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{59° Capitolo}

[Capitolo cinquantanove]

07 Novembre 2012

Finora, l'idea del parto non si era mai palesata in modo tanto vivo davanti ai miei occhi. Saranno le parole dei medici, i loro consigli, i sorrisi di circostanza, i loro "Finalmente è arrivata al punto di arrivo" a mettermi agitazione. Oppure sarà semplicemente il vedere questa clessidra mentre esaurisce la sabbia a mia disposizione, mandandomi ogni secondo un promemoria chiaro e fin troppo palese sul fatto che tutto sta per diventare estremamente reale.

E più la mia pancia diventa grande, più questo bambino cresce, più salgono le mie paure, fino ad arrivarmi in gola, appesantite dall'ansia inspiegabile di quello che mi sta per accadere. Più io mi faccio piccola ed insicura davanti a questa decisione di tirarmi indietro, più male mi sento perché non mi sento più capace di avere un giudizio critico.

È in momenti come questi che mi manca l'Oxazepam: quello sì che riusciva a calmarmi. Forse Sherlock aveva ragione, quando mi dava della drogata... Non che lo sia nel vero senso del termine, ma ho da sempre avuto una certa tendenza a prendere psicofarmaci anche al di fuori della normale prescrizione. Da quando ho scoperto di essere incinta, però, ho smesso alla stessa velocità a cui ho iniziato. Anche perché, da quando Sherlock è morto, non ho più sentito la necessità dei tranquillanti. Avrebbero solo peggiorato la situazione.

Però adesso ne sento davvero, davvero la mancanza. I giorni passano di attimo in attimo, ed io, di attimo in attimo, mi pongo sempre più domande. Mi chiedo se farà male, quanto tempo durerà, chi ci sarà insieme a me, quando sarà, se tutto andrà per il verso giusto. Mi chiedo se avrò dei rimorsi, quando li avrò, perché li avrò. Mi chiedo se sarò disposta a dimenticare tutto del tutto.

Non lo so. Non lo so più. Non da quando mi hanno comunicato che, probabilmente, tutte le mie ansie per il parto potrebbero trasformarsi in qualcosa di più grande e, forse, di anche più grave.

Da quando sono entrata nell'ultimo trimestre, ho deciso di iscrivermi ad un corso di preparazione al parto, giusto per arrivare al momento fatidico con almeno la capacità di saper controllare il respiro durante le doglie. Dicono che aiuti anche ad avere un atteggiamento più rilassato in attesa del "grande momento". Come se un po' di yoga possa davvero mettere a posto i confusionari pensieri del mio cervello. Ma, in assenza dell'Oxazepam, non sono riuscita a trovare nulla di meglio.

Inizialmente, pensavo che ci sarei dovuta andare da sola, e già mi ero preparata all'idea di essere l'unica single in mezzo a decine di coppiette felici ed eccitate dall'imminente arrivo. E, davvero, nemmeno mi dispiaceva così tanto, ma poi Alan mi ha proposto di farmi compagnia durante le sedute. E devo ammettere che la cosa mi ha alquanto sorpresa.

«Alan, davvero, non devi per forza venire con me»

«Ehi, sono tuo fratello! Se non lo faccio io, chi altro?» mi rispose lui, con un sorriso sincero.

Io inarcai le sopracciglia, scettica. «Sei sicuro?»

«Dio mio, Jane! Se non mi vuoi, dillo e basta!» sbuffò lui, con fare indignato.

«Non è che non ti voglio, è che... Insomma, non vorrei che poi andassi più in ansia di me, ecco»

«E perché dovrei?»

«Perché tu ci tieni più di quanto ci tenga io»

Per un attimo, vidi il suo volto scurirsi, ma fu una cosa tanto veloce che, adesso, quasi penso di essermelo sognato. Tornò a sorridere subito dopo, come se quelle mie parole non avessero sortito alcun effetto su di lui.

«Tengo a te, però. E voglio venire perché non ho più intenzione di lasciarti da sola» rispose, risoluto, e, nel farlo, mi guardò con occhi ridenti e fiduciosi, nello stesso modo in cui non mi aveva più guardata per mesi. Insistevano così tanto da farmi accettare la sua proposta senza troppi ripensamenti.

Ti dirò, è strano il fatto che Alan abbia totalmente cambiato atteggiamento nei miei confronti. Ormai è un mese che non parla più del bambino con l'unico scopo di convincermi a tenerlo e tutto il resto. Non penso che sia ancora favorevole a questa cosa dell'adozione, ma mi pare che l'abbia almeno accettata. Adesso è diventato... Comprensivo. E questo suo nuovo atteggiamento aperto ha reso l'atmosfera in casa molto più respirabile, la cosa mi sta aiutando tantissimo ad uscire pian piano dal mio guscio di insicurezza e paura.

Sembra quasi di essere tornati indietro nel tempo, a quando io e lui eravamo complici, non rivali. E provare quella pace, rivivere l'armonia di quei momenti... Mi fa star bene, mi fa sentire sollevata. Non so cosa gli abbia fatto cambiare idea: non ha voluto dirmelo. Ma non importa poi molto, finché io e lui siamo di nuovo quello che eravamo, quello che ci eravamo promessi di essere: uniti.

E quindi, alla fine, ho permesso ad Alan di accompagnarmi al primo incontro di preparazione al parto. Ma, come avevo predetto, lui era quello tra i due che andava in ansia per le più piccole cose, a partire dal giusto movimento del petto durante la respirazione al numero di secondi durante i quali trattenere il fiato. E la cosa non faceva altro che mandarmi ancora di più in ansia.

«Oh, andiamo! Non è stato poi così male!» cercava di giustificarsi lui, una volta usciti dall'ospedale in cui si teneva il corso.

«Certo, se non fosse per il fatto che avresti dovuto essere tu quello a farmi rimanere calma, non il contrario» replicai, in tono serioso. «Se fossi venuta da sola, sarebbe stato lo stesso»

«Quanto sei rompiscatole...» brontolò lui, cacciandosi di tasca le chiavi dell'auto. «Cercavo solo di essere di compagnia»

«Apprezzo il tentativo, davvero» sorrisi io, la mano già posata sulla maniglia della portiera, pronta a far forza e tirarla verso di me.

Ma quella forza, per qualche strano motivo, mi mancò. Venne meno in ogni muscolo del mio corpo, facendo calare un velo nero sopra ai miei occhi. Mi lasciai andare senza volerlo e caddi a terra senza saperlo. Durò un attimo solo, di questo ero abbastanza sicura. Chiusi gli occhi ma, quando li riaprii, mi ritrovai stesa su una barella che, veloce, correva lungo dei corridoi infiniti, bianchi e vocianti. Alan era accanto a me, a stringermi forte la mano, e camminava con l'andatura rapida che ben rispecchiava la preoccupazione sul suo viso, divenuto pallido tutto d'un tratto.

Lo chiamai, con voce biascicante. E, nonostante il tono bassissimo, lui si voltò verso di me, sorridendomi di sollievo. Mi disse che avevo appena perso i sensi e che ero caduta di peso. Mi stavano portando al pronto soccorso, per poter escludere gravi danni al bambino. Lo disse con calma, forse per non farmi preoccupare, ma non ci riuscì per nulla.

Quelli che seguirono la mia visita, furono lunghi minuti di attesa angosciosa. La possibilità più grave era il rischio di un parto pretermine a causa della rottura del sacco amniotico (praticamente, le acque si sarebbero rotte prima del previsto) o altri traumi direttamente sul bambino. Aspettai con ansia l'arrivo della ginecologa. Tanto in ansia. Soprattutto per quel pensiero, quel martello che mi picchiava in testa senza tregua, sin dal primo secondo in cui mi avevano esposto i pericoli a cui sarei potuta andare incontro.

"Ecco. Non mi vuole più" pensai, e la mia mente era corsa al bambino che io avevo rifiutato e che, adesso, rifiutava me. Perché si era accorto di quanto io fossi inadatta, impreparata, inesperta. Fisicamente e psicologicamente. Si era reso conto che io, in ogni caso, lo avrei dato via, e forse aveva deciso di togliere il disturbo il prima possibile. Senza nemmeno sapere perché... Mi dispiacque. No, anzi, di più: mi ferì. Quell'idea mi ferì più di quanto avrebbe dovuto.

Ma quelle non sembravano affatto essere le sue intenzioni. Oh, per nulla.

Dall'ecografia che mi fecero, venne fuori che sia il sacco amniotico che la placenta erano a posto. Ma non il bambino. Lui aveva deciso di fare di testa sua, imporsi persino prima di nascere. Come avrebbe forse fatto suo padre. O persino sua madre, in un tempo che temo di aver ormai dimenticato.

«Il bambino risulta essere in posizione podalica. Se non si gira entro la trentaquattresima settimana, temo che dovremo operare di parto cesareo»

12 Novembre 2012

Sarebbe potuta andare peggio.

Fu l'unica cosa che riuscì a rassicurarmi, l'unica che, seppur ripetuta all'infinito e in tono stanco e straziato, non mi parve affatto assillante. Voglio dire... Le altre possibilità, come il parto prematuro, erano di gran lunga peggiori. In fin dei conti, avevo ancora un sacco di tempo, prima di raggiungere la trentaquattresima settimana, e la dottoressa mi aveva anche dato dei pratici consigli per "invogliare" il bambino a girarsi, come un particolare tipo di ginnastica e altre cose così. Se proprio non fossi riuscita ad evitare il parto cesareo, mi sarei ritrovata con giusto una cicatrice appena sotto l'ombelico. Non era poi così grave. No?

No.

Lo era, invece, ed io faticavo a respingerlo. La verità è che... La cosa non faceva altro che spaventarmi ancor di più. Mi sembrava davvero che l'universo ci godesse, ad allontanare la fortuna da me proprio quando mi trovavo in procinto di afferrarla. Proprio ora che mi sembrava che le cose stessero tornando alla loro normalità.

Il fatto è che, non appena mi è stato spiegato come funziona un parto cesareo, mi sono sentita gelare il sangue nelle vene. Operazione chirurgica, anestesia locale, incisione nel basso ventre... Cicatrice.

Una cicatrice. Era tutto quello che mi sarebbe rimasto. Un segno chiaro ed indelebile marchiato a fuoco sulla mia pelle, per sempre, e non come le migliaia di altre che mi attraversavano l'anima. No, questa volta sarebbe stata vera. Come un monito, a ricordarmi che lì fuori, da qualche parte, viveva mio figlio. Il figlio che io avevo dato via perché troppo egoista per prendermi le mie responsabilità. Quel figlio che mi stava causando tanti problemi e tante incertezze ma che io, in nessun modo, riuscivo comunque ad odiare.

Quel figlio che sarebbe cresciuto più felicemente di quanto avrebbe mai fatto con me. Quel figlio a cui io volevo dare una possibilità di vita migliore, magari agendo nel modo sbagliato.

Quel figlio che, in un certo senso, avrei voluto dimenticare, cancellare dalla mia esistenza. Almeno per un po', fino a quando sia io che lui saremmo diventati abbastanza adulti e maturi per affrontarci.

Ma quella cicatrice stava per rovinare tutto. Stava per mandare all'aria il piano con cui mi sarei decisa ad andare avanti. Sarebbe rimasta solo per tormentarmi, farmi ricordare che pessima persona fossi, che pessima madre, che pessima guerriera. Per farmi ripetere quanto fossi debole e senza speranza, quanto fossi stupida ed egoista. Ed io, guardandola, non avrei fatto altro che darle ragione.

25 Novembre 2012

La fine di novembre non fa altro che portare un solo messaggio e una sola aria in giro per Nottingham. La stessa, solita atmosfera che per anni ho visto apparirmi davanti agli occhi come per magia: manca esattamente un mese a Natale.

È buffo, sai? Vedere che, alla fine, nulla sia davvero cambiato. Le stesse lucine, le solite decorazioni, i maglioni caldi, la neve che cade, i film visti e rivisti, le canzoni alla radio tintinnanti di campanellini... Alla fine, nessuno sembra accorgersi davvero che c'è qualcosa di diverso, quest'anno. Ognuno, chiuso nel proprio mondo, nella piccola sfera della propria vita, accoglie l'arrivo imminente della festività più attesa dell'anno con gioia e impazienza.

Ed io, invece... Più vado avanti e più ricordo. Frammenti di memoria mi trafiggono la testa come vetri di uno specchio in cui si riflette il mio presente. Perché nel vedere queste luci colorate, l'abete finto, nel sentire l'odore di zenzero e biscotti, ritorno con la mente ad un periodo della mia vita in cui il Natale mi piaceva sul serio, a quando non avevo tanti problemi da risolvere e poche idee per farlo.

Ma, in modo più vivo e forse più insistente, mi riporta all'anno scorso. A quando ancora non sapevo a cosa stavo andando incontro, in quali maledetti guai sentimentali mi sarei cacciata, a quando... A quando Sherlock c'era ancora. E so che sembrerà banale e terribilmente scontato, ma... Probabilmente ho passato con lui il miglior Natale della mia vita, anche se non si direbbe. E non tanto perché ci siamo ritrovati ad andare in giro per l'Inghilterra a risolvere gli indovinelli di un pazzo omicida, né tantomeno perché è stato il primo quanto fallimentare tentativo di fargli incontrare la mia famiglia, piuttosto perché ero finalmente riuscita a sentirmi a mio agio nel giorno di Natale. E, ti giuro, alle feste in famiglia era raro che non mi sentissi sola e fuori luogo.

È così che capita, no? Ti ritrovi insieme al gruppo di parenti a cui dovresti essere più legato e che, tecnicamente, dovrebbero conoscerti di più, ma che comunque chiedono dettagli sulla tua vita, nella speranza che qualcosa sia cambiato in appena qualche mese, e ti fanno domande a cui di rispondere faresti volentieri a meno. Per anni mi sono vista costretta a fuggire dalle loro oppressioni, ritrovandomi sempre insieme ad Alan che, magari, avrebbe preferito anche parlare con qualcun'altro, invece che farmi da baby-sitter.

Con Sherlock, invece... Non so, era l'esatto opposto. Non mi sentivo più sola, di peso, fuori luogo. Forse perché, in realtà, era lui l'estraneo all'interno della mia vita.

Quest'anno, però, sarà diverso. Molto diverso. Soprattutto perché sarà per la prima volta senza Alan. È una cosa strana da immaginare, ma è giusto che lui voglia passare la vigilia insieme alla famiglia di Georgia, la sua ragazza. È un suo diritto, dopotutto.

Il fatto è che... Ero rassicurata dal fatto che la sua presenza mi avrebbe aiutata a far fronte a tutti gli sguardi al pancione, le domande invadenti, i sospiri di tenerezza nell'ascoltare la mia storia, e a tutte quelle altre cose che avrebbero potuto rendere questo Natale il peggiore di sempre. Però poi è arrivata quella telefonata, che ha fatto saltare in aria ogni cosa. E, sinceramente, non so fino a che punto questo possa essere un bene.

Devo ammettere che fu qualcosa di davvero inaspettato. Mi ritrovai, ad un certo punto di un pomeriggio qualsiasi, con Alan in piedi davanti al divano su cui ero sdraiata a leggere.

Mi tendeva la cornetta del telefono, con una strana espressione sul volto. «È per te» disse soltanto, ed io ancora oggi mi chiedo se sapesse chi c'era dall'altra parte.

Allungai la mano e presi il ricevitore, portandomelo poi all'orecchio. «Pronto?»

«Uhm... Sì, salve. Parlo con Jane Aldernis?» mi rispose una voce femminile, incerta.

Aggrottai un poco la fronte, confusa. «Ehm... Sì, sono io» confermai, con lo stesso tono titubante della mia interlocutrice. «E lei è...»

«Oh, io sono... Sono Helen Holmes, la... Mamma di Sherlock»

Tacqui. Per un lungo momento, tacqui, e per un lungo momento mi ritrovai con migliaia di migliaia di pensieri in testa, a vorticare alla velocità della luce. Un momento solo, ma fu lungo. Fu lungo davvero.

Tacqui, non sapendo proprio come portare avanti la conversazione, cosa chiedere, cosa pretendere. Alzai lo sguardo verso Alan, in cerca di aiuto, ma lui, per tutta risposta, rimase immobile a fissarmi, la schiena appoggiata ad una parete e le braccia incrociate al petto.

«Oh, ehm...»

Presi a balbettare senza una ragione apparente. Ero imbarazzata, questo è certo. Non sapevo proprio come rivolgermi a lei, cosa dire, come pormi. Ero confusa, e perciò tacqui, di nuovo. E la cosa non andava bene.

«Salve» dissi, infine.

«Ciao, cara» rispose lei subito dopo, sebbene a me fosse parso che tra le mie parole e le sue fossero passati dei secoli. «Posso parlarti per qualche minuto o sei occupata?»

«Oh, no, no, non si preoccupi!» la tranquillizzai io, scattando a sedere dritta sul divano. «Mi dica tutto. Posso esserle d'aiuto in qualche modo?»

In un certo senso, quasi credevo che mi avrebbe chiesto di Sherlock, del suo suicidio, di dettagli di cui io potevo essere a conoscenza. Nella mia mente, avevo già immaginato che stesse conducendo una specie di indagine su di lui, per poter scoprire una verità che i media, la polizia e tutti quanti le avevano nascosto o negato. E sperai con tutta me stessa, in un secondo istante, che fosse quello il motivo della telefonata.

Ma lei non mi chiese nulla di simile. Probabilmente non le era nemmeno passato per la testa, di condurre delle indagini sul suicidio del figlio. Forse ero solo io che ne ero ossessionata e basta.

«Ecco, in realtà... Vorrei solamente farti una domanda. Sai, mi tormenta da giorni, e... Ho bisogno di una risposta» iniziò a spiegarmi, un po' reticente. «Vedi, Mycroft, nostro figlio... Ci ha detto che tu... Insomma, che aspetti un bambino. Da Sherlock»

Rimasi spiazzata, lo ammetto. Anche se, tutto sommato, avrei dovuto aspettarmelo. Non attesi nemmeno che mi facesse la domanda, quel "È vero?" che dovrebbe fare da conferma ma che, di solito, confonde solo le idee più del dovuto.

Sospirai e chiusi gli occhi. «Sì, è vero»

E la mia risposta non fu altro che la più irrevocabile delle conferme.

Questa volta, fu lei a tacere. Non capii nemmeno perché avrebbe dovuto farlo: ero io quella a doversi sentire in imbarazzo, tutto sommato, non lei.

Sospirò, come me, ma non con fare stanco. Più come se... Si fosse tolta un peso. «Okay» rispose, molto semplicemente. «Okay, grazie»

Rimase di nuovo in silenzio, ed io insieme a lei.

«Senti... Vorrei chiederti un favore» aggiunse poi. «A me e mio marito farebbe davvero piacere conoscerti, sai? Mycroft ci ha detto quanto tu tenessi a Sherlock. Quindi stavamo pensando... Ti andrebbe di festeggiare la vigilia di Natale con noi?»

Tacqui. E mi venne da credere che quella sarebbe stata la volta definitiva in cui non avrei più aperto bocca.

«Puoi portare la tua famiglia, se ti va»

Tacqui.

«Sarà qualcosa di molto semplice, te lo assicuro»

Tacqui.

Tacqui e non seppi nemmeno per quanto. Non contai i secondi, come forse avrei dovuto. Temevo di parlare di nuovo, di dare la mia risposta impulsiva solo per pentirmene subito dopo. Tacqui e pensai. Pensai tanto, domandandomi quale sarebbe potuta essere la scelta ideale. Ma più me lo chiedevo e più la risposta mi sfuggiva dalle dita. Alla fine, la risposta che diedi, per quanto sicura, non mi piacque lo stesso. Mi sembrava troppo indecisa e fredda, ma era l'unica di cui potevo servirmi. Quindi la usai, pentendomene subito dopo.

«Ehm... Potrei... Potrei pensarci su, prima?»

Eppure lei sembrò comunque accettarla a mani tese.

«Oh, ma certo!» disse, ed ebbi l'impressione che avesse appena sorriso. «Prenditi tutto il tempo di cui hai bisogno. Non preoccuparti»

Non appena ebbi terminato la telefonata, abbassai la cornetta, mi rialzai per rimetterla a posto e mi avvicinai al frigorifero, sul quale attaccai un post-it con su scritto il numero di telefono degli Holmes, nel caso in cui avessi voluto richiamarli io. Guardai quelle cifre a lungo, come se fossero lettere. Mi resi conto all'improvviso di essermi prepotentemente infilata all'interno di quella famiglia, imposta come membro anche se senza volerlo. Ma poi ripensai al modo in cui Helen Holmes mi aveva salutata, con quella voce dolce e materna, quasi mi considerasse già parte della famiglia. Ed ebbi quasi l'impressione che, invece, fosse stata lei ad invitarmi ad entrare.

14 Dicembre 2012

Alla fine, la trentaquattresima settimana è arrivata senza nemmeno farsi sentire, proprio come il Natale. Ho chiuso gli occhi e l'attimo dopo era già lì, pronta a riscuotere i risultati del mio periodo di consapevolezza del problema. E nulla è successo più di quello che, probabilmente, mi sarei dovuta aspettare. Era di sicuro stato deciso da chissà quale forza suprema o quali casualità che si erano messe d'accordo.

"Nessun cambiamento nella posizione: il bambino nascerà tramite parto cesareo"

Me lo sono fatto dire dalla mia ginecologa di Nottingham e poi da un'altra a Londra, da dove sto tornando adesso col treno che corre attraverso la campagna inglese a nord della capitale. Erano mesi che non ci tornavo, sai? Mi sono sempre tenuta alla larga dalla possibilità di farlo: troppi ricordi ancora brucianti e nessun posto dove realmente andare Ma, alla fine, ho deciso di farmi coraggio, semplicemente perché me la sentivo. Ed è stato strano rendermi conto che nemmeno Londra è affatto cambiata, nonostante viva ormai nel pericolo costante di qualsiasi crimine. Non mi sono neppure recata al cimitero. Quello non me la sentivo di farlo. Non così presto. Ho voluto risparmiarmi le lacrime per qualcos'altro.

Quindi, mi sono limitata a fare la mia visita al Saint Thomas' Hospital, ricevere le mie conferme, le mie analisi e tutto il resto, e me ne sono tornata a casa. Dopo essermi incontrata con John, ovviamente. O meglio, è stato lui a venire in ospedale da me per farmi compagnia durante la visita, prendendomi totalmente alla sprovvista. Era davvero premuroso, non c'è che dire. Forse Alan gli ha trasmesso una sorta di virus, in qualche modo. Figurati che l'infermiera che mi stava facendo prelievi l'ha persino scambiato per il padre del bambino.

«Oh, no, no!» ci affrettammo a specificare, entrambi presi dal panico.

«Noi siamo solo...»

«Amici»

«Amici, sì»

«Io vengo da fuori Londra e John abita qua, invece. Si è solo offerto di accompagnarmi»

«Precisamente. Sa, io sono un medico. Me ne intendo, di certe cose»

Mi voltai nella sua direzione, con uno sguardo accigliato per il tono accattivante da lui utilizzato. Mi ritrovai a fissare sbalordita il sorrisetto galante che John aveva ad incorniciargli il volto, mentre gli occhi erano fissi sulla figura dell'infermiera. Quella, di qualche anno più grande di me, dai capelli biondi tagliati a caschetto e gli occhi grigi ma estremamente vivi, sorrise di rimando a John, con un'aria di indifferenza e... Direi altezzosità.

«Beh, buon per lei» rispose, avendo ben intuito dove John volesse andare a parare con quella sua ultima frase, pur senza alcun successo.

E, non so perché, ma a quella scena trattenni a stento una risatina. Soprattutto per l'espressione che John aveva assunto dopo la risposta dell'infermiera. Doveva averlo colpito nell'orgoglio, o semplicemente lui era stato parecchio bravo a capire l'antifona, perché uscì dalla sala dopo appena qualche decina di secondi, a detta sua per fare una telefonata. Io e l'infermiera ci guardammo, scambiandoci un'occhiata complice, e scoppiammo a ridere, ad alta voce, come due ragazzine.

«Il tuo amico è esilarante!»

«Lo so, perdonalo. Fa sempre così, quando vede una bella ragazza» risposi, il tono ancora leggermente rotto dalle risa.

«E di solito ha successo?»

«Non uno duraturo»

Ci presentammo. Mi disse di chiamarsi Mary e, insieme, ci mettemmo a parlare del più e del meno, come vecchie amiche, anche durante la visita, sotto l'espressione esasperata della ginecologa e di John che, rientrato in sala, rimase in silenzio per tutto il tempo, eccetto per domande occasionali su come mi sentissi.

Era parecchio che non mi capitava di trovare una persona di sesso femminile che mi stava simpatica a pelle. Dopo quello che è successo con Amanda, tornare a fidarmi delle persone in genere è fin troppo difficile per me. Sherlock non ha fatto altro che aggravare la situazione. Però Mary era simpatica. La trovavo davvero eccezionale.

Alla fine della visita, quando ormai stavamo per andarcene, mi fermò un attimo sulla soglia della porta per darmi un biglietto di carta, che lessi solo in seguito.

"Da' al tuo amico John il mio numero, qua sotto. Non farti strane idee: è solo perché lavora in un ambulatorio e io sono stanca di fare i turni all'ospedale"

Sorrisi raggiante, nel leggere quelle poche e sbrigative righe. Poi girai il pezzo di carta e trovai un poscritto sul retro.

"P.S. Tanti auguri per il piccolo: sono sicura che andrà tutto benissimo!"

Lentamente, le mie labbra si curvarono verso il basso, in un'espressione triste e malinconica, causata solo da un nuovo senso di inadeguatezza all'interno del mio stomaco.

Mesi prima, avevo ricevuto da Lestrade un biglietto simile, in cui mi diceva che Scotland Yard avrebbe condotto delle ricerche su Richard Brook, James Moriarty e Sherlock Holmes, cosicché giustizia fosse fatta. Terminava allo stesso modo: stesso proscritto, stessi auguri sinceri, stessa sensazione rimasta. Da una parte, mi aveva fatto piacere ricevere quel messaggio dall'ispettore, perché mi aveva fatto sentire... Importante, direi. Come se persino lui, nonostante ci fossimo incontrati in rare occasioni, si fosse accorto che tra me e Sherlock c'era qualcosa. Che per Sherlock c'era qualcosa, e che non era tutto solo un enorme scherzo della mia testa. E lo stesso valeva per il messaggio di Mary, perché sapevo che entrambi me li avevano fatti con tutta la sincerità dei loro cuori.

Eppure, dall'altra... C'era qualcosa che non mi andava a genio. Qualcosa che mi infastidiva, fino a farmi quasi schifo.

«Non la smetteranno mai...» sospirai, infine, allungando il biglietto a John senza guardarlo negli occhi. «A congratularsi e augurarmi il meglio, dico»

Ecco cos'era: il fatto che, alla fine, ogni discorso si concludesse sempre con quello, con la gravidanza, il bambino, e tutti gli auguri di una potenziale felicità. Come se esserlo fosse scontato. E no, non lo era. Non per me. Perché di me non sapevano nulla. Per me, ormai, la felicità non è altro che una serie di momenti brevi ed effimeri di una gioia evanescente e senza più speranza.

25 Dicembre 2012

Oggi è Natale. E, sai, è strano sentirmelo dire.

Oggi è Natale, ma non sembra nemmeno. Sarà che ci sono arrivata senza volerlo, sarà che l'ho trascorso in modo diverso, sarà che... Che è quello che è.

Ieri sono andata ad Horsham, per "festeggiare" con i genitori di Sherlock. Io e la mamma, per la prima volta senza Alan. Ho voluto io che non venisse, nonostante lui abbia insistito tanto. Sapevo che era suo diritto andare con Georgia, quindi gli ho praticamente sottratto il dovere di stare con me. Alla fine, non è stato così male come credevo.

Helen e Carlton Holmes sono venuti a prenderci alla stazione e, insieme, siamo andati a casa loro: una tenuta poco fuori la cittadina, isolata e circondata da un enorme prato verde e sconfinato. Non ti saprei neppure dire come, ma mi sono da subito sentita la benvenuta, con loro. Come una di famiglia. Non c'è stato neppure un secondo in cui mi sia sentita in imbarazzo per la mia e la loro condizione. Sono due persone gentilissime, sotto ogni aspetto. Devo ammettere che ho persino stentato a credere che Sherlock fosse figlio loro, che facesse parte di una famiglia così... Perfetta.

«Sai, ci avevamo perso le speranze» scherzò Carlton, mentre stavamo sparecchiando insieme la tavola, a pranzo finito. «Che Sherlock ci portasse una ragazza a casa»

Risi, abbassando gli occhi per poi rialzarli subito dopo. «Diciamo che non era proprio sua intenzione farlo»

«Sciocchezze, cara» s'intromise Helen, riemergendo dalla cucina insieme a mia madre, tenendo tra le mani un'enorme porzione di pudding che poi posò sul tavolo. «Sei davvero una persona straordinaria. Saresti stata perfetta, per lui»

Ci fissammo a lungo negli occhi e, stranamente, mi sembrò più convinta di quanto mi sarei aspettata. Come se lo fosse davvero, e non per semplice circostanza. Voglio dire... Nemmeno mi conosceva, se non per quelle poche informazione che ci eravamo scambiate durante il pranzo. Ma il suo sguardo mostrava un'audace sicurezza, certamente difficile da smuovere.

«Dunque!» riprese Carlton, posando i piatti sporchi sul tavolo per andare a prendere quelli per il dolce. «Tra quanto nascerà il piccolo, più o meno?»

Rivolsi di nuovo lo sguardo verso di lui, ricambiando il suo sorriso in maniera impacciata. «Ah, ehm... Tra circa un mese. Il parto è fissato per il 20 gennaio»

«Fissato?»

«Mi è stato detto che opereranno tramite cesareo»

Helen aggrottò la fronte, visibilmente confusa. «E perché?»

«Oh, nulla di grave: hanno solo scoperto che il bambino è in posizione podalica»

«Nascerà a Nottingham?» chiese Carlton.

«No, Londra» risposi io. «Ho già fatto richiesta al Saint Thomas' Hospital»

«Sì, ha insistito tanto su questo aspetto» aggiunse mia madre, sorridendo. «Dice che è più sicuro»

«Non c'è che dire: gli ospedali di Londra sono i migliori!» disse Carlton, annuendo. «Davvero un'ottima scelta»

A ripensarci, credo proprio che quello sia stato l'unico momento di tutta la giornata in cui l'imbarazzo fu l'unica cosa che calò nella stanza e riuscì a rimanerci, insieme ad un silenzio pesantissimo.

Mi resi conto che i genitori di Sherlock stavano probabilmente vivendo all'interno di un'enorme bugia, dietro a un velo che impediva loro di conoscere la verità sull'adozione. Una parte di me avrebbe voluto dir loro tutto. E cioè che io non volevo partorire al Saint Thomas' per la sua rinomata fama, quanto piuttosto perché era lontano. Lontano da Nottingham e dalle sue vie, lontano da me e da casa mia, lontano dalla possibilità di incontrarlo per strada, un giorno, e rendermi conto di quello che avevo perso. E che io non potevo permettere che accadesse, perché le decisioni non sono fatte per essere rimpiante. Non quelle a lungo pensate, almeno.

Ma non ci riuscii, a dirglielo. Loro sembravano così felici... Come se io fossi l'ambasciatrice di una nuova speranza in arrivo. Quindi l'unica cosa che fui in grado di fare fu abbozzare un sorrisetto e abbassare di nuovo gli occhi, questa volta per evitare che vi leggessero dentro come avrebbe fatto Sherlock.

«Già...» mormorai soltanto. «Un'ottima scelta»

«E avete già deciso che nome dargli?»

Mi volsi verso Helen lentamente, ritrovandomi di nuovo davanti al suo sorriso gentile e fiducioso. Mi colse di sorpresa, totalmente. Perché ad un nome, un modo per chiamarlo, per rivolgermi a lui, non ci avevo mai pensato. Nemmeno per un secondo, come se non fosse abbastanza importante. Forse non volevo darmi qualcos'altro per cui ricordarlo, qualcosa che... Mi legasse a lui.

«Ehm...»

«No, in realtà no» s'intromise mia madre, sorridendo a sua volta. «Abbiamo avuto così tanti pensieri per la testa, ultimamente... Però pensavamo di chiamarlo come mia madre, Aida. Quindi Aden»

Guardai lei, che si girò a sua volta, il sorriso ancora sul volto, e mi gettò una veloce occhiata piena di mute parole, prima di tornare di nuovo con lo sguardo verso gli Holmes.

«Ah, che bella idea!» esclamò entusiasta Helen, accingendosi a dividere il pudding in delle scodelle. «Mi piace, suona anche bene: Aden Holmes»

Ebbi un tuffo al cuore. Un momento in cui il sangue bloccò il suo normale flusso e la mia testa si congelò, facendo avvertire caldo e freddo lungo la schiena contemporaneamente. E fu lì, proprio lì, che l'imbarazzo si trasformò in oppressione. In mancanza d'aria e di spazio. In mancanza di... Tutto.

«Sì, lo pensiamo anche noi»

«Scusatemi...»

Per un motivo o per un altro, presi i piatti sporchi impilati sul tavolo e li portai in cucina, muovendomi veloce lungo il corridoio. Mi fermai lì forse per più tempo del dovuto, ma proprio non me la sentivo di tornare. Non sono sicura del fatto che loro due se ne fossero accorti, che io stessi nascondendo qualcosa, che il mio tono era l'unica cosa sincera nella mia risposta. E quel dubbio mi pesava incredibilmente sull'anima. Non lo trovavo giusto, mentire alla luce del sole e in modo così tremendamente palese, eppure lo facevo. Mi nascondevo. Ancora una volta, mi chiudevo in me stessa davanti a tutti.

«Dovresti dirglielo»

Ma mamma lo aveva fatto. Aveva compreso la mia angoscia e i miei sensi di colpa, e non ci pensò su due volte prima di farmi presente la sua opinione.

Mi voltai verso di lei, ritrovandomi a fronteggiare il suo sguardo di rimprovero. La guardai, prima di girarmi verso la porta del salone, ad osservare gli Holmes che litigavano scherzosamente sul modo giusto di impiattare il pudding. E nel guardarli, mi ritrovai per un secondo ad immaginare cosa sarebbe successo, se le cose fossero andate diversamente. Se Sherlock fosse stato ancora vivo, se io non avessi preso la mia decisione. Senza nemmeno sapere perché, credetti che la nostra realtà, mia e di lui, non sarebbe stata molto diversa da quella che mi si era palesata davanti agli occhi per un'intera mattina.

«Perché dovrei?» risposi. «Hanno già avuto abbastanza dolore, non credi? Non farei altro che peggiorare le cose»

«È giusto che lo sappiano, Jane»

«Che sappiano cosa?» replicai, alzando un poco la voce. «Che non posso tenerlo perché sono egoista e troppo testarda per cambiare idea?»

Sapevo già cosa avrebbe risposto ma che, in ogni caso, non riuscì a dirmi. Darmi ragione o non farlo sarebbe comunque stato inutile, sotto tutti i fronti. Lasciò perdere, senza aggiungere nulla di troppo, e insieme tornammo in salone. Quando rientrammo, Helen e Carlton avevano appena finito di sistemare le nostre porzioni di pudding davanti alle sedie che avevamo occupato durante il pranzo. Entrambi si voltarono verso di noi, le espressioni serie sui volti fino a poco prima divertiti.

Fu solo in quel momento che mi resi conto che qualcosa non andava. C'era un silenzio nella stanza, che non era né imbarazzato né triste. Era solo... Strano.

Li guardai e sorrisi loro, nel modo più naturale possibile. «Tutto bene?»

Fu allora che anche Helen sorrise. Il sorriso più dolce e materno che avrebbe mai potuto rivolgermi. A me, ad una sconosciuta.

«Vieni con me, Jane» mi disse, accennando con la testa verso le scale che portavano al piano superiore della casa. «Voglio darti il nostro regalo di Natale»

La seguii con una bizzarra sensazione di paura a mangiarmi piano lo stomaco. O era ansia? Ora come ora, non sarei nemmeno capace di descriverla con esattezza. Una volta arrivate al piano superiore, attraversammo un corridoio dalla carta da parati e la moquette di colori caldi e accesi, addobbato con ghirlande natalizie e nastri dorati e rossi. Un corridoio che a me pareva infinito.

Mi portò davanti ad una porta, su cui erano rimasti attaccati dei fogli colorati raffiguranti simboli pirateschi, disegnati col tratto incerto di un bambino. Aprì la porta e si fece da parte per farmi passare: mi ritrovai catapultata all'interno di un galeone di corsari, perfetto in ogni dettaglio, ma delle dimensioni di una cameretta.

«L'ha personalizzata così quando aveva quattro anni» disse Helen, rimanendo sulla porta. «Avrebbe potuto modificarla, ma non l'ha mai fatto. Non so se per disinteresse o perché gli faceva piacere tenerla così»

Mi voltai verso di lei, confusa. «Vuoi dire che...»

«Che era la sua stanza» finì lei per me. «Di Sherlock, sì»

Tornai di nuovo a guardarmi attorno e mi misi a studiare tutti i dettagli estremamente meticolosi di quel luogo che aveva ad un tratto assunto una valenza speciale. Il colore delle tende, del tappeto e del copriletto ricordava il blu del mare, il muro dietro la testiera presentava la figura stilizzata di un enorme galeone nero, dal soffitto pendeva una bandiera di stoffa stracciata, al cui centro era cucito un teschio bianco formato da altre strisce di tessuto. Una sola parete, quella accanto alla porta, era intatta dallo stile piratesco, ma non per questo era rimasta in disuso. Mi avvicinai ad essa, notando le migliaia di piccoli fori probabilmente causati da delle puntine, e che a me erano tanto famigliari. Forse persino troppo.

«Ah, sì: era lì che di solito appendeva le informazioni dei casi che lo interessavano. Omicidi, furti, sequestri... Non se ne faceva sfuggire uno. A volte, risolveva anche i casi dei libri che leggeva. Diceva che gli serviva come allenamento per quelli veri, anche se li trovava sempre troppo semplici»

Mi lasciai sfuggire un sorrisetto, quasi contento, magari addirittura nostalgico. Mi riportò indietro di mesi in appena un secondo, e le migliaia di ricordi tornarono tormentosi a sorridermi beffardi, come se si stessero divertendo. Ricordi di noi due insieme, ricordi di quando andava ancora tutto bene. Ricordi di un Natale passato in cui, probabilmente, era nata quella prima scintilla di energia pura e positiva che, però, si è trasformata in un incendio distruttore.

«Non ha mai perso quell'abitudine»

«Lo immaginavo»

Entrò nella stanza e si avvicinò alla libreria alle mie spalle e dalla quale estrasse un libro per bambini, perfetto nella copertina, nei disegni dai colori ancora luminosi, nelle pagine lisce e bianchissime.

«Era il suo preferito» mi spiegò Helen, allungandomi il volume. «"Barbagialla e Barbarossa alla ricerca del cristallo dei Sette Mari". Lo adorava»

Presi in mano il libro, soffermandomi ad osservare la copertina, tracciare le linee dei disegni, sfiorare con le dita le lettere di quel nome che fu per primo in grado di formare un legame quanto mai indistruttibile tra noi.

«Barbarossa...»

«La storia di due nemici che si uniscono, mettendo da parte le proprie divergenze, per raggiungere un obiettivo comune e sconfiggere un male peggiore: il temutissimo Barbanera» recitò a memoria lei, sorridendo di nostalgia. «È per questo che gli piaceva: la trovava una storia furba, originale. Credo che la sapesse a memoria, per tutte le volte che ho dovuto leggergliela»

Lo sfogliai, pagina dopo pagina, scorrendo tra gli acquerelli colorati e le parole nere e grandi che riempivano facciate intere. Lo richiusi e feci per ridarlo ad Helen, ma lei scosse il capo, sorridendo, e lo spinse di nuovo verso di me.

«No, tienilo» mi disse, semplicemente. «È il nostro regalo di Natale per te. È tuo, adesso»

Ritirai le mani, incerta, tornando a fissare la copertina lucida. «Davvero?» chiesi, in tono sorpreso.

«Certo!» esclamò lei. «A me e Carlton farebbe piacere se lo avesse il bambino»

Mi gelai. E non su solo per quel regalo insolito, impensabile perché prezioso per me quanto per loro, ma per quella richiesta. Quella richiesta perfettamente normale, comprensibile oltre ai limiti. Una specie di regalo di Natale che avrebbe dovuto essere da parte mia, ma che mai, in nessuna circostanza, sarei stata in grado di soddisfare.

«No...» mormorai, scuotendo la testa con inaspettata violenza. «Mi dispiace, ma io... Non posso accettarlo»

«Jane, ti prego...»

«No, davvero, non posso»

Aveva ragione la mamma: avrei dovuto dirglielo fin dall'inizio, e di certo avrei evitato tali spiacevoli situazioni, che non fecero altro che aumentare il mio senso di inadeguatezza come persona, come madre.

Misi il libro in mano ad Helen e lo lasciai lì. Quasi la forzai a tenerlo. «Non posso proprio»

Avevo le lacrime agli occhi, la voce rotta, l'anima a pezzi. E Helen, davanti a me, mi fissava con quello sguardo dolce, il sorriso strano. Poi abbassò gli occhi sul libro e annuì, comprensiva.

«Mycroft ci ha... Detto cosa vorresti fare» mormorò, senza alzare la testa.

Nemmeno mi stupii troppo della cosa: dopotutto, Mycroft Holmes aveva la mania di tenere ogni cosa sotto il suo rigido e severo controllo, soprattutto quelle che lo tangevano personalmente. Sherlock e chi gli stava intorno erano due di quelle.

Non mi stupii, e forse avrei dovuto. Avrei dovuto per il semplice fatto che ogni cosa, ogni gesto compiuto in quella casa non avesse avuto altro che un secondo fine: quello di convincermi a tenere il bambino. A tenere con me quella parte ancora viva di Sherlock che avrebbe potuto preservarne una parte del ricordo.

«Io non... Non ce la faccio, Helen» balbettai, trattenendo a stento le lacrime. «Non ce la faccio, non posso...»

«Lo so, tesoro, lo so» tentò di tranquillizzarmi lei, poggiando il libro sula scrivania accanto a noi e afferrandomi per le spalle con entrambe le mani. «So perfettamente che la situazione è quella che, e che non è delle migliori, ma... Voglio solo che tu sappia che per me tu puoi farcela» Si fermò un attimo, mi guardò dritta negli occhi, serissima. «Perché se mio figlio ha scelto, involontariamente o meno, di donarti una parte di sé, chiedendoti di proteggerla, questo significa che si fidava di te. Che ti credeva quella giusta. E se lo pensava lui, allora lo penso anche io»

La guardai, e lo feci a lungo. Le lacrime, stranamente, non avevano ancora deciso di inondarmi il viso, sebbene fossero lì, minacciose, a dirmi di essere pronte.

«Ti siamo vicini, Jane. Non abbiamo alcuna intenzione di lasciarti sola»

Ma io non ero pronta per loro. Quelle maledette iniziarono a sgorgarmi dagli occhi senza controllo, e io volevo a tutti i costi fermarle. Ma le parole di Carlton, ora in piedi sulla porta, e quelle di Helen, che ancora mi stringeva, mi fecero desistere. Scoppiai in un pianto senza singhiozzo e senza dolore, ma leggero come aria, libero come non lo era più stato. Piansi e, insieme, sorrisi, come d'impulso. E d'impulso abbracciai entrambi, stringendomi a loro e stringendoli a me, come per accogliere l'ennesima proposta di aiuto. Perché nessuno mi ha mai detto che avrei dovuto combattere da sola. Avevo solo avuto un'altra conferma.

«Grazie...»

Quando, quella sera, tornai a casa, a Nottingham, mi misi sul balcone ad attendere la mezzanotte, come mio solito. Guardai il cielo, attenta, il libro di Sherlock in mano, la sua sciarpa attorno al collo, ma per la prima volta non aspettai la neve. O meglio, non solo. In realtà, quasi speravo che, almeno per questo Natale, il cielo rimanesse limpido. Niente nuvole, niente neve, niente Billy. Solo il nero di una notte chiara, a ricordarmi l'azzurro del cielo di questa mia vigilia. Perché se la neve rappresentava Billy che festeggiava con me, il cielo azzurro della mia giornata voleva ricordarmi i suoi occhi blu che mi parlavano sempre, che mi trasmettevano milioni di sensazioni e parole mai dette.

Quasi immaginai loro due, Sherlock e Billy, mettersi d'accordo sul da farsi, discutendo sopra alla stella condivisa che era anche un po' mia. E li vedevo insieme a ridere, a ricordare. A parlare di me e delle mie motivazioni assurde, i miei pianti insensati, i miei sfoghi frequenti e noiosi, persino il mio tentativo impacciato e ingenuo di fumare una sigaretta.

Li vedevo. E l'immagine di loro due, insieme, magari anche con Amanda e mia nonna, mi scaldò il cuore con un soffio di pura gioia.

E indovina un po'? Alla fine non ha nevicato. Forse Sherlock ha cercato di dirmi che la bufera ormai è quasi finita.

20 Gennaio 2013

Il tempo è forse una delle cose più strane, complesse ed incomprensibili di questo mondo. È buffo, no? Un attimo ci sei e l'attimo dopo non più. Bastano pochi secondi ed ogni cosa cambia all'improvviso.

E, alla fine, questo 20 gennaio è arrivato. Non sono nemmeno sicura che sia ancora il 20 gennaio, a dire il vero. Però ti scrivo lo stesso come se lo fosse: è questa la mia data importante.

Oggi, alla fine, è nato il bambino. Con una calma senza eguali e un singulto appena udibile, è venuto al mondo ed è venuto per conoscerlo. Ma un attimo era insieme a me, a respirare la stessa aria e vivere dello stesso sangue, e l'attimo dopo già non c'era più. Mi ha lasciata sola anche lui. E saperlo mi fa tuttora provare una terribile sensazione che non so cosa sia. Lui ora non c'è più. Ancora una volta, non c'è più...

Sono in piedi, davanti alla finestra aperta che permette ad un rigido soffio di vento di entrarmi in gola e gelarmi le ossa. La stanza bianca è illuminata dalla luna, l'aria pesante che mi pesa sull'anima. Osservo la notte, così buia e silenziosa e piena di mistero, e ripenso a tutto quello che è successo in questi due giorni. Ripercorro questa linea con incertezza, forse paura, e lo faccio più e più volte, nella speranza che qualcosa cambi. Ma senza alcun successo.

Ripenso a ieri, il giorno di preparazione, e a quella mamma con cui condividevo la stanza. Stringeva tra le braccia la sua bambina appena nata, sorridendo felicemente, gli occhi lucenti e pieni di vita. Ripenso a quel senso inutile di gelosia che provai nel vederla e i suoi auguri per la mia, di nascita.

Ripenso al parto, lungo e veloce insieme, alle luci della sala operatoria, a Mary che mi stringeva la mano, alle sue parole sussurrate e rassicuranti, al primo rantolo del bambino, prima debole e poi sempre più forte, come una richiesta d'aiuto. Una richiesta che io ho brutalmente ignorato, con la sola conseguenza di un cuore infranto e lacrime di dolore.

Ripenso ad Alan, alla mamma e ai signori Holmes, che sono venuti a farmi visita dopo l'operazione. Ripenso ai loro sorrisi pieni di delusione, nei miei confronti e nei loro, perché ho preso la mia decisione e l'ho portata avanti fino all'ultimo, senza che loro siano riusciti a farmi cambiare idea.

Ripenso ad Alan e all'abbraccio che mi ha dato, al suo "È tutto finito, adesso" che, invece di rassicurarmi, mi ha fatto sentire ancora più male.

E ti giuro, ti giuro che tutto potrebbe essere davvero finito. Tutto potrebbe esserlo, dopo tanta attesa, se non fosse per quel maledetto sogno. Quell'illusione, impossibile quanto forse vera, che mi ha invaso la mente e non mi lascia in pace.

Ripenso a Sherlock, anche adesso. Ripenso al sogno che ho fatto su di lui. Alla sua voce che è tornata a parlarmi dopo mesi di oscuro silenzio, con quel suo tono così freddo eppure rassicurante. Mi ha detto l'ultima cosa che mi sarei aspettata da lui: ha detto che gli dispiace. Gli dispiace di essersene andato, di avermi lasciata sola in questa situazione, di non essere ancora tornato. Mi ha chiesto di cambiare idea, di aspettarlo ancora un po'. Perché mi conosce, ha detto, e sa che le uniche reali conseguenze di questa mia scelta saranno i sensi di colpa e una lenta autodistruzione.

"Aspetta ancora un po', Jane, perché sai bene che ci rivedremo ancora"

Sarebbe tutto finito: la cicatrice se ne andrà, i ricordi sbiadiranno e io potrò ricominciare. Ma finito non è e, di questo passo, so che non lo sarà mai.

Perché se fosse davvero tutto finito, allora io non starei camminando per questo corridoio e le sue luci artificiali, trascinandomi dietro la flebo, vagando pur sapendo, dentro di me, dove andare. Mi ritrovo davanti un'enorme vetrata, dietro alla quale decine di culle sono disposte in file ordinate, una moltitudine di blu e rosa e bianco così delicata da sembrare un quadro. Cerco con gli occhi l'unico lettino che per me ha importanza, ma non ho la minima idea di quale sia. Mi soffermo su uno, solo perché mi sembra che stia ospitando chi cerco: una piccola creatura dai capelli scuri e radi, il corpo minuto, il volto tranquillo, gli occhi blu chiusi.

E mi metto a fissarla. Per un minuto, due, cinque, forse un'ora. Forse dieci. Mi tengo il grembo con una mano, premendo forte, come se ancora non riuscissi a credere che lui non sia più qui, insieme a me. Stringo la stoffa del pigiama, strappandola quasi con le unghie, come se potessi stringere il suo corpo. Mi stupisce quanto piccola sia la sua figura, quanto fragile e innocente, quanto vulnerabile in questo mondo fatto di cocci di vetro sparsi sul pavimento e che si cerca a tutti i costi di evitare. Poi l'alba s'alza, illuminandomi il viso attraverso una finestra nel corridoio, ma io non mi muovo. Rimango immobile e vedo una vita cominciare, mentre la mia si ferma ancora una volta.

Finché una mano mi tocca la spalla e mi fa girare con un sobbalzo.

«Ehi» fa Alan, guardandomi stanco e sollevato insieme. «Ti ho cercata dappertutto. Non ti ho trovata nella tua stanza e mi stavo per preoccupare»

Lo guardo anche io, e poi mi volto di nuovo verso il nido, verso la culla blu. La guardo, mi fermo, respiro. Non posso.

Mi prende per le spalle, cercando di farmi girare. Forse ha capito perché sono qui. «Dai, torniamo...»

«È così piccolo...»

«Come?»

«Il bambino» ripeto, fermandomi per un secondo, senza distogliere lo sguardo da quella figura. «È così... Così piccolo»

«Forza, Jane, andiamo»

«Non posso farlo...»

Rialzo gli occhi verso di lui, trovando i suoi più confusi che mai.

«Ma che stai dicendo?»

Non posso.

«Mi dispiace, io... Io non posso farlo, non posso lasciarlo qui, lui...»

Inutilmente, mi copro la bocca con una mano, soffocando un rantolo pieno di tutto il mio dolore. Ma di nuovo scoppio, mi rompo in mille pezzi. Cado sul pavimento, scossa da un singhiozzo dopo l'altro, gli occhi bassi e pieni di lacrime.

Alan si china insieme a me. «Jane!»

«Lui ha bisogno di me, io devo proteggerlo, io non...»

Lui mi abbraccia, senza farmi finire. Mi stringe così forte a sé da mozzarmi il respiro. Mi lascia piangere, incurante della gente attorno a noi, che ci osserva e si domanda, senza risposte. Ma io, al contrario, forse ne avrò finalmente una.

«Cosa posso fare, Al?» piango, con un tono supplichevole, in cerca di aiuto per la prima volta.

Lui aspetta, respira, mi stringe forte a sé, in quel modo così... Così suo.

«Torna a vivere, Jane»

07 Agosto 2013

Caro papà...

Lo so: è strano anche per me, chiamarti in questo modo, ma... Non so, pensavo che fosse giusto così. Solo questo. Spero che non ti dia fastidio, come ormai non lo dà più a me.

Sono le tre del mattino, mentre ti scrivo, e per tutto il giorno non ho fatto altro che pensare alla possibilità di farlo. Dopotutto, sono passati sette mesi dall'ultima volta in cui ho preso in mano questo diario, e il mio "ritorno" potrebbe sembrarti fin troppo imprevisto, ma la verità è che... D'un tratto ho smesso. Solo smesso. Non ho più sentito il bisogno di scriverti, di sfogarmi con qualcuno che non mi avrebbe giudicata. È accaduto senza che io me ne sia neppure accorta, in un modo così naturale quanto improvviso. Però mi sono detta che almeno una conclusione decente la meritavi. Giusto per fare un lavoro preciso, per darti un epilogo su come sono andate a finire le cose.

E poi... Credo che sia giusto parlarti un po' di Aden.

In questi giorni, mi trovo a Saint Ives, in Cornovaglia, a prendermi una pausa dal caos di Nottingham e riposarmi un po' con l'aria di mare in compagnia di Alan e Georgia. Appena qualche ora fa, la luce dorata del tramonto sulla spiaggia illuminava l'acqua, scintillante di arancione e rosa. Io, Georgia e Alan ci siamo seduti sulla sabbia tiepida ad osservare attenti il crepuscolo, contemplando la calma e il silenzio della spiaggia, mentre Aden, tra le mie braccia, si lasciava cullare dal ritmo dolce delle onde. Alan gli accarezzava la testa, con un sorriso fiero e fare paterno. Dice che ha un talento naturale per il nuoto e che potrebbe persino diventare un atleta professionista, mentre Georgia lo vede più nell'ambito musicale, come direttore d'orchestra magari.

Sono due zii fantastici, loro. Hanno fatto da padrino e madrina al battesimo, insieme a John e Mary, che adesso escono insieme. È bello averli tutti e quattro con me, sai? Vedere quanto amino Aden, quanto affetto gli diano, quanta gioia ci sia nei loro sguardi mi dimostra solo quanto sbagliata fosse la mia idea di mollare le armi, e quanto bene abbia fatta a cambiarla. A fermarmi un attimo, in quella foresta arancione di autunno, ad ascoltare il battito di una nuova vita, a capire. A guardare quelle stelle, ascoltare le parole di quei sogni. Persino piangere è stata una delle scelte migliori, perché spezzarmi mi ha solo fatto comprendere quanto valga la pena rimettersi in piedi nonostante le gambe dolenti e il morale inesistente. Quanto ogni sorriso valga più di qualsiasi lacrima.

Sono passati sette mesi, e sono stati i mesi più strani di tutti. Eppure sono riuscita a godermi ognuno di essi, ogni momento, ogni bagnetto, ogni pappa, ogni notte insonne e ogni pianto urlato. Tutto. E tutto è stato davvero bellissimo.

E so perfettamente che il tempo, di attimo in attimo, scorre e che vola via come aria, sfuma nell'etere fino a scomparire, ma ormai non mi interessa molto: ho superato la paura dell'ignoto e dell'oblio. Perché per ogni volta che Aden si addormenta tra le mie braccia, al sicuro da tutti i pericoli del mondo, per ogni volta che ci sono solo io, insieme a lui, e nient'altro ad intromettersi, mi va bene tutto. Tutto, finché ci sarà ancora una volta in cui la mia testa toccherà la sua, facendomi così sentire importante, utile. Sentire come se non avessi più bisogno di essere protetta, ma solo di proteggere.

Sono passati sette mesi, e altri sette ne passeranno. Crescerò ancora, imparerò ancora, forse cambierò ancora. Come ho fatto nell'ultimo anno, in cui ho imparato ad accettare cosa su di me che appena un anno fa mi rifiutavo anche solamente di considerare, per paura o incoscienza.

Ho accettato il fatto di essermi innamorata, e che farlo non è stato per nulla sbagliato.

Ho accettato il fatto di essere diventata madre, e che esserlo, nonostante i pianti in piena notte e i biberon infiniti, mi ha portato tanta gioia inaspettata, insperata.

Ho accettato persino di essere tua figlia, e che non potrò mai cambiarlo.

Ma va bene così, davvero. Perché il sole, oggi, mi guardava e si lasciava guardare, scompariva dietro ad una scogliera, salutando un altro giorno per attenderne uno nuovo, e d'un tratto ho pensato a te, non so bene per quale motivo. Forse perché riusciva a darmi conforto senza fare davvero nulla, un po' come hai fatto tu nel corso di questi mesi: scrivere all'idea che mi ero fatta di te mi ha aiutata tantissimo a capire e a capirmi. Magari è per questo che mi è venuto spontaneo chiamarti papà.

E poi, a che serve continuare a portare rancore, se alla fine distrugge solo me stessa? Sono stanca di essere arrabbiata: ormai ho scelto di essere felice.

Perché è questo che Aden è per me, adesso: la fonte inesauribile del mio sorriso, ciò di cui ho sempre avuto bisogno, ciò che ho sempre desiderato per tornare a stare bene.

E adesso sono qui, a respirare aria fresca, a sentire l'infrangersi delle onde, a contemplare la notte stellata. E, finalmente, mi sento felice. Felice e, forse, anche coraggiosa. Più coraggiosa di quanto mi sia mai sentita.

E con questo mio nuovo coraggio, voglio concludere quella che sarà la mia ultima lettera. Magari, un giorno, potrei pure inviarti questo diario, accompagnato da una mia breve nota in cui spiegarti i motivi del mio ritardo nel provare a parlarti. Potrebbe essere un inizio, che dici?

In ogni caso, penso che per ora sia meglio lasciarti così, con quest'immagine di una me cresciuta, diversa, mai vista. Nonostante io, tutto sommato, sento di essere sempre rimasta

Semplicemente,

Jane

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