non approverebbe»

«Non approvo nemmeno io»

«Lui approverebbe ancor meno, fidati» Si lascia andare, dopo una breve serie di tira e molla che gli ha fatto venire il fiatone e il battito accelerato. «E poi non mi crederebbe»

Tolgo la mano dal suo petto, percorso da ventose e altri strani tubi in un intricato disegno labirintico. «A cosa non crederebbe?»

C'è un meccanismo strano nella mia testa che mi dice che qualcosa non va. Nel tono di Sherlock, nel suo modo di evitare il mio sguardo, la sua testardaggine, il suo non fidarsi di John. Qualcosa non va, in tutti i sensi.

«Sherlock, che sta succedendo?»

Lui prende respiri profondi, dalla bocca, poi dal naso, il petto che è una macchina da corsa. Guarda fisso davanti a sé, un punto che non saprei individuare, e forse neppure lui. Poi, lentamente, alza gli occhi verso di me, li punta dritti nei miei. Deglutisce. Capisco che sta per dirmi qualcosa di impegnativo. Per lui, per me... Per tutti.

«So che non resisti, quando si tratta di segreti» comincia col dire, lentamente. «Ma se ti ho voluta qui, è perché sei l'unica di cui mi fidi ciecamente»

Batto le palpebre, prima di rispondere. Mi siedo di nuovo, prima di rispondere. Mi chiedo cosa sarebbe meglio fare, prima di rispondere. Mi mordo le labbra, sospiro. E poi annuisco, senza davvero rispondere.

•••

Sherlock ha fatto bene a non dire nulla a John: la sua storia è stata tanto assurda che persino io ho stentato a crederci. Plausibile, ma assai improbabile. Forse gli ho creduto proprio per questo: quando mai le cose sono state probabili con Sherlock Holmes?

Alla fine mi sono ritrovata, anche se titubante, ad accettare la sua richiesta di aiutarlo a lasciare la sua stanza d'ospedale, ma ad una mia condizione: aspettare che il suo stato di salute diventi stabile al meglio, prima di agire. Nel frattempo, ho cercato di rimandare il più possibile l'inevitabile confronto tra Sherlock e la polizia. Per quanto complicato, sono riuscita a convincere Lestrade che sia ancora troppo presto per domandare a Sherlock dell'accaduto, e stranamente persino John si è rivelato d'accordo, dicendo che sarebbe meglio aspettare ancora qualche giorno, per farlo riprendere dallo shock e permettergli di parlarne più lucidamente in seguito. Lestrade ha acconsentito, forse rassicurato dal parere di un medico. Se solo John sapesse a cosa sta contribuendo...

Abbiamo aspettato una decina di giorni, prima di decidere la data definitiva in cui mettere in atto la pazzia ideata da Sherlock. Ogni mattina, lascio Baker Street, dove John mi ha proposto di sistemarmi per il mio soggiorno a Londra, e mi porto dietro Aden fino al King's College Hospital. E lì, insieme, discutiamo, progettiamo, mettiamo a punto il nostro piano. Poche ore al giorno, prima dell'arrivo di John per pranzo, mentre Aden siede ai piedi del letto con uno dei suoi giochi ad intrattenerlo, lasciando a me e Sherlock l'opportunità di vagliare le mille e mille ipotesi.

«Come eludiamo la sicurezza?»

«Con un travestimento, mi sembra ovvio»

«Possiamo far finta che tu sia morto e portarti in obitorio. Peccato sia un trucco già usato, non penso ci crederebbero»

«Fino a quando userai il sarcasmo come strategia per cercare di farmi sentire ancora in colpa?»

«Fino a quando non ti deciderai a chiedere scusa»

Sherlock sospira, facendo roteare impaziente gli occhi. «Useremo una sedia a rotelle e un travestimento»

«Una sedia a rotelle e un travestimento?» ribadisco, confusa.

«Un vecchio trucco che non passa mai di moda»

«E se dovessero beccarci?»

«Come, Jane?»

«I medici sanno che vengo da te. Si insospettirebbero nel vedermi spingere la carrozzina di un completo sconosciuto»

«Beh, allora tu cerca di non farti beccare dai medici»

Sbuffo, alzando gli occhi al cielo. «Okay, come vuoi. Ma se mi arrestano, farò ricadere su di te ogni colpa»

«Come sempre, d'altronde»

Questa frase, per quanto distaccata, mi gela per un istante. Nonostante sia così semplice, magari buttata a caso, senza nemmeno riferirsi a me, è comunque, allo stesso tempo... Vera. Maledettamente ed inevitabilmente vera.

D'istinto mi volto verso Aden, non so se lo fa anche Sherlock. E mi odio, non appena mi ritrovo a pensare che è per lui che ho rinunciato alla maggior parte delle mie ambizioni, ridimensionato le mie priorità. È un pensiero che mi capita di fare spesso, e da quando Sherlock è tornato ancora di più. Ogni volta, però, cerco in tutti i modi di scacciarlo via, trovarmi mille altri motivi per cui ho torto. Ed io mi odio ogni volta, tantissimo, mi sento così egoista. In fin dei conti, la colpa è anche un po' mia. O forse lo è del tutto, e Sherlock non c'entra nulla, come invece non voglio o riesco ad ammettere. In fin dei conti, sono stata io ad averlo chiuso fuori, solo per farlo sempre rientrare alla prima occasione per lui propizia. Questa situazione ne è solo la prova.

«Cosa succederà dopo?» chiedo allora, la gola secca. «Si frantumerà tutto?»

Perché credergli, alla fine, perché dargli ascolto ancora? Nonostante tutte le mezze verità, gli stratagemmi, i piani architettati con maniacale cura... Continuo a dare per scontato che questa sia la volta buona. E forse lo è davvero, ma i dubbi continuano lo stesso a martellarmi nella testa, le domande, le paure. Tutto si frantumerà, anche le cose già rotte, ridotte in polvere, come le nostre?

«Mary è...»

«Lo so» mi interrompe lui. «Ma pensi che sarebbe diverso, se non lo fosse?»

«Beh, sì» ribatto, con una smorfia sarcastica. «Sarebbe molto diverso. Sarebbe più facile»

«E come?»

«Dio, ma tu ci staresti al posto suo?» Mi giro di scatto, innervosita. «Incinta e odiata da tutti. Perché è questo quello che accadrà, ne sono certa»

È sbagliato, ecco. È tutto così sbagliato. Il momento, il modo, il perché... Nonostante quello che ha fatto, gli errori che ha commesso, Mary non merita di vivere in questo modo, in un momento tanto delicato.

«Non merita di vivere come l'ho vissuta io»

Forse è per questo che sono tanto... Titubante. Ad accettare sul serio la richiesta di Sherlock, aiutarlo a scappare e a mettere in atto il suo stratagemma. Già mi immagino le conseguenze, già mi sento in colpa perché ne sarò la causa. Perché so come si sentirà, e so che non potrei fare nulla per impedirlo.

«Preferiresti non farlo, quindi?»

«No, è solo che...» Chiudo gli occhi, e sospiro, aria dentro e fuori. «È solo che... Non sarebbe giusto...»

Quando li riapro, li punto verso Sherlock, che mi guarda a sua volta, prima di lasciarsi andare sui cuscini, insieme ad un grugnito di dolore infastidito. Guarda Aden, ai piedi del letto, e Aden guarda lui, forse chiedendosi se quest'uomo, questo Sherlock davanti a sé, sia lo stesso Barbanera che lo ha fatto addormentare, appena qualche settimana fa.

«Però sarebbe giusto per John»

John... Il punto debole di ogni mio ragionamento egoistico, quello che, ogni volta, mi ritrovo a dare per scontato. John, che più di tutti non ha bisogno di altro dolore, nonostante il suo orgoglio, la sua forza.

«Lo farebbe stare bene, secondo te?»

«Non lo so, sei tu quella esperta di sentimenti»

«Ti sei comunque già fatto un'opinione a riguardo»

«Penso solo che saperlo sarebbe sempre meglio che vivere dentro una bugia»

«O comunque meglio che saperlo dalla polizia...»

«Polizia? Oh, no» Sherlock, stranamente ed improvvisamente, sorride. Scuote la testa, e sorride. «Non lo diremo alla polizia»

Spalanco gli occhi, incredula. «Cosa?!»

Continua, piano, a far oscillare il capo, da destra a sinistra. «È un affare che va risolto tra noi»

Aspetto un secondo, uno solo, e solo allora sorrido anche io. Forse Barbanera è davvero cambiato, in qualche modo. Aden se n'è solamente accorto prima di me.

•••

Batto impazientemente il piede contro il pavimento dell'ascensore, mentre fisso il piccolo schermo sopra la tastiera, e il numero dei piani salire, bloccarsi, salire. Sbuffo, guardo in alto, mi sistemo il borsone su una spalla. Aspetto il tin e le porte che si aprono, prima di buttarmi fuori e percorrere in fretta il corridoio, fino alla stanza vicino alle scale del terzo piano dove è ricoverato Sherlock.

Afferro la maniglia, ed apro di scatto la porta. «Sono in ritardo, lo so»

Entro, ma nel farlo per poco non urto una giovane donna, in piedi appena dietro l'uscio. Si gira verso di me, mi guarda, ed io la riconosco nel giro di un secondo.

'Oh, no...'

«Oh, ciao, Jane» mormora Sherlock dal letto, con fare quasi noncurante.

Non gli presto molta attenzione, presa come sono dal fissare la donna davanti a me: capelli mori, mossi e lunghi, occhi grandi e chiari, sguardo truce, un po' anche triste.

«Torno più tardi»

Faccio per uscire, ma la ragazza mi blocca.

«No, non ti preoccupare. Stavo andando via» Si rigira in direzione di Sherlock, lo guarda, con uno strano sorriso. «Saluto John e Mary da parte tua» Si volta ancora, mi supera a testa china ed esce dalla stanza, lanciandomi, prima di chiudere la porta, uno strano sguardo. Uno sguardo che non riesco bene a decifrare. Truce e triste come quello di prima, quasi.

«Hai portato quello che ti ho chiesto?»

Resto a fissare la porta per un po', prima di voltarmi verso Sherlock, sdraiato in mezzo alle lenzuola.

«Che ci faceva Janine qui?»

Lui aggrotta la fronte, confuso. «L'hai riconosciuta?»

«Era una delle damigelle di Mary, no?»

«Sì»

Alzo le mani, i palmi rivolti verso l'alto. «Ripeto: cosa ci faceva qui?»

«È venuta a salutare» risponde lui, poi indicandosi con un teatrale gesto della mano. «Sono ricoverato, non so se hai presente»

«Cos'è quella roba?»

Poso il borsone a terra e mi avvicino al letto, puntando ai tre, quattro giornali adagiati sulle coperte, accanto alle gambe di Sherlock, che cerca, con un gesto veloce, di accartocciarli via.

«Niente»

«Fammi vedere»

«Sono solo giornali»

«Appunto per questo voglio vedere»

Gliene strappo uno dalle mani e lo dispiego per bene sotto il suo sguardo scocciato.

«"Holmes Scatenato?"» leggo poi l'enorme titolo sulla prima pagina del Daily Express, accanto ad un'enorme fotografia di Sherlock. Alzo la testa verso di lui che, per tutta risposta, sbuffa e distoglie gli occhi, quasi in imbarazzo.

Prendo un altro quotidiano, questa volta il Daily Mirror. Stesso design: titolo gigante accanto ad una foto di Sherlock. «"Sette Volte a Notte a Baker Street"» E infine l'ultimo, che, invece del detective, presenta un'immagine di Janine con indosso quel ridicolo berretto da caccia che ancora si trova a Baker Street, nascosto da qualche parte, probabilmente sotto un cumulo di scartoffie. «"Mi ha fatto indossare il cappello"»

E questa volta non riesco a fare a meno di scoppiare a ridere, e piegarmi in due, a coprirmi la bocca, cercando invano di soffocare le mie risa.

«Sì, molto divertente» borbotta Sherlock, cercando di raccattare i fogli di carta incriminati che, però, rimangono in mano mia.

«Ti ha davvero venduto bene, non c'è che dire!» esclamo, sedendomi ai piedi del letto, lo sguardo che ancora vaga tra le grandi lettere dei titoli. «Non credevo che stesse uscendo insieme. Forse si è messa con te solo per sfruttarti»

«Vorrebbe dire che sono stato ripagato con la mia stessa moneta»

«Cioè?»

Alzo gli occhi dalle pagine, e incontrando i suoi capisco. Trovo la mia risposta in quello sguardo eloquente, pieno di parole, che parla sempre in modo più chiaro della sua bocca, vero specchio di tutti i suoi pensieri.

«Oh, no...»

«Oh, hai fatto in fretta a capirlo»

«Era lei!» esclamo, alzandomi di scatto, indicando la porta alle mie spalle. «La segretaria di Magnussen che hai ingannato per introdurti nel suo ufficio! Era Janine!»

«Beh, dovevo pur entrare, in qualche modo»

«E hai finto una relazione per poterci riuscire? Sei caduto in basso»

Non risponde, e nemmeno io continuo. Non so se si senta in colpa o altro, e per questo voglia evitare la questione a priori. Non credo, però, visto che lui non prova quel genere di sentimenti, non l'ha mai fatto: lo conosco troppo bene.

Lascio cadere i giornali sul letto, come vorrei far cadere il discorso, con un sospiro esasperato.

«Era davvero così importante entrare in quell'ufficio?»

«Ne va della sicurezza di molti»

«Di chi?»

«Tutti!» Alza la voce nel pronunciare quella sola parola. Lo sforzo è così grande da fargli sentire una fitta di dolore, che lui esorcizza con uno dei suoi mugugni. Chiude gli occhi, butta la testa sul cuscino, cerca di riprendere fiato. «Quell'uomo... Quell'uomo è pericoloso. Troppo pericoloso. Potrebbe far cadere un governo, far scoppiare guerre, se solo volesse. E va fermato per questo»

Il suo petto si alza e si abbassa, correndo frenetico come la sua testa. Ed io lo so, anche se tiene ancora gli occhi chiusi. So che corre, e che va più veloce di quanto dovrebbe, di quanto potrebbe.

«Forse non tocca a te fermarlo...» mormoro, tenendo lo sguardo basso, sulle mie scarpe accanto al borsone buttato sul pavimento.

«E a chi, allora?»

«Non lo so!» E stavolta sono io ad alzare la voce, quasi gridare. «L'esercito, l'MI6, non so a chi spetterebbe. So solo che tu sei quasi morto per questa cosa. E non sono sicura del fatto che ne sia valsa la pena»

Non lo guardo. Quello sarebbe uno sforzo troppo grande, trovare i suoi occhi pieni di determinazione e sprezzo nei confronti del pericolo, e capire che le sue decisioni sono irremovibili, proprio perché sue, perché lui è l'unico col diritto di cambiare idea o meno. Solo lui, come solo io lo sono stata per le mie, di scelte.

Mi rimetto a sedere ai piedi del letto e mi prendo la testa tra le mani, poggiandomi sulle ginocchia coi gomiti. Aspetto che sia lui a riprendere a parlare, a trovare qualcos'altro da dire.

«È venuto qui, qualche giorno fa» dice, alla fine, non so nemmeno dopo quanto.

Il mio solito allarme scatta, insieme al mio capo e al mio solito sguardo nella sua direzione. «Cosa?!»

«Sì, beh... Voleva solo farmi sapere che è ancora vivo. E che ha intenzione di tenere per sé le informazioni su Mary»

«Per tenerla in scacco...»

Mi copro gli occhi con le dita di una sola mano, nascondo la mia disperazione, i miei sospiri d'ansia. Chissà perché, adesso ho un senso molto più forte del pericolo, una specie di prudenza che blocca l'adrenalina e fa partire la paura.

«Per questo va fermato. E dobbiamo farlo noi»

«Noi?» ripeto, scocciata, riaprendo gli occhi e trovando i suoi che fissano il soffitto sopra la sua testa.

«Per John. Dobbiamo farlo noi. Dobbiamo farglielo sapere prima che lo faccia Magnussen»

«E Mary?»

«Prenderemo delle decisioni su di lei in seguito»

«Perché, non è abbastanza importante, forse?»

«No, semplicemente perché non è nostra la decisione di dimenticare quello che ha fatto»

Aggrotto le sopracciglia, confusa. «Beh, in realtà, tua lo è»

«Io, in fin dei conti, sono vivo, e sai bene perché. Non ha tradito me, ma John. È questo il punto»

E per quanto possa non trovarmici d'accordo, so bene che Sherlock ha ragione. Mary non ha tradito me, non ha tradito Sherlock. O, per lo meno, non lo ha fatto nella stessa misura in cui lo ha fatto con John, che le ha affidato ogni lato di sé, tutta la fiducia che aveva da sempre custodito e mai liberato. L'ha donata a Mary, e tocca solo a lui scegliere se lasciargliela o riprendersela e farla finita per sempre. Però...

«E se tutto dovesse andare storto?»

Però cosa succederebbe se John non ci credesse, negasse, se dimenticasse pur senza perdonarla mai? Cosa succederebbe a Mary, al bambino che cresce in lei, al suo futuro, a noi tutti? Cosa succederebbe se le cose, invece di migliorare, si rompessero ancora di più?

Però Sherlock sorride, stranamente. Certo, beffardo come sempre, ma almeno sembra sicuro di quello che dice.

«Quando mai un nostro piano è andato storto, Jane?»

Oh, potrei citarne parecchi di piani andati storti, che hanno preso una piega sbagliata. Ma forse... Forse è proprio il fatto che adesso siamo qui a raccontarcelo, rammentarli come missioni compiute, a decantare i nostri successi, quelli che abbiamo raggiunto insieme. E il solo ricordo, lampi di luce calda nella mia memoria, per qualche ragione fa sorridere anche me. 

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